Quando si parla di un Premio Nobel per la letteratura nel 1934 “per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale”; quando si parla di un poeta e scrittore italiano del XX secolo; di chi ha avuto come maestri Capuana e Verga; si parla evidentemente della vita di Luigi Pirandello, vanto per la nostra letteratura novecentesca. Tutte le opere che Luigi Pirandello ha scritto nella sua vita vengono acclamate da numerosi studiosi e letterati della nostra epoca. La visione generale dell’Opera pirandelliana è volta alla tragicità della vita; alla ricerca della verità; al mostrare l’incapacità dello Stato di fronte ai bisogni della società; alla crisi d’identità dei personaggi; “alla volubile esistenza quotidiana”; alla ricerca della componente spirituale nell’uomo; all’eterno contrasto tra sostanza e apparenza che sta alla base del relativismo conoscitivo: ogni creatura pirandelliana, ogni suo personaggio, infatti, crede di sapere la verità delle cose, ma le stesse vengono viste da ognuno di essi secondo una prospettiva diversa perché, appunto, esiste una realtà eterogenea piuttosto che oggettiva. Inoltre ogni soggetto – in base alla teoria pirandelliana della lanterninosofia – vede la realtà dei fatti per mezzo di un lanternino che, attraverso un filtro colorato, dà della realtà una visione puramente personale, soggettiva, non oggettiva, come succede, per fare un esempio, ne “Il Fu Mattia Pascal”. Come se non bastasse il lettore di Pirandello si trova spesso a ribaltare l’idea che si era fatto sul personaggio X quando legge ciò che riguarda o sta dicendo il personaggio Y; è quello che accade leggendo il romanzo Suo Marito: se all’inizio il lettore vede la realtà delle cose attraverso il punto di vista di Silvia Roncella, moglie di Giustino Boggiolo, dandole ragione, andando avanti con la lettura del romanzo scopre che anche la versione dei fatti del marito di Silvia è giusta, quindi chi legge si trova davanti a due visioni corrette della realtà ed è costretto a cambiare l’idea primitiva. Oltre a ciò nella grandiosa Opera pirandelliana si possono individuare altri fattori come la descrizione delle dinamiche sociali e l’esposizione di fattori puramente casuali che caratterizzano la vita degli individui, i quali pertanto non possono fare progetti per il futuro perché esso è totalmente imprevedibile.
Tra i capolavori – romanzi, novelle, commedie e drammi – più e meno conosciuti ricordiamo L’esclusa, pubblicato a puntate nel 1901 su “La Tribuna”, poi pubblicato in volume nel 1908; Il turno (1902); Il Fu Mattia Pascal (1904); Suo marito (1911); Pensaci, Giacomino, commedia del 1916; Novelle per un anno (1922); Sei personaggi in cerca d’autore (1921), in cui il richiamo a Dante Alighieri è assai potente come lo è nel romanzo Uno, nessuno e centomila (1926).
Nato ad Agrigento nel 1867, Pirandello si appassionò, sin da bambino, allo studio della letteratura. Intorno ai 19 anni si iscrisse all’Università La Sapienza di Roma presso la facoltà di filologia romanza e visse nella casa romana dello zio materno. A seguito di un diverbio che ebbe con il titolare della cattedra di letteratura latina – il prof. Onorato Orcioni – si trasferì a Bonn, in Germania, dove si laureò nel 1891 discutendo una tesi sulla parlata agrigentina – che era la lingua stessa dei suoi genitori e parenti stretti – “Foni ed evoluzione fonetica del dialetto di Girgenti” – in cui egli suddivide in aree linguistiche la sua provincia di nascita. Per la sua tesi di laurea lo studente Pirandello condusse uno studio scrupoloso, prendendo in considerazioni gli antichi canti popolari siciliani – agrigentini nella fattispecie – proverbi e frasi idiomatiche, soffermandosi spesso anche sull’etimologia delle parole che incontrava man mano nella ricerca. Questa componente, che potremmo anche definire professionale di Pirandello, non mancava della passione per le figure retoriche e, nella fattispecie, per l’allegoria usata perché potesse diffondere una certa morale, religiosa o politica, attraverso diverse immagini letterarie allusive spesso difficili da comprendere anche da critici letterari che non mancano di dare interpretazioni molto divere tra loro.
“È da tanti anni a servizio della mia arte… una servetta sveltissima… Si chiama Fantasia. Un po’ dispettosa e beffarda…”, scrive nella prefazione di Sei Personaggi in cerca d’autore, in cui Pirandello narra – in veste di autore filosofo bisognoso di una componente essenzialmente spirituale e non materiale – per cercare di dare un senso alla vita.
Tuttavia c’è una caratteristica di Luigi Pirandello che sta emergendo solo negli ultimi tempi: si può certamente affermare che lo scrittore siciliano è stato uno studioso dell’Opera dantesca e soprattutto della Divina Commedia, la quale si nasconde, secondi alcuni studi, tra cui le ricerche della dottoressa Michela Mastrodonato – già docente di Lettere, saggista, giornalista, studiosa di Dante e autrice del libro “Pirandello e l’ossessione dantesca. Uno, nessuno e centomila, riscrittura allegorica della Commedia” (Carocci 2021) – proprio dietro uno dei suoi meravigliosi romanzi.
L’inizio di questa storia, che vede Pirandello come cultore di Dante Alighieri, risale al 1939 quando – come si legge in Repubblica (1995) – Giovanni Battista Montini, già monsignore e sostituto della Segreteria di Stato del Vaticano nonché futuro papa Paolo VI, firmava una lettera scritta di proprio pugno in cui diceva a chiare lettere che Luigi Pirandello, o meglio l’Opera pirandelliana, non era affatto, come si credeva, ostile al cattolicesimo. Il Montini fece questa affermazione poiché, durante gli orribili anni della Seconda guerra mondiale, ricevette dagli eredi di Pirandello – come forma di ringraziamento per non aver inserito negli anni Trenta i testi pirandelliani nella lista nera – una copia della Divina Commedia appuntata proprio dal drammaturgo siciliano. La Commedia in questione era andata perduta, ma qualche decennio fa venne ritrovata nei misteriosi scaffali della Biblioteca Apostolica della Santa Sede in Vaticano. A giudicare dal testo in questione, si può dire che Luigi Pirandello si soffermò maggiormente sui canti del Paradiso piuttosto che su quelli dell’Inferno e del Purgatorio dal momento che solo la terza Cantica è ricchissima di glosse lasciate dall’autore de “I vecchi e i giovani” (1909). Tuttavia va detto che i richiami a Dante nella scrittura pirandelliana sono molto numerosi e risalgono ancora prima del ’39. Infatti, quando era studente, Pirandello fa riferimento al Poeta fiorentino nelle sue lettere inviate ai familiari come, per esempio, quando scrive che la casa in cui vive a Palermo gli ricorda il verso: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. Più tardi, in aggiunta, nel 1921, il già professor Pirandello pubblicò un suo scritto – “La poesia di Dante” – per commemorare la morte del Sommo Poeta avvenuta seicento anni prima.
In Uno, nessuno e centomila possiamo ritrovare moltissime allusioni a Dante Alighieri e alla Divina Commedia grazie al già citato studio della Mastrodonato che ha magistralmente indagato sul romanzo a livello allegorico, etimologico e stilistico: il padre di Vitangelo Moscarda, per esempio, è un usuraio e noi ben sappiamo – mediante la Tenzone del XIII sec. tra Forese Donati e Dante – che anche il padre di Dante stesso, Alighiero di Bellincione, lo era; inoltre non è un caso se il naso pendente verso destra del protagonista del romanzo ricordi la fisionomia stessa di Dante. Ma i riferimenti continuano: Vitangelo Moscarda, per esempio, comincia a vivere la sua singolare esperienza, si potrebbe dire, “Nel mezzo del cammino di nostra vita”, cioè quando aveva 28 anni, questa età sarebbe stata proprio voluta da Pirandello in relazione al Sommo Poeta giacché la metà degli anni di Dante – nato nel 1265 e morto nel 1321 – equivale esattamente al numero 28. Non è un caso neppure l’atmosfera che caratterizza i luoghi del romanzo pirandelliano man mano che lo si legge: sinistra dell’Inferno dantesco all’inizio; meno tenebrosa del Purgatorio e alla fine molto più armoniosa del Paradiso. Inoltre molti personaggi di Uno, nessuno e centomila incarnano le personalità di quelli della Divina Commedia, pertanto l’immensa Opera dantesca diventa la chiave di lettura del suddetto romanzo e, in generale, dell’Opera pirandelliana e Moscarda – il nome ci fa venire in mente la mosca, insetto fastidioso che tormenta i cani proprio come le fiamme tormentano gli usurai nel III girone del VII cerchio dell’Inferno – è certamente l’alter ego di Dante Alighieri.
Luigi Pirandello, scrittore straordinario e visionario, dava vita ai suoi personaggi che, già avendo un’esistenza propria, mettevano fuori la voce – come Dante che, “mossi la voce”, venne udito all’Inferno da Paolo e Francesca (v. 79-80) – e aspettavano solo di essere messi in scena dal loro autore. Attraverso le sue creature e immergendosi nel suo spirito travagliato Pirandello è stato maestro nell’investigare sulla vita che cambia continuamente. La religione fu per lui la spinta per dedicarsi con anima e corpo allo studio dell’io e, lungo questo viaggio nell’inconscio, non forse propriamente la Lectura Dantis, ma lo studio silenzioso di Dante Alighieri fu assolutamente centrale per scrivere le sue memorabili opere letterarie.
La morte lo raggiunse nel 1936. Il silenzio, la nudità, la semplicità, l’essenziale e la libertà furono le sue ultime volontà racchiuse in un vaso greco del V sec. a.C. Un antichissimo vaso che, con qualche coup de thèâtre, viaggiò verso Grigenti affinché le ceneri fossero sparse nella campagna in cui venne al mondo. Più tardi si scoprì che l’urna, oltre alla cenere di Pirandello, conteneva quella di tanta altra gente. Pertanto non una identità, ma molte, tutte insieme, e nessuna ben definita. Ceneri funerarie di uno, nessuno e centomila. Ceneri funerarie anche di quei sei personaggi e del loro autore.