Dopo sette anni di galera, il 17 Febbraio del 1600 Giordano Bruno fu bruciato vivo a Campo de’ Fiori. Fu condotto al patibolo con la mordacchia, l’apparecchio che impediva al condannato di aprire bocca per parlare: si temeva che Bruno potesse arringare la folla e denunciare il tribunale che lo aveva condannato e con esso delegittimare il potere papale di cui era espressione. Resistette fino alla fine perché aveva compreso, al contrario di Galileo che giunse all’abiura, che poteva dar valore alle sue idee sacrificando quanto aveva di più caro: la vita.
Il suo messaggio non è scomparso con lui; anzi, col tempo e con il progressivo affermarsi dei principi della tolleranza e della libertà di coscienza e di religione, il rogo di Campo de’ Fiori è diventato un atto accusa contro la pretesa della Chiesa di diffondere il messaggio evangelico reprimendo con violenza ogni “eresia”. In lui sono presenti un groviglio di intuizioni scientifiche felici e di motivi magici affascinanti operanti in una cornice metafisica audace e spregiudicata che caratterizza la sua speculazione filosofica e Bruno si presta ad essere indicato quale emblema di un’epoca, come quella Rinascimentale, ricca di contraddizioni e di conflitti, legata ancora per molti versi alla tradizione scolastica medievale, ma, pur sempre, faticosamente impegnata in un’opera di rinnovamento filosofico e scientifico in grado di fornire una nuova immagine del mondo in contrapposizione a quella aristotelico-tolemaica.
Giordano Bruno era nato a Nola nel 1548 e nel 1565 entrò nel convento di San Domenico Maggiore vestendo l’abito di novizio domenicano; si trattò, probabilmente, di una scelta di convenienza dato che il Nolano era già orientato in senso antitrinitario: l’antitrinitarismo è connesso, infatti, al nocciolo speculativo originario della sua filosofia: si intreccia alla concezione della divinità, degli attributi divini, alla visione del rapporto tra finito e infinito. Egli stesso molto tempo dopo confesserà di aver cominciato molto presto a dubitare del dogma della Trinità e di aver interpretato in senso neoplatonico, come anima del mondo, lo spirito santo.
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Nel 1576 fuggì a Roma, ma se ne allontanò poco dopo e così iniziarono le peregrinazioni per l’Italia e l’Europa; rientrò nel nostro Paese e venne imprigionato e processato a Venezia per eresia dal tribunale della locale Inquisizione. Nel 1593 venne trasferito a Roma, dove rimase fino alla sua morte.
Da quella forza speculativa che tutti gli riconoscono scaturì la messa a fuoco di alcuni nodi fondamentali del pensiero moderno: il rapporto tra finito e Infinito, tra libertà e necessità, tra individualità e universalità, tra tempo e eternità, tra vicenda ciclica e costruzione umana, tra mondi e universo, tra luce e ombra. Egli, del resto, rivendicò pienamente il diritto alla libertà della ricerca, del filosofare, che venne affermata contro la tendenza a delimitarlo e a ridurlo, da parte delle diverse scuole accademiche e delle autorità religiose. In realtà Bruno è un pensatore anticristiano. Non crede che esistano Inferno, Purgatorio e Paradiso; né crede all’immortalità dell’anima individuale, bensì alla metasomatosi: l’anima da un corpo passa ad un altro, anche di animale, e la superiorità dell’uomo non è data dall’anima ma, riprendendo Anassagora, dalla mano affinché l’uomo, come afferma nello Spaccio de la bestia trionfante, <<non contempli senza azione e non operi senza contemplazione>> e possa realizzarsi come creatività ed energia produttrice; non per caso, l’inquisitore Bellarmino gli impose ripetutamente di spiegare il rapporto tra corpo e anima. Di più: non crede al peccato originale, rifiuta la creazione nei termini della tradizione tridentina, non accetta la Trinità, respinge l’Incarnazione perché riduce l’Infinito al finito; predilige come sapienza vera quella egizia e non quella cristiana, che anzi considera un’età delle tenebre nella storia dell’uomo, prima che ritorni finalmente l’età della luce, quella egizia di cui lui stesso si propone come messaggero.
A distanza di più di quattrocento anni la Chiesa cattolica chiede scusa per il rogo, ma non procede alla riabilitazione di Bruno perché, per quanto riguarda «il caso Giordano Bruno, non ci sono gli estremi per una tale ipotetica operazione, come invece è avvenuto, ad esempio per Jan Hus e Galileo Galilei».Non c’è dubbio che Bruno fosse il portatore di un paradigma radicalmente nuovo di valori, di società e di civiltà. In tutta l’opera del Nolano, pur nella varietà dei temi culturali e dei toni espositivi, è individuabile un filo conduttore che a ragione può essere considerato la linea unificante di tutto il suo pensiero: dalla prima all’ultima opera è costante lo sforzo appassionato di perfezionare la presentazione di una nuova visione cosmologica, caratterizzata dall’idea dell’universo come realtà unitaria e vivente da contrapporre al cosmo aristotelico.
Alexandre Koyré, un grande storico della filosofia, ha scritto: «Sviluppare l’idea del sistema fisico: questo fu il compito di Bruno. Opera disuguale, senza dubbio, tumultuosa e anche molto confusa e inoltre viziata dal profondo animismo del suo pensiero. E, tuttavia, questo pensiero oscuro e confuso ha svolto una grande funzione nella storia della scienza. Funzione positiva perché con una geniale intuizione, Bruno aveva capito l’infinitismo della nuova astronomia» (A. Koyré, Studi galileiani, Torino, 1979, pp. 172-173)
La nozione di progresso del Nostro non era basata sullo sviluppo economico e strumentale, ma sulla piena esplicazione dell’intelletto umano, della sua dignità, della sua libertà, del suo conviviale e armonioso rapporto con la natura e la propria corporeità, secondo quanto scrive nella Cabala del cavallo pegaseo.
Pochi pensatori hanno avuto il ruolo di Giordano Bruno nella cultura italiana ed europea. Pochi autori, infatti, continuano ad essere miti così profondi della coscienza europea, come il filosofo di Nola: colpisce la straordinaria ricchezza di una vicenda umana e intellettuale sviluppatasi, sul piano pubblico, nel corso di poco più di un decennio, ma capace di mettersi in discussione, variando i motivi strutturali della sua filosofia. Colpisce la capacità di Bruno nel proiettare il suo sguardo sul futuro, di individuare aspetti fondamentali di una moderna visione dell’uomo, della civiltà, dell’universo; egli riesce ad oltrepassare la visione copernicana, andando oltre l’impostazione matematica. Solo dopo Copernico, infatti, fu possibile spezzare le catene e intrepidamente dispiegare le ali verso la conoscenza e la verità.
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“Arcane porte, scrive Bruno, allora si aprirono e le prigioni si infransero di fronte allo spettacolo di un cosmo aperto, un universo infinito, immenso in ogni sua parte e tutto”. Riprendendo Lucrezio e andando oltre il “divino” Cusano, Bruno guadagna, dunque, una nuova visione dell’universo, che non è fondata su calcoli matematici o su osservazioni astronomiche, ma sulla sua capacità di intuizione.
Come scrive Lovejoy, per quanto gli elementi della nuova cosmografia potessero aver già posto le loro radici in talune menti, è soltanto Giordano Bruno che deve considerarsi come il rappresentante principale della dottrina di un universo decentrato, infinito e infinitamente popolato poiché non solo egli predicò questa dottrina per l’Occidente d’Europa col fervore di un evangelista, ma diede anche per primo una compiuta enunciazione dei motivi grazie ai quali essa sarebbe stata poi accettata dal grosso pubblico. La infinità dello spazio non era mai stata affermata in precedenza in modo così completo, definito e consapevole: la più chiara e potente presentazione a proposito dell’unità e dell’infinità del mondo si trova nel dialogo italiano De l’infinito universo e mondi e nel poema latino De immenso et innumerabilibus.
Scrive Bruno: «Uno è il loco generale, uno il spacio immenso che chiamar possiamo liberamente vacuo; in cui sono innumerabili e infiniti globi, come vi è questo in cui vivemo e vegetemo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo». Pertanto, ai pensatori medievali che si erano posti la antica e famosa quaestio disputata «perché Dio non ha creato un mondo infinito?» (questione cui gli scolastici medievali rispondevano negando la possibilità stessa di una creatura infinita) Bruno affermava semplicemente (ed era il primo a farlo): «Dio lo ha creato; Dio non poteva fare altrimenti». Infatti, il Dio di Bruno, cioè l’alquanto fraintesa infinitas complicata del Cusano, non può che esplicarsi ed esprimersi in un mondo infinito, infinitamente ricco ed infinitamente esteso. «Così si magnifica l’eccellenza di Dio, si manifesta la grandezza de l’imperio suo: non si glorifica in uno, ma in soli innumerevoli: non in una terra, un mondo, ma in duecentomila, dico in infiniti».
La perdita da parte della Terra della sua posizione centrale e quindi unica, portò inevitabilmente alla perdita, da parte dell’uomo, della sua posizione unica e privilegiata in quello che è stato definito il dramma teocosmico della creazione, di cui l’uomo era la figura centrale e insieme la scena.
Altro tema di grande spessore nella filosofia di Bruno è quello della Natura. La Natura accoglie tutte le cose in una simbiotica fusione; essa, però, non è più il ricettacolo passivo che aspetta la sua forma da un principio spirituale separato, né tantomeno è la macchina morta che è lecito profanare e violentare, secondo la visione cartesiana e baconiana. La Natura (natura naturata) è mossa e fatta vivere da un principio vitale interno (natura naturans) che è come la sua anima e si identifica con la divinità. Essa è materia, ovvero la mater, la grande madre arcaica e attiva che, come scrive nel De la causa, principio e uno, «incessantemente partorisce le molteplici forme e specie esistenti traendole dal suo grembo come la donna gravida di prole»; è, pertanto, ciò che dà la vita e per questo motivo è unica e unitaria dovunque. Scrive Bruno: «Ovunque pulsa la stessa vita che è in noi, la tempesta è in noi come respiro, i fiumi son le nostre vene, le rocce son le ossa, e il cervello è nube, cielo e firmamento e la luna, la valle e la pietra son fratelli carnali» (De l’infinito, universo e mondi). Ma è, al tempo stesso, la trama segreta dell’intelligenza, anch’essa unica e unitaria dappertutto, che si caratterizza come Mens insita omnibus e non solo come Mens super omnia nella misura in cui rappresenta una forza vitale e intelligente capace di armonizzare le diverse parti secondo rapporti di omologia e reciprocità che rendono tutto intrecciato, tutto complesso. Di questa unica materia animata è composto tutto l’universo. Essa pur rimanendo sempre identica è soggetta a un incessante divenire, si trasforma continuamente; esiste una mole materiale, sempre identica a sé stessa nel variare delle sue forme accidentali, animata dall’interno da un solo principio formale. In un passo della Cena delle ceneri, Bruno si domanda «se una è la materia delle cose, in un geno, se due sono le materie, in due geni: perché ancora non determino se la sustanza e materia, che chiamiamo spirituale, si cangia in quella che diciamo corporale e per il contrario, o veramente non. Cossì tutte le cose nel suo geno hanno tutte vicissitudine (sottolineatura mia) di dominio e servitù, felicità e infelicità, de quel stato che si chiama vita e quello che si chiama morte, di luce e tenebre, di bene e male. E non è cosa alla quale naturalmente convenga essere eterna, eccetto che alla sustanza, che è la materia, a cui non meno conviene essere in continua mutazione». In questa Natura l’uomo ha voluto prendersi un posto centrale, che in realtà non gli spetta; ma non v’è dubbio che di quella Vita e di quella Mente l’essere umano rappresenta il grado più elevato di organizzazione. Dalla Natura, peraltro, l’uomo ha ricevuto preziosi strumenti: la memoria, la magia e soprattutto, come dicevamo prima, la mano come strumento di intelligenza, tangibile manifestazione del lavoro umano e della sua straordinaria creatività.
Anche a proposito del concetto di materia, Bruno supera la distinzione aristotelica tra materia e forma, che può valere per i singoli esseri in quanto rappresentano manifestazioni particolari e transeunti, ma non per l’universo nella sua totalità. Da ciò scaturisce che la materia è principio vero, attivo, e ha propria energia creatrice; da questo punto di vista riprende Avicebron, secondo il quale c’è una sola forma e una sola materia, ricettacolo delle forme, e pertanto i singoli esseri della natura non sono in sé reali, ma solo formazioni temporanee dell’unica realtà universale. E sempre seguendo l’elaborazione di Avicebron, Bruno sostiene l’arditissima tesi che la materia non è solo corporea ma anche incorporea e non vive in modo separato dalla forma, così come la forma non vive scissa dalla materia. E questo legame in Bruno diventa unità, anzi identità.
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Come ha dichiarato un eminente studioso, dobbiamo renderci conto che ci troviamo di fronte a uno dei più grandi pensatori della storia umana, che per tanti anni nelle carceri dell’Inquisizione soffrì atroci tormenti, che lo resero il simbolo estremo della forza del libero pensiero e parallelamente dell’intolleranza religiosa.
In questi tempi, in cui intolleranza e negazione della libertà sembrano riaffacciarsi all’orizzonte della nostra società, il valore della testimonianza di Giordano Bruno ritrova tutto intero il suo valore simbolico e diventa monito contro ogni tentativo di cancellare la memoria.
Giordano Bruno prima di morire bruciato vivo nella piazza di Campo de’ Fiori, rivolgendosi alla Chiesa esclamò: «Forse avete più paura voi nel condannarmi che io nel subire la condanna». Non c’è dubbio che in questa frase si riconosce il personaggio che nell’arco della sua vita è stato capace di sfidare i potenti d’Europa – re, principi, papi, cardinali e vescovi – con i quali era venuto a contatto dal momento in cui era scappato da Napoli per andare a Roma. E dopo aver girato le principali corti europee, tornerà nel 1591 in Italia, a Venezia, su invito del nobile veneziano Mocenigo, che da lui desiderava apprendere l’arte della memoria, ma che l’anno dopo lo denuncerà per eresia al tribunale veneziano dell’Inquisizione.
Le accuse nei confronti di Bruno erano pesantissime: secondo Mocenigo, il filosofo nolano rifiutava ogni religione, negava i dogmi cristiani e addirittura affermava che Cristo era un mago. Queste affermazioni ponevano Bruno in una posizione molto distante da Erasmo, che su di lui aveva esercitato una profonda influenza: ma per Erasmo dalla crisi si usciva ritornando all’autentica predicazione evangelica, all’originario messaggio di Cristo, riformando la Chiesa. Al contrario, l’atteggiamento di Bruno nei riguardi della religione ripeteva, o forse peggiorava, quello di Averroè: la religione rappresentava un assurdo sistema di credenze; aveva una sua utilità «per l’istituzione di rozzi popoli che denno esser governati», era un complesso di superstizioni contrarie alla ragione e alla natura. Voleva far credere che la filosofia fosse una pazzia e che l’ignoranza era la più bella scienza del mondo.
Il tema unificante, l’essenza della sua filosofia, è l’infinità, infinità che non era mai stata affermata prima di lui in modo così completo, definito e consapevole. Era un cosmo dove non esistevano più dualismi metafisici, gerarchie ontologiche, supremazie temporali o spaziali, dove non si poteva più nemmeno separare il basso dall’alto, l’inferiore dal superiore, dove vi era, insomma, tolleranza, uguaglianza e libertà. Bruno fu sicuramente uomo del suo tempo perché l’aspirazione alla libertà di pensiero appartenne al Rinascimento; certo, però, che nessuno la espresse in modo radicale quanto lui. Altri suggerivano di procedere in «maschera», cioè di dissimulare; Bruno, invece, pur riconoscendo la necessità di dissimulazione rese pubblico omaggio alla libertà. La Chiesa fu allarmata da questo metodo di pensiero, dalla capacità del nolano di proiettare il suo sguardo sul futuro, di individuare aspetti fondamentali di una moderna visione dell’uomo, della civiltà, dell’universo.