Madagascar è un mediometraggio di 53 minuti ispirato al racconto Beatles contra Duran-Duran della scrittrice cubana Mirta Yánez. La pellicola narra il rapporto conflittuale tra madre e figlia, una relazione piena di incomprensioni e reciproche stranezze che sembrano un esercizio di comunicazione umana. La madre è una professoressa universitaria che ha perso la capacità di sognare, mentre la figlia adolescente sogna di fare un viaggio in Madagascar.
Fernando Pérez mostra tutta la sua capacità di costruire atmosfere oniriche e di utilizzare al meglio strumenti tecnici come grandangolo e ralenti. La prima fase del film vede un folto gruppo di cubani che avanza in bicicletta con una cadenza lentissima e teatrale. Il regista vuole stigmatizzare l’invasione delle biciclette dai paesi asiatici per risolvere il problema della mancanza di carburante e la crisi dei mezzi di trasporto. Vediamo la protagonista mentre si confida al medico durante un’analisi psicologica: “Sogno la realtà. Sogno quel che vivo. La tortura è che sogno sempre le stesse cose”. Il suo dramma è che non sa più sognare, ma ama il lavoro e dopo il divorzio vive con la figlia Laurita e le dedica ogni attenzione. Un bel giorno la figlia comincia a cambiare, pare non interessarsi più alla scuola, diventa abulica, si mette a dire che la realtà circostante non le basta più, vorrebbe andare in Madagascar. “So bene quello che non voglio. Essere come te”, dice con disprezzo alla madre che rappresenta il passato, una vita che proprio non vorrebbe. Il Madagascar, invece, è il sogno, l’ignoto, la speranza di un futuro diverso, il viaggio, la voglia di fuga e di vivere un’esperienza nuova. Laurita vuole fare una vita diversa da quella della madre e da buona figlia adolescente si ribella per costruire una realtà nuova. Fernando Pérez dipinge un’Avana onirica e surreale, popolata da volti di giovani rockettari e di vecchi grinzosi immersi nel passato. Una colonna sonora costruita su brani di bolero e caratterizzata da un lungo pezzo d’opera come Nessun dorma di Puccini – interpretato da Domingo, Pavarotti e Carreras – conferisce al lavoro un andamento lento e malinconico. Laurita si trasforma davanti agli occhi della madre, è una donna in formazione che si lascia andare alla commozione davanti ai capolavori artistici e sui tetti dell’Avana come in preda alla Sindrome di Stendhal. Il regista racconta con bravura la monotonia della solita vita, il lavoro sempre uguale, una società immobile, le cose che non cambiano mai. Non è difficile vedere una critica neppure troppo velata alla società cubana che non si evolve e resta ancorata al passato, mentre la ragazzina che sogna il Madagascar rappresenta la giovinezza che vorrebbe scoprire nuovi orizzonti. Laurita diventa credente, la madre tollera fino ai limiti del possibile, ma finisce per cacciarla di casa quando le porta a cena un gruppo di poveri. La mamma è infuriata perché la ragazza non comprende che il cibo non basta neppure per loro. La parte finale del film è accompagnata da una colonna sonora triste e suadente, ritrae la madre sempre più sola seduta alla finestra in attesa del ritorno di una figlia perduta. La madre guarda i battelli passare, mentre temporali tropicali sconvolgono la città e confondono i pensieri. Il tono è quasi da tragedia greca e rende palpabile il dolore di una madre che crede di aver perduto l’unico amore della sua vita. A tratti pare di assistere a una serie di sequenze prelevate da Aspettando Godot, ma anche la lezione del teatro dell’assurdo di Ionesco è ben assimilata. Alla fine ogni cosa è di nuovo al suo posto, la madre è ancora al lavoro e la figlia torna a scuola, ma il dramma si perfeziona con la fine dei sogni. La figlia è diventata come la madre, non è più capace di sognare, sogna la realtà e ogni giorno è la stessa cosa. Adesso è la madre che desidera andare in Madagascar e assapora una nuova voglia di fuga. Un bolero triste chiude il film mentre passa un treno, simbolo della vita che scorre e del tempo che passa modificando l’esistenza. I figli diventano come i genitori, risucchiati da un vecchio ingranaggio, ma quando è troppo tardi sono proprio i genitori a cercare la fuga da una realtà consueta. La pellicola è introspettiva, analizza i conflitti generazionali, scava in profondità nei caratteri ed è ricca di monologhi interiori. Pérez cita Fellini, Bergman, persino Marco Ferreri, e sfrutta molte intuizioni surreali di Samuel Beckett.
Regia: Fernando Pérez. Durata: 53’. Soggetto e Sceneggiatura: Fernando Pérez, Manuel Rodríguez Ramos. Fotografia: Raúl Pérez Ureta. Montaggio: Julia Yip. Musica: Edesio Alejandro. Suono: Ricardo Istueta. Direzione Artistica: Onelio Larralde. Produzione: Santiago Llapur per ICAIC (Cuba). Distribuzione: Distribuidora Internacional de Películas ICAIC. Interpreti: Zaida Castellanos, Laura de la Uz, Elena Bolaños, Jorge Medina, Roberto Delgado, Nancy Rodríguez. Alcuni Premi: Selezionato tra i film più significativi dell’anno, Associazione Stampa Cinematografica di Cuba (1994); Menzioni d’onore, Premio della Critica, Premio Speciale della Giuria, Festival del Nuovo Cinema Latinoamericano (1994); Miglior Regia, Miglior Montaggio, Migliore Musica Originale, Miglior Fotografia, Miglior Scenografia, Festival Nazionale UNEAC di Cinema, Radio e Televisione (1995); Premio Speciale della Giuria, Festival del Cinema Ispanoamericano di Huelva (1995); Gran Premio della Giuria, Festival Internazionale del Cinema di Friburgo (1995); Miglior Pellicola, Miglior Regia, Miglior Fotografia, Festival Internazionale di Festroia (Italia) (1995); Premio della Giuria, Sundance Film Festival (1996).