Ettore, ragazzo. Valerio, suo padre (poliziotto). Ettore e Valerio uniti per anni, sincroni, due gemelli siamesi seppure di dimensioni e altezze diverse, la figurina e l’album, poi ostili persi lontani smarriti uno all’altro. Ettore e Valerio che finiscono sui lati opposti della barricata, uno a difendere l’occupazione di uno stabile, l’altro a far mulinare il manganello. Nello spazio (breve) della riconciliazione offerta ai due protagonisti di “Io ti cercherò” di Massimo Bavastro (Longanesi) dalla laurea del ragazzo – riconciliazione che la vita spazzerà via -, è Ettore a inchiodare Valerio: “E perché non m’hai cercato?! Dovevi cercarmi, e se non mi trovavi dovevi continuare a cercarmi, è questo che fanno i padri!”. Ettore non lo sa, non lo può sapere, ma sta pronunciando una sorta di consegna alla quale si incollerà la vita del padre. Valerio non potrà fare altro che andare alla ricerca del figlio morto; una ricerca rovesciata, votata alla sconfitta. La ricerca del figlio amato perso diventato estraneo sconosciuto.
Valerio indaga. Scende all’inferno. Si fa ossessionare, diviene egli stesso ossessione. Testardo, ostinato, maniacale. L’indagine lo tiene in vita e rischia di ucciderlo: è il filo spinato che tiene unito quel che resta di Valerio e, allo stesso tempo, gli lacera la carne. Valerio ormai è un resto: quel che resta di un padre a cui hanno ucciso il figlio e che scopre, poco alla volta, un pezzo dopo l’altro, che ciò in cui ha sempre creduto è solo menzogna. Ciò che lo rassicurava – la rete di protezione che lo circondava – è ciò che lo ha tradito. Ciò che lo inquietava, che divergeva da tutto quello in cui si riconosceva, diventa lo uno squarcio, l’apertura, la fessura attraverso la quale potrà respirare.
“Ho sempre pensato ai figli come a recipienti vuoti. Ho sempre pensato che il compito dei genitori fosse riempire questi recipienti, metterci dentro quello che sanno, quello che la vita gli ha insegnato. Ma Ettore non è mai stato un recipiente vuoto…
“Pochi giorni fa ho sentito una cosa alla televisione. Non garantisco, posso pure aver capito male. Ma se invece ho capito bene, nei Paesi arabi quando nasce un figlio il padre perde il proprio nome e diventa ‘il padre di’. Se si chiama… Valerio,e suo figlio… Ettore…il suo nome diventa ‘il padre di Ettore’. Perché non è solo il padre che genera il figlio. È anche il figlio che genera il padre: che gli insegna le cose, gli fa vedere la vita in un altro modo. Ecco. Per tutta la vita ho pensato a Ettore come a un recipiente vuoto, e mi sono incazzato ogni volta che mi accorgevo di non riuscire a riempirlo. Ma la veirtà è che il recipiente ero io”.
“Nascosto” dentro l’architettura di un poliziesco, che procede come un treno senza sbavature, “Io ti cercherò” è un libro sulla paternità. Un libro splendido. Perché dentro una storia perfettamente dosata nei suoi ingredienti, scandita da pedinaggi indagini esami colpi di scena, Massimo Bavastro ci consegna uno sguardo assieme amaro e tenero sulla paternità, sulla trama di distacchi, di strappi, di ritorni che è ogni paternità. Da semidio, il padre si riduce, rimpicciolisce poco alla volta, diventa allo stesso tempo un essere ingombrante e lillipuziano. Sfocato. A Valerio è toccato questo, questa condanna: non essere più riuscito a mettere a fuoco suo figlio, annebbiato dalla diversità che si è incuneata tra loro, dall’incomunicabilità che è si slargata, come un pozzo buio. Questo fa la crescita: allontana, sfoca. Crescere un figlio è (anche) questo: allenarsi a una sequenza di piccoli e grandi lutti.