In una delle opere della straordinaria Matilde Serao, “San Gennaro nella leggenda e nella vita” (1909), si discute non solo della vita del Santo tanto caro ai napoletani, ma anche – come nell’abitudine della Serao – di un aspetto della vita dei napoletani. La scrittrice, con quest’opera meravigliosa e significativa, vuole sottolineare alcune caratteristiche della cultura napoletana che rappresentano un’eco proveniente dal passato remoto perché Napoli e i napoletani, e questo non va mai dimenticato quando si parla di loro, sono un concentrato di varie e antiche culture, partendo da quella greca, attraversando quella romana fino ad arrivare ai giorni nostri. Il senso di religione a Napoli, argomento principale del testo, è molto complesso: in tutte le case dei napoletani, per esempio, si trovano sicuramente, se non delle cappelline, dei piccoli altarini dedicati ai santi e a “madonne” di ogni tipo, ma allo stesso tempo dietro alle porte d’ingresso, appeso alle chiavi o allo specchietto della macchina, appoggiato su qualche superficie, accanto a un crocifisso, certamente non può mancare il famoso curniciello rosso, auspicio di fortuna e fertilità già in tempi antichissimi; pertanto fede e superstizione, due concetti antonimi per eccellenza, camminano assolutamente insieme nella millenaria Napoli. D’altra parte il senso di spiritualità è qualcosa di unico a sé stante; pensiamo solo a come la morte viene vissuta in questa città: scongiuri a tutta forza prima che essa venga a farci visita, ma poi si dà avvio a “quel colloquio che continua anche dopo” che diventa una sorte di rituale infinito tanto che a Napoli i morti quasi si venerano, si coccolano, addirittura si adottano, con essi ci si parla e in tutto questo c’è sicuramente qualcosa di mistico, di folkloristico, di religioso, di scaramantico e anche di magico se vogliamo. Niente di più unico e caratteristico! Napoli, si sa, è sempre stata una città difficile perché ha vissuto perennemente in uno stato di angoscia: dominazioni di stranieri l’hanno soffocata per decenni; infettata da morbi di ogni genere; è sprofondata spesso nella povertà, nei guai e nelle malefatte dei suoi abitanti ed è sempre stata minacciata da un mostro vestito da grande montagna, ma i napoletani, dal canto loro, hanno sempre vissuto la vita quasi come se il fatto non fosse il loro; hanno sempre avuto una speranza e questa si chiama San Gennaro che non ha mai detto, e non dice mai no, al suo popolo, nemmeno quella volta quando, nel 1631, la lava del Vesuvio arrivò, fermandosi per Sua intercessione, alle porte della città e i napoletani, per ricambiare il favore, scolpirono “Divo Jannuario – Patriae, regnique praesentissimo tutelari – grata Neapolis” come dedica sulla cappella del tesoro che, a sua volta, fu edificata per un voto fatto dal popolo a San Gennaro nel XVI secolo ed è la cittadinanza stessa, e non la curia arcivescovile, a detenere il patronato grazie alla “Deputazione della reale cappella del Tesoro” che, in tempi leggendari, firmò un atto notarile. Un atto notarile tra i napoletani e il Santo. Fatto unico nella storia della Chiesa!
La straordinaria penna della Serao così comincia la sua meravigliosa Leggenda di San Gennaro: “Amico lettore, come io faccio, con sincera costrizione del mio animo, tu anche devi fare. Come io chiedo allo Spirito Santo… una grazia speciale, quella della semplicità primitiva, per narrarti la leggenda di San Gennaro, così tu stesso… domanda di leggerla col cuore semplice e primitivo… per poter allargare il tuo animo al racconto semplicissimo, quasi infantile, della leggenda di San Gennaro”. Matilde Serao, quindi, fa una premessa: questa sua narrazione deve essere letta con animo assai genuino, così come era quello dei primi cristiani che stavano intorno al Vescovo beneventano. Pertanto il lettore, che si appresta a leggere la storia di Gennaro, non dovrà farsi delle domande sulla realtà dei fatti, accogliendo la tradizione così com’è da secoli perché questo è il bello della pura fede. Così nel racconto della Serao si attraversano le fasi della vita di questo sacerdote nato con le mani congiunte in preghiera nell’anno 272. Gennaro, che iniziò a fare miracoli sin da fanciullo, crebbe con un animo profondamente mariano, caritatevole, solidale, benevolo verso i carcerati e gli ammalati e pietoso verso i morti abbandonati che andava a seppellire nelle catacombe dove un giorno ebbe una visione del Signore che, mostrandogli tutti i simboli del martirio, gli disse: “Oh bene amato. Quando ciò tu avrai fatto, il tuo corpo riposerà per sempre in questo cimitero”, ma il povero Gennaro non capì. Iniziò comunque a dormire per terra, a rifiutare ogni cosa facesse piacere al corpo, a preoccuparsi degli infermi e a guarirli miracolosamente; tuttavia Gennaro e i cristiani si apprestavano a vivere degli anni veramente terribili. A febbraio del 303 l’imperatore Diocleziano, infatti, darà al via a una delle più arroganti persecuzioni dei cristiani, in cui vennero torturati fino al martirio migliaia di fratelli in Cristo. Intanto Gennaro diventa vescovo di Benevento e si reca a Napoli per incontrare il vescovo Cosmo, poi si dirige a Pozzuoli per incontrare suo cugino, il diacono Sossio, che fu arrestato dalla polizia romana insieme al diacono Procolo e ad altri ferventi cristiani; anche Gennaro fu arrestato, dando il via al suo martirio. Visse torture atroci in cui, però, ne uscì indenne, cantando lodi a Dio. Nell’anfiteatro di Pozzuoli, poi, venne dato alle belve feroci, ma esse si inginocchiavano davanti a lui. Gennaro, esclamando: “Sono venuto a morire qui perché il pastore non deve dividersi dal suo gregge, né il gregge dal suo pastore”, riuscì a convertire in un solo momento 5.000 pagani presenti. Così, mentre lui e gli altri 6 venivano portati alla Solfatara per essere uccisi, un mendicante chiese al Vescovo di lasciargli un lembo dei suoi abiti e Gennaro gli rispose che, dopo il martirio, lui stesso gli avrebbe dato il fazzoletto con il quale gli avrebbero bendato gli occhi. Difatti così fu: cadde la scure sul collo dei sette, mercoledì 19 settembre 305, alle ore 12:00, quando Gennaro aveva solo 33 anni. Come promesso, il mendicante lo vide venire verso di lui col fazzoletto sporco di sangue in mano. Sulla Solfatara arrivarono alcune persone per raccogliere il corpo dei Santi: quelli di Pozzuoli si preoccuparono di preparare la sepoltura di Procolo e altri due; quelli di Miseno pulirono il corpo di Sossio; quelli di Benevento si preoccuparono dei due diaconi e i napoletani del corpo di Gennaro. Esusebia, nutrice di Gennaro, sua madre e sua sorella pulirono il suo corpo e raccolsero in due ampolle il sangue che era uscito dal collo. Il corpo di Gennaro venne seppellito nelle catacombe di Napoli e sin da allora fu sempre meta di molti seguaci di Cristo. Lì accaddero molti miracoli. Le ampolle del sangue, oggi nel duomo di Napoli, raccolgono, una il sangue pulito dalle impurità per mezzo della stessa Eusebia, e nell’altra ampolla si trova il sangue sporco di polvere, paglia e altre impurità.
Nell’Opera di Matilde Serao Napoli viene raccontata sempre a 360°: i suoi colori, i profumi, i suoni e i canti popolari, i sapori, i sentimenti, i miti e le legende legate all’antica Partenope, ma anche le difficoltà, i dolori, i lutti, i vizi, la disperazione delle persone. Una leggenda dice che Napoli sarebbe nata con la morte di una sirena, eppure non è così per la Serao che scrisse in Leggende napoletane (1881): “Parthenope non ha tomba… non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare. È lei che fa impazzire la città: è lei che la fa languire ed impallidire di amore: è lei che la fa contorcere di passione nelle giornate violente di agosto. Parthenope… non ha tomba, è immortale, è l’amore. Napoli è la città dell’amore” e accanto a questi canti che evocano miti risalenti alla notte dei tempi, noi ci mettiamo i canti che evocano miti meno antichi: “Faccia gialla, santone nuosto! Accrisce la nostra fede e dà lume a chi nun crede! Faccia ‘ngialluta, pecchè nun ce vuò fa ‘o miraculo? Si tu nun vuò essere cchiù ‘o prutettore nuosto nuie ‘nce pigliammo a sant’Antonio” perché i napoletani “ricattano” amorevolmente Gennaro dal momento che lo amano troppo per sostituirlo con un altro, iniziando un rituale fatto di fede e superstizione che da sempre è indizio univoco della città di Napoli.
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