Miel para Oshún dimostra tutta la grandezza di Humberto Solás e quanto sia ben speso per lui l’appellativo di Visconti dei Tropici. La poetica del regista è molto vicina alle tematiche del grande Luchino Visconti, sia per il tono malinconico che per il sentimento di nostalgia e rimpianto che pervade tutto il racconto. Una colonna sonora a base di pianoforte rende ancora più commovente la storia.
Roberto, un giovane cubano americano che è stato portato via da Cuba illegalmente dal padre quando aveva sette anni, ritorna per la prima volta al paese di origine. Il suo proposito fondamentale è ritrovare la madre e confrontarsi con lei, perché crede di essere stato abbandonato al proprio destino. Il viaggio sarà per lui il modo di scoprire la verità, ma soprattutto rappresenterà un incontro decisivo con il suo paese e la maniera per conoscersi a fondo.
Solás comincia con le fughe da Cuba in un bianco e nero d’epoca per accennare l’antefatto con rapide pennellate, ma passa subito al racconto che gli sta a cuore e al personaggio di Roberto che ritorna all’Avana dopo tanto tempo, pure se il padre non avrebbe voluto. L’arrivo alla terra proibita è l’inizio d’un viaggio nel passato fotografato con cura, tra lacrime, abbracci, persone che si ritrovano dopo tanto tempo e grande commozione. Jorge Perugorría è un attore fantastico ed è l’ideale per una messa in scena teatrale, a tratti eccesiva e giocata su registri drammatici. Il regista fotografa L’Avana distrutta dai cicloni, il centro storico cadente, il lungomare stupendo, le persone che passano per strada, il mercato ortofrutticolo e la vita quotidiana. Conosciamo per pochi istanti Martha, una ragazza che frequenta turisti per possedere quello che non ha mai avuto e sognare di poter fuggire. Non è un personaggio importante nell’economia della storia, ma il regista lo inserisce per affrontare un problema della Cuba contemporanea. L’incontro importante è quello tra Roberto e la cugina Pilar che lo rende partecipe delle menzogne paterne. La mamma non voleva fuggire da Cuba, ma il padre sequestrò il figlio e scappò via senza chiedere il permesso a nessuno. Pilar decide di aiutare Roberto a ritrovare la madre ma non è un’impresa facile perché la donna è stata dimessa molti anni prima da un ospedale psichiatrico e se ne sono perse le tracce. Solás introduce lo spettatore in un road movie intenso e angosciante, ma prima regala stupende immagini panoramiche dell’Avana per sottolineare il rimpianto del protagonista di non aver potuto vivere la sua giovinezza in quel luogo. La pellicola è molto teatrale, giocata sui dialoghi e su una recitazione spesso sopra le righe, scorre con andamento lento e tempi di suadente bolero. La madre è finita in ospedale con una diagnosi di nevrosi depressiva e amnesia parziale, perché il rapimento del figlio l’aveva sconvolta. Per ritrovarla il figlio ricorre persino alla santeria, ed è un modo per far vedere una divinazione da parte di una santera vestita di bianco. Il responso definitivo è che la madre si trova vicino a Yemayá (il mare), in un luogo dove il miele si getta tra le braccia di Oshún (il fiume). La santera dimostra di sapere molte cose della vita di Roberto, lui crede che sia stata Pilar a raccontarle, ma non è così. Le indicazioni della santera sono giuste, ma solo alla fine del viaggio i protagonisti capiranno il motivo. A questo punto entra in scena il simpatico personaggio di Antonio, classico cubano fanfarone che cerca di lucrare su tutto, per organizzare un viaggio alla ricerca della madre. Antonio noleggia un’auto scassata che perde pezzi e comincia il viaggio verso l’oriente di Cuba, anche se prima vediamo Varadero, luogo simbolo del mare cubano. A Varadero abbiamo il ricordo struggente delle ultime vacanze trascorse insieme da Pilar e Roberto, la casa della nonna, le immagini del passato che scorrono in un flashback onirico. Prima avevamo visto il ponte di Bacunayagua sospeso nel vuoto e molti ragazzi in autostrada impegnati a fare l’autostop mentre i contadini vendevano prodotti ai turisti. Vediamo le strade dell’oriente cubano, fuori dalle rotte autostradali, strette al punto che occorre fermarsi per far scambiare due auto. L’auto non ce la fa, prima buca una gomma, quindi va definitivamente in panne e i tre devono fermarsi. Comincia lo scavo viscontiano di Solás sui personaggi che diventano sempre più amici e si confidano le sconfitte della vita e i segni che il passato ha lasciato sulla loro pelle. I caratteri rappresentati sono molto cubani, anche se a un europeo può sembrare assurdo è vero che i tempi di un’amicizia tropicale sono più rapidi. I sentimenti sono assoluti, non consentono mezze misure e la riservatezza non ha patria in un luogo dove condividere e partecipare è regola ordinaria. Antonio canta il languido bolero Ausencia e Pilar si mette a piangere rievocando un amore perduto, un figlio abortito, un dolore incancellabile. I tre amici si trovano a Camagüey, noleggiano tre biciclette per continuare la ricerca in un ospedale, ma la donna non c’è, forse è andata ancora più a Oriente dove aveva lontani parenti ma nessuno sa dare certezze. Il quadro scenografico di una Cuba selvaggia e quasi africana che pochi conoscono è uno dei tanti pregi di un film che si sviluppa on the road. Vediamo Holguin, i contadini che arano ancora la terra con l’aratro spinto dai buoi, la gente che fa l’autostop perché mancano mezzi di trasporto e gli autobus che vanno in moto a spinta perché sono vecchi. Solás mostra pure la cittadina di Gibara – a lui cara perché lì ha fondato il Festival del Cinema Povero -, il bel centro storico, il lungomare e le spiagge bianche. Roberto vorrebbe mollare tutto, si fa persino rubare bagaglio e bicicletta, ma sono gli amici a convincerlo ad andare avanti. Il regista inserisce una scena madre molto teatrale che poteva evitare. Roberto grida in mezzo al paese che non sa chi è, un americano – cubano venuto a Cuba per ritrovarsi, nella terra dove è nato, ma in definitiva non ha incontrato niente, come niente era negli Stati Uniti, dove per essere rispettato avrebbe dovuto sposare un’americana. Antonio lo interrompe e grida tutta la sua disperazione mentre il paese intero osserva, urla che a lui è morto un figlio, ognuno ha la sua croce da portare e nessuno può chiedere che la situazione cambi. Il regista mostra i personaggi completamente a nudo, ma non è una sequenza molto realistica e sarebbe stato meglio ricorrere a un diverso escamotage narrativo. La pellicola ci conduce a Baracoa, dove forse vive la madre di Roberto, vediamo la parte più selvaggia di Cuba, l’estrema propaggine che fa intuire Haiti. I ragazzi salgono come scimmie sulle palme per raccogliere cocchi da far bere ai viandanti, le foreste aprono la strada al mare e i bohíos dei contadini sono le uniche case abitate. Proprio nei fiumi che circondano Baracoa e si gettano nel mare si manifesta l’amore tra Pilar e Roberto, ma il regista si limita a un rapido accenno di un bacio e una breve sequenza in camera. I tre amici finiscono una notte in galera perché Roberto non ha i documenti e una zelante albergatrice sospetta di una persona che proviene da Miami. L’idea risolutrice se la fa venire Antonio mentre riposano in una panchina del suggestivo lungomare di Baracoa: la madre forse vive dove il Rio Miel finisce in mare, proprio come aveva detto la santera parlando di miele e di Oshún (il fiume). I tre amici seguono il consiglio e trovano davvero la casa della madre, in un piccolo paese tra il fiume e il mare, ma la donna è fuori per aiutare un’amica e rientrerà soltanto a tarda sera. Il finale è un esempio di stupendo cinema melodrammatico. Vediamo un intero paese in attesa della donna che rientra con una barca a remi, il figlio piange e gli amici sono accanto a lui. Un abbraccio finale, le lacrime, la madre che afferma tra i singhiozzi di poter morire contenta, gli amici che piangono. I sentimenti raggiungono il momento decisivo e sono ben espressi, senza sentimentalismo ma con autentica poesia. La macchina da presa ha esaurito il suo compito e si limita a regalare una panoramica sul paese alla foce del fiume.
La trama del film è scarna. La pellicola vive sulla recitazione teatrale, sul racconto di sentimenti, lo scavo psicologico dei personaggi, un’ottima fotografia dei paesaggi e una grande colonna sonora. Solás risente della lezione di Kerouac e di tutta la beat generation perché è evidente il messaggio del viaggio vissuto come scoperta interiore, come modo per ritrovare se stessi. Sono sempre presenti sentimenti forti come l’amicizia e l’amore filiale, ma non manca una parte minore con l’amore tra uomo e donna. Solás racconta una storia plausibile senza prendere posizione, descrive i problemi di Cuba – la carenza di trasporti, le fughe, la prostituzione – ma non giudica. A lui interessano solo i sentimenti dei suoi personaggi e l’approfondimento psicologico di una realtà interiore.
Regia: Humberto Solás. Durata: 115’. Produttore: Audiovisuales ICAIC (Cuba), El Paso Producciones (Spagna), Televisión Española e Canal Più (Spagna). Distributore: El Paso Producciones, Televisión Española e Canal Più. Soggetto e Sceneggiatura: Elia Solás con la collaborazione di Humberto Solás e Sergio Benvenuto. Produzione: Luis Lago. Fotografia: Porfirio Henríquez, Tote Trenas. Montaggio: Nelson Rodríguez, Miguel Ángel Santamaría. Musica: Grupo Síntesis, Carlos Alfonso, Esteban Puebla, X Alfonso. Suono: Marcos Madrigal, José García Pastor. Direzione Artistica: Erick Grass. Interpreti: Isabel Santos, Jorge Perugorría, Mario Limonta, Saturnino García, Adela Legrá. Premi: Miglior attore al Festival Internazionale di Viña del Mar (2001); Menzione Speciale al Festival del Nuovo Cinema Latinoamericano (2001); Menzione d’onore al Festival di Lima (2002); Premio del Pubblico al Festival Latino di Los Angeles (2002); Miglior Pellicola Ispanoamericana secondo l’Accademia Messicana di Arti e Scienze (2002); Premio Goya (2002) come miglior pellicola straniera in lingua spagnola.