In pochi sono riusciti a mettere l’America “in pantofole”, come ha fatto Giuseppe Prezzolini con le sue riflessioni sugli emigranti italiani, i quali hanno sicuramente contribuito a dare un’identità agli americani stessi attraverso un flusso di milioni di persone nell’arco di un secolo e mezzo. Gli italiani portavano con sé culture millenarie che ne avevano forgiato il carattere e la personalità, culture che vivevano nelle lingue non accademiche, nei dialetti, o nella pasta dei ricchi che, grazie al benessere riscoperto negli Stati Uniti, è diventata il piatto dei poveri; e ancora, nelle processioni religiose, celebrate nei vicoli di New York come nel più piccolo dei paesini siciliani, Polizzi Generosa, per dirne uno, o per rendere omaggio a Martin Scorsese e al suo My Voyage to Italy.
Quella dell’emigrare è stata dapprima una necessità – è vero – ma non tutti i popoli hanno risolto la loro fame e le loro disgrazie emigrando. Ci sono popolazioni del nord Europa, che sono lì da secoli e non si sono mai mescolate con altre civiltà. L’istinto di partire e andare alla ricerca di fortuna al di là dell’oceano, nasceva probabilmente dall’esperienza di accoglienza che da millenni l’Italia stava vivendo. La sua “straordinaria posizione geografica”, come la definisce Ernesto Galli della Loggia, le ha permesso di imparare, di assorbire le culture di ospiti e dominatori di ogni origine, ed è forse grazie a quest’esempio che, poi, da paese di immigrazione è diventata paese di emigrazione dalla fine dell’800 ad almeno tutta la prima metà del ‘900. Italiani emigranti, scopritori di nuovi mondi senza dimenticarsi del proprio paese, sempre sul comodino insieme ai santini e alle madonne. Italiani analfabeti, persi eternamente nella “lingua della giobba”, una specie di interlingua, per metà dialetto e per metà inglese nordamericano, che serviva a procurarsi lavoro prima di tutto, come nella preistoria, quando ci si procacciava cibo e legna per combattere fame e gelo. Italiani romantici, poeti grazie agli Arabi che avevano donato loro la poesia, e coraggiosi pionieri che avevano imparato a navigare da almeno venti secoli; ancora nell’aria gli echi di Pompeo Magno che urlava ai soldati romani “navigare necesse est, vivere non est necesse!”
E una volta nel nuovo mondo, tutto quello che hanno portato con sé è sopravvissuto nella loro mente, nelle mani forse, custodi di esperienze vecchie come il vecchio continente, trasmesse alle nuove generazioni, che si vantano oggi di parlare un ottimo inglese e di saper mettere la lingua tra i denti – come dice Mario Soldati nei suoi scritti sullo scontro con gli italoamericani – quando pronunciano right e then meglio dei loro genitori. Italiani, infine, eredi di grande sapienza popolare e di lezioni di vita da chi la vita se l’è guadagnata nelle trincee della Prima e della Seconda Guerra mondiale.
Oggi, un secolo dopo la Grande Guerra, la capacità di apprendere dalla storia è sparita sotto la gonna dell’ignoranza, una signora grassa e rumorosa che sta favorendo il progredire dei populisti, come Donald Trump, che anche in Italia ottengono sempre più consensi. Ci sono migranti e migranti, ci raccontano, ma non è vero. La sensazione di arrivare in un paese che non ti vuole non cambia a seconda delle tue origini, ha sempre a che fare con qualcosa che si chiama razzismo. Una delle cause del razzismo è l’ignoranza, ignoranza diversa da quella dei nostri antenati. Nell’800 si trattava di mancanza di istruzione, ma allo stesso tempo c’era una grande voglia di migliorarsi e di mettersi in gioco, qualcosa di molto diverso dall’attuale chiusura mentale di cittadini assuefatti dai social network e facilmente manipolabili. Alla mancanza di istruzione si può rimediare, all’ignoranza invece, no. L’ignoranza è l’unica cosa che non si può combattere con l’intelligenza, perché non vuol dire non conoscere qualcosa ma non volerla conoscere.