La musica pop non è importante in sé, ma per quello che rappresenta nel suo impatto culturale, in cui il pubblico è importante quanto l’arte stessa, se non di più.
La natura intrinseca della musica pop è quella di essere accessibile al grande pubblico attraverso qualsiasi mezzo di comunicazione di massa. Accessibilità e fruizione che, col tempo, sono cresciute di pari passo allo sviluppo della tecnologia, diventando sempre più accelerate, sin dallo sviluppo delle arti grafiche negli anni ’80.
Molti definiscono, erroneamente e forse ingenuamente, la musica pop anche con il termine “commerciale”, accostandola di conseguenza alle fattezze di un prodotto destinato al commercio ed al consumo su larga scala. Invece, la parola “commerciale” indica semplicemente tutto ciò che è destinato al commercio, che sia di utilizzo mainstream o elitario, che sia studiato con dolo a tavolino oppure no, che sia all’ingrosso o al dettaglio.
In merito a ciò che viene considerato elitario, l’ambiente che ruota intorno alla cosiddetta scena alternative rock underground italiana (come ha specificato recentemente Manuel Agnelli con una condivisibile paternale), in ogni sua componente attiva e indotta, via via si è sempre più auto-ghettizzato: trattando la propria sfera emotiva come una fragile reliquia sangennarese da conservare all’interno di una teca di vetro, e perdendosi in una mentalità autoindulgente ed autoreferenziale, con quella puzza pseudo-raffinata sotto il naso che odora tanto di snob-fica-di-legno.
Al netto di queste considerazioni, è plausibile pensare che un fan dei Mission Of Burma sia migliore di un fan dei Van Halen? O che, circoscrivendo la comparazione alla contemporaneità nostrana, un fan dei Little Pieces Of Marmelade sia migliore di un fan di Achille Lauro? Esiste davvero un “fazionismo” ideologico e di gradimento, se non addirittura di natura religiosa, dove una proposta esclude l’altra e che alimenta una ipotetica, ma concreta, dicotomia tra due diverse materie commerciali?
Oppure, è verosimile credere che due generi musicali, seppur differenti e agli antipodi, e spogliati di ogni percezione soggettiva, siano trainati dallo stesso identico comun denominatore: l’intrattenimento. Secondo alcuni, le centomila suddivisioni (a partire da quella tra commerciale e underground) sono soltanto “seghe mentali”. Se una proposta musicale ti piace, bene, se non ti piace, bene lo stesso. Il resto è sesso degli angeli.
Però, una spiegazione di questo tipo, alla Lemmy Kilmister per capirci, sarebbe troppo superficiale e sminuirebbe le nostre facoltà intellettive. Se così fosse, dovremmo cancellare decenni e decenni di critica e giornalismo musicale, e di conseguenza non avrebbe alcun senso fare recensioni.
C’è anche la corrente di pensiero di chi collega il significato di musica pop a quello di musica leggera: gli stessi che, per dare corpo alle loro idee, si appoggiano alle playlist di Spotify e YouTube (fanno un po’ di tenerezza, vero?), credendo seriamente di poter provare le loro tesi bislacche, e la loro realtà distorta, semplicemente affidandosi ciecamente alle “pop music playlist” delle piattaforme streaming, nell’ottusa convinzione che pop e rock siano due mondi distinti e separati, immaginati come due rette parallele che si incontreranno tra milioni di anni in punto infinito dell’universo.
Non vi è mai capitato di leggere commenti tipo: “I Beatles sono pop, non sono rock”? Quando un brano conquista le masse di ascoltatori non ha più senso distinguere tra rock, metal, reggaeton, elettronica, rap, trap o disco music.
Il punto è un altro: ossia, comprendere appieno e contestualizzare il significato di aggettivi quali “commerciale” e “pop”, estrapolando, nel dualismo cultura di massa e cultura elitaria, la finalità essenziale della musica spogliata di ogni genere di orpello e pregiudizio.
Ma in fondo, meglio non studiare le cose, non approfondire nulla e rimanere impantanati nell’autoindulgenza della propria ignoranza. È proprio così: il pregiudizio aiuta a vivere meglio.