«Nel cuore della nostra penisola c’è quella regione che si chiama Umbria. L’Umbria ha la sua perla: Assisi» (cfr. Maria Sticco, San Francesco d’Assisi, Edizioni Porziuncola, p. 38 e sgg.) ove poco dopo il tramonto del 3 ottobre 1226 muore Francesco d’Assisi.
Francesco, al tempo del sacro romano impero, ai tempi di Federico Barbarossa della casa di Hohenstaufen, è un nome piuttosto raro. Il padre, Pietro Bernardone, un ricco mercante di stoffe, lo chiama così per gratitudine alla terra di Francia che lo aveva arricchito. Di più: dalla Provenza, Pietro Bernardone, prende la stessa moglie: Madonna Pica.
Il piccolo Francesco dalla mamma impara le canzoni dei trovatori, le novelle di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Cortese per natura, Francesco è attraversato dal sogno diventare un cavaliere. L’eleganza, il valore, la fantasia del cosiddetto «ciclo bretone» tessono la fantasia, la mente, il cuore del piccolo Francesco. Sogna di diventare lui stesso un cavaliere. Combatte nella guerra tra Assisi e Perugia (1202-1203), tenta di unirsi alle truppe di Gualtieri di Brienne, attive in Puglia al servizio di Federico II. Ma una febbre che lo colpisce durante il viaggio verso il sud della penisola lo induce a rientrare. Matura in lui un travaglio interiore che si precisa o meglio che ritmicamente esplode nel Cantico di Frate Sole: «la sola scrittura italiana del santo» (Gianfranco Contini, La letteratura italiana delle origini, Sansoni, p. 3).
Le laudes creaturarum di san Francesco sono all’origine del nostro poetico linguaggio nazionale. Il valore, la cortesia, l’eleganza del ciclo bretone tessono e formano la fantasia, lo stupore, l’anima, il cuore di colui Dante chiama: «un sole» (Paradiso XI, v. 50).
Nella francescana e dantesca «figura del sole» che sale dall’Oriente c’è il sigillo del plurilinguismo della letteratura italiana (volgari, latino, provenzale, arabo e persino ebraico e greco); c’è la continuità e centralità della cultura mediolatina su cui fioriscono le letterature nazionale europee; c’è il grande spazio storico-geografico del Mar Mediterraneo ove il Poverello nel porto egizio di Damietta nel 1219 nel pieno di una guerra sanguinosa al Sultano mostra solo il «nudo fuoco» pacifico e affascinante della sua loquela.
L’«ignota ricchezza e il ben ferace» (Paradiso XI, v. 82) inducono Egidio, Silvestro a «scalzarsi» per portare a compimento l’opera di restaurare una Chiesa-Casa che sta per andare in rovina.
L’opera, il canto (intessuto da parole e musiche), lo spirito dell’«Infinitamente Piccolo Francesco» rifulgono nei colori, nella geometria, nei volumi della nuova e meravigliosa lingua della pittura di Giotto. Questi, come Dante, coglie il genio del Poverello, la luce del «sole» Francesca e lo trapassa con un albore, una luce che genialmente attinge dall’Infinito e che incastona nelle pareti della Basilica superiore che eternizzano un messaggio di fratellanza tra le creature tutte, tra l’Oriente e l’Occidente. Un messaggio, quello di Francesco, che si compendia e che si ri-vela, infine, nella liberazione e conversione nelle nostre città del fratello «lupo» in forza solo della terapeutica cura della parola, del linguaggio di cui Francesco era «cavaliere» e che dovrebbe ritmare e far ritmare la nostra vita, le nostre azioni cosi come essa mirabilmente e massimamente segna le nostre nazionali origini linguistiche. La genuina radicalità francescana rivela attraversandole le radici dell’Europa che oggi appare un «gigante incatenato» (Luciano Canfora).