Son morto al numero sei della via Pesciànaya. Non se n’è accorto nessuno, il 3 giugno del 1963. Erano le nove del mattino. Mi hanno trovato qualche ora dopo, me ne stavo lì appoggiato allo stipite della porta, sembrava che stessi per uscire. E infatti avrei voluto scendere le scale, andare a vedere cosa c’era nella cassetta della posta, magari prendere un po’ d’aria, quel poco sole che concede il posto dove vivo, meglio, dove vivevo, ché son morto, me ne devo fare una ragione. Infarto folgorante in un cuore stanco e sofferente. Mi era già successo, vent’anni prima, nel carcere di Bursa, in Anatolia. Tredici anni ci son stato dietro le sbarre. E non solo in quella galera, pure in altre. Morire non era la cosa che più desiderassi, lo confesso, vivere era il mio unico lusso, la cosa che più amavo, con le mie poesie, le mie letture, le passioni furibonde d’un cuore malato; ma morire si deve, prima o poi, e allora morte benedetta sullo stipite della porta di casa, folgorante, mentre sto per uscire. Bara aperta per vedere il sole, fiori, onori, il vestito buono; mio figlio che arriva da Varsavia, mia madre che piange, consola il ragazzo, lui che mi conosce così poco, è un bambino, mi vede e si sente un po’ mancare; dicon tutti che mi somiglia tanto, spero solo che sia più accorto, meno passionale. Son morto e lo vedo da lontano, lui che fatica per non piangere, sua madre che lo sostiene a stento, che gli dice di star composto, in ordine, sereno. Sessantun anni, nasco in Turchia, a Salonicco, amavo Lenin d’un amore immenso, lui era per me il vero padre, ero rimasto sconvolto ed estasiato montando di guardia alla sua bara disadorna, quarant’anni prima, ero un ventenne inconsapevole di tutto. Son morto ma tutti mi dicevano come stai bene, ma che bel colore; tutto vero, certo, ma il mio cuore era malato e con le donne non mi son certo risparmiato. Turco d’origine, legato alla mia terra, forse egoista (chi non lo è?), fiducioso negli altri, capace d’una certa meraviglia, cinico no, quello non son mai stato, neppure acido, forse un po’ leggero. Ma non mi sono piegato ai compromessi, neppure quando mi dicevano che sarebbero stati proprio necessari. Al diavolo, meglio la galera! E che m’importa se non trovo un editore, se mi minacciano d’impiccagione, se nelle celle turche devo andare, resto libero, padrone di me stesso. Muore il mio corpo sullo stipite di casa, mi espongono al sole con la bara aperta, ma non morranno mai le mie parole che splendono più forte del pallido sole d’una terra amata. Mio figlio un giorno leggerà queste parole, la mia sola colpa è averlo abbandonato, non averlo conosciuto, aver vissuto lontano dai suoi occhi. Ma era impossibile non scappare via da una Turchia che m’aveva condannato, soltanto a Mosca avrei potuto vivere fino al giorno d’un micidiale infarto, fino a quello stipite maledetto della porta.
Autobiografia scritta da Hikmet a Berlino nel 1962, in forma di poesia, un anno esatto prima di morire d’infarto sullo stipite della porta di casa.
Sono nato nel 1902 /, non sono più tornato / nella città natale / non amo i ritorni indietro / quando avevo tre anni / abitavo Alep / con mio nonno pascià / a 19 anni studiavo a Mosca / all’università comunista / a 49 ero a Mosca di nuovo / ospite del comitato centrale / del partito comunista e dall’età di 14 anni / faccio il poeta / alcuni conoscon bene le varie specie / delle piante altri quelle dei pesci / io conosco le separazioni / alcuni enumerano a memoria i nomi / delle stelle io delle nostalgie / ho dormito in prigioni e anche in alberghi di lusso / ho sofferto la fame compreso lo sciopero della fame / e non c’è quasi pietanza / che non abbia assaggiata / quando avevo trent’anni hanno chiesto / la mia impiccagione / a 48 mi hanno proposto / per la medaglia della Pace / e me l’hanno data / a 36 anni ho traversato in sei mesi / i quattro metri quadrati / di cemento / della segregazione cellulare / a 59 sono volato / da Praga all’Avana / in diciotto ore / ero di guardia davanti alla bara di Lenin nel ’24 / e il mausoleo che visito sono i suoi libri / han provato a strapparmi dal mio Partito / non ci sono riusciti / e non sono rimasto schiacciato / sotto gl’idoli crollati / nel ’51 con un giovane compagno / ho camminato verso la morte / nel ’52 col cuore spaccato ho atteso la morte / per quattro mesi sdraiato sul dorso / sono stato pazzamente geloso delle donne ch’ho amato / non ho invidiato nemmeno Charlot / ho ingannato le mie donne / non ho sparlato degli amici / dietro le loro spalle / ho bevuto ma non son stato un bevitore / ho sempre guadagnato il mio pane / col sudore della mia fronte / che felicità / mi sono vergognato per gli altri e ho mentito / ho mentito per non far pena agli altri / ma ho anche mentito / senza nessun motivo / ho viaggiato in treno in aeroplano in macchina / i più non possono farlo / sono stato all’Opera / i più non ci vanno non sanno / nemmeno che cosa sia / e dal ’21 non sono entrato / in certi luoghi frequentati dai più / la moschea la sinagoga la chiesa / il tempio i maghi le fattucchiere / ma mi è capitato / di far leggere la mia sorte / nei fondi di caffè / le mie poesia sono pubblicate / in trenta o quaranta lingue / ma nella mia Turchia / nella mia lingua turca / sono proibite / il cancro non l’ho ancora avuto / non è necessario che l’abbia / non sarò primo ministro / d’altronde non ne ho voglia / anche non ho fatto la guerra / non sono sceso nei ricoveri / nel mezzo della notte / non ho camminato per le vie / sotto gli aerei in picchiata / ma verso i sessant’anni mi sono innamorato / in una parola compagni / anche se oggi a Berlino sono sul punto / di crepar di tristezza / posso dire di aver vissuto / da uomo / e quanto vivrò ancora / e quanto vedrò ancora / chi sa.