Il poeta spagnolo José Hierro ha scritto che le poesie potrebbero esistere anche senza i poeti poiché questi sono solo dei trasmettitori, “traduttori in linguaggio umano”. Io non sono sicuro di essere un poeta. Ciò di cui sono sicuro è che ho passato metà della mia vita – a essere ottimisti – a scrivere altro. E mi rendo conto di averlo fatto perché ogni volta che scrivevo una poesia mi spaventavo.
Era come fare un passo verso una porta che qualcuno aveva lasciato socchiusa per me, e poi fermarmi. Ho sempre distinto le scritture private da quelle pubbliche, ho costruito il mio lavoro proprio su questo principio e tenuto segrete tante pagine come quella che hai davanti, coltivandole in una parte così intima da convincermi che non le avrei mai mostrate a nessuno. Poi all’improvviso mi è venuta questa strana idea che le poesie siano la sintesi di un’esperienza collettiva e non appartengano a chi le scrive, ma a chi le legge, o come direbbe Massimo Troisi, “a chi gli servono”.
Non so francamente se questa di introdurre delle poesie – proprie o altrui – sia poi una buona idea. Ho sempre saltato le note che guidano l’esperienza della lettura in un senso o in un altro. Come lettore, preferisco farmi un’idea mia delle storie in cui m’imbatto, e come lettore di poesie le ho sempre considerate un sussurro tra l’autore e il lettore, in un linguaggio nostro, segreto. Ma come poeta sono del tutto vergine e io stesso avevo bisogno di queste righe per prepararmi all’impatto con una nuova forma della parola. Avrei voluto anche trovare il modo giusto per presentarla a te, che ne resterai deluso forse.
O forse ritroverai nelle mie parole le tue parole. Questo è ciò che io ho cercato negli autori e nelle autrici dei libri che ho amato, ed è con questa ambizione, forse del tutto fuori luogo, forse ridicola, che oggi mi accingo a pubblicare per la prima volta un volumetto di poesie, ignaro della loro qualità letteraria, del loro fascino, della loro efficacia se vogliamo, e soprattutto della loro utilità. Non ho metri per misurarle, né oso paragonarle a quelle dei grandi poeti da cui ho imparato a comprendere e rispettare il valore profondo della parola, la sua incredibile forza evocativa.
Un bambino che legge è un bambino che sogna. E se legge poesie, sogna forse meglio degli altri, mi chiedo, o è un povero disgraziato destinato a soffrire in un mondo cinico e spietato, in cui la parola è mercificata, prostituita, e l’immagine prende il suo posto con la sfrontatezza di una puttana in un convento di monache di clausura?
Ma il compito di un poeta, mi chiedo ancora, non è proprio quello di denunciare la prostituzione della parola, spiegare che non esistono né monache né puttane, e che entrambe sono un’invenzione dell’uomo, che si sente padrone di ogni cosa a questo mondo? Un’illusione essere padroni. Siamo tutti servi.
E la poesia può liberarci dalle moderne forme di schiavitù? Lo spero. Anche se è difficile riconoscerla, capire quando arriva. Murena diceva che la poesia arriva “quando restiamo nell’inesauribile compagnia della solitudine”. Forse è per questo che mi fa così paura. Per fare poesia occorre vivere, occorrono sangue e lacrime. Scrivere poesie vuol dire far rivivere nel tuo stomaco ciò che io stesso ho vissuto nel mio, più forte e più lentamente. Cantarti l’infinita bellezza del mondo, ma anche la desolante nullità dell’uomo. Io ci ho provato ma non credo di esserci ancora riuscito. E in fondo ne sono felice.