La vicenda ha ipnotizzato a lungo l’Italia. Manuel Foffo e Marco Prato drogano, sequestrano, seviziano, uccidono Luca Varani. Nulla li spinge ad agire se non uno scabroso gioco di specchi: nell’orrore che compiono – massacrare un ragazzo di 23 anni – scorgono l’orrore che si slarga dentro di loro. Gli ingredienti ci sono tutti: l’omosessualità, le feste, Roma, famiglie perbene nelle quali il male è spuntato – apparentemente – dal nulla.
Il clamore avvolge la vicenda, rimbalza sulle tv sui giornali con ritmo ossessivo. Nicola Lagioia ne resta irretito. Scruta prima da lontano, poi sempre più da vicino, se ne appassiona: indaga, interroga, intervista, archivia. La città dei vivi è il registro di questa ossessione, la ricostruzione di questa discesa nell’orrore.
Un orrore che sfugge a ogni possibile presa della ragione e che – forse proprio per questo – lo inchioda. Lo scrittore sente qualcosa risuonare dentro di sé. Un qualcosa di personale, di antico, di intimo, una scheggia che vibra con la storia di quell’omicidio. “Bisognerebbe sapere molto del carnefice per capire che la distanza che ci separa da lui è minore di quanto crediamo”, avverte. L’indagine è scrupolosa, cronistica, razionale.
Eppure, nelle sue pieghe, preme qualcosa che la ragione fatica a penetrare – “pensai che questa entità avesse una volontà propria, degli interessi propri, il male chiama il male e certe forme retoriche sono i suoi strumenti di contagio”. Quello che sappiano di noi, degli altri, è sempre un frammento strappato al buio. Ma non solo, è come se un esorcismo ci possedesse, possedesse il nostro tempo. E lavasse via ciò a cui era abbarbicata la nostra identità: la responsabilità. Nessuno vuole più essere responsabile di quello che fa. Né di quello che pensa.
La città dei vivi che la scrittura di Lagioia ci consegna, è solo un’escrescenza, un resto, un avanzo sospeso sull’inferno brulicante dei morti. Tra i due regni non c’è separazione ma neanche confidenza. I morti non sono rassicuranti lari, hanno smesso di essere divinità benevoli, non custodiscono né tramandano più nulla. Sono invece annodati a una trama quasi maligna, “le forze della città di sotto”, qualcosa di soverchiante, oscuro, che corrompe tutto ciò che vive.
“Contando gli omicidi che si commettevano a Roma, si sarebbe detto che non era una città così pericolosa. Era violenta sul piano psichico. Muovendosi tra i suoi immensi municipi si respirava un’aria tesa, rabbiosa, capace di ispirare nei più balordi una condotta scriteriata e al tempo stesso la resa totale”
“La città di sotto si stava mangiando quella di sopra, i morti divoravano i vivi, l’informe guadagnava terreno”.
Roma, la città eterna, che prima accoglie poi respinge poi di nuovo accoglie Lagioia, è allora il luogo dove la botola si è aperta, dove i due mondi si sono mischiati, il luogo nel quale corruzione degrado contagio, tutto – persino i gabbiani affamati – richiama questo spolpamento. Eterna è la rabbia che sembra salire dal centro della terra, una fiamma. Eterna è la corruzione.
Resta l’argine della letteratura, delle parole, “cugine della stregoneria”. La letteratura è ancora in grado di fronteggiare il male, di aprire, cioè, uno spazio, una ferita, un respiro, uno scarto, una trascendenza rispetto al suo reale?