La realtà è completamente diversa: oggi nel mondo le guerre in atto sono più che nel passato. E le conseguenze per i civili sono le peggiori degli ultimi tre decenni. A confermarlo un rapporto appena pubblicato dal Peace Research Institute Oslo (PRIO): dal 2021, il numero complessivo di morti legati ai conflitti in atto, compresi i civili, è salito al livello più alto degli ultimi 30 anni. Le guerre fomentate e alimentate dai “signori delle armi” hanno causato uno spargimento di sangue spaventoso. Di alcune di queste guerre i telegiornali parlano ogni giorno. Si pensi alle decine di migliaia di morti tra i civili, per la maggior parte donne e bambini, per mano di Israele nella Striscia di Gaza o alla guerra in Ucraina. Di altre non si parla mai. Come la guerra civile in atto nella regione etiope del Tigray. Eppure, solo nel 2023, i morti civili delle guerre citate prima sono statii centinaia di migliaia: 122.000, di cui 71.000 in Ucraina e oltre 23.000 a Gaza (ma solo negli ultimi tre mesi del 2023).
Sorprendenti alcuni numeri. Ad esempio, la regione con il maggior numero di conflitti non statali non è il Medio Oriente. E nemmeno l’Africa. Secondo gli esperti del PRIO sarebbe il continente americano. Tra i paesi più violenti in termini di conflitti non statali ci sarebbe il Messico, con quasi 14.000 morti. Altro dato interessante, quello relativo alle violenze “unilaterali”: nel 2023 sono state registrate violenze unilaterali contro i civili in almeno 35 paesi. E spesso i responsabili non sono “non statali”: sarebbero ben tredici i governi responsabili di violenze unilaterali contro i civili lo scorso anno.
Una situazione destinata a peggiorare. L’anno scorso si è registrato il più alto numero di conflitti tra Stati dal 1946. Il 2023 si è rivelato uno degli anni più violenti dalla fine della Guerra Fredda: un numero record di 59 conflitti. “La violenza nel mondo è ai massimi storici dalla fine della Guerra Fredda. I dati suggeriscono che il panorama dei conflitti è diventato sempre più complesso, con più attori che operano all’interno dello stesso paese”, ha affermato Siri Aas Rustad, ricercatore presso il Peace Research Institute Oslo (PRIO) e autore principale del rapporto Conflict Trends: A Global Overview di PRIO. Dall’analisi delle tendenze globali dei conflitti che coprono il periodo dal 1946 al 2023, emerge che “L’aumento dei conflitti statali può essere attribuito in parte all’espansione dello Stato islamico in Asia, Africa e Medio Oriente, e all’aumento di altri attori non statali coinvolti nei conflitti, come il gruppo Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin”, ha detto il professor Rustad. “Questo sviluppo rende sempre più difficile per attori come i gruppi di aiuto e le organizzazioni della società civile manovrare il panorama dei conflitti e migliorare la vita della gente comune”. Negli ultimi tre anni, l’Africa ha visto più di 330.000 morti legate a conflitti armati.
Ma se è l’Africa la zona più “calda”, con 28 conflitti registrati nel 2023, anche in altre zone del pianeta la situazione non è certo rosea. In Asia sono stati 17 le guerre. E 10 in Medio Oriente. “Solo” 3 in Europa. Anche il trend positivo che aveva visto diminuire il numero di conflitti in Medio Oriente ha mostrato una preoccupante inversione di tendenza: dal 2022 al 2023, in questa regione i conflitti sono tornati ad aumentare, da otto a dieci. Nel 2022, in Medio Oriente erano stati registrati poco più di 5.000 morti legati alle guerre in corso. Un dato migliore rispetto all’anno precedente. Ma nel 2023, la situazione è peggiorata: il numero dei morti è tornato a quasi 26.000 dei quali quasi 23.000 registrati in Israele e Palestina (ovviamente, senza tenere conto dei morti nella Striscia di Gaza nel 2024). Ciò dimostra che, mentre la violenza in Medio Oriente continua, ora è guidata da un conflitto diverso rispetto al passato.
Tra le analisi pubblicate di recente dal PROI anche quella che riguarda il rapporto che esiste tra migrazioni e conflitti armati. Dai dati analizzati è emerso che le persone colpite da conflitti per lo più decidono di rimanere all’interno del proprio paese, piuttosto che intraprendere un viaggio più costoso e spesso più pericoloso in un altro paese. Si tratta di un dato importante per la comprensione dei fenomeni migratori e per le politiche umanitarie da adottare. Ma anche per le rappresentazioni dei media (specie nel Nord del mondo), che spesso danno per scontato che tutti coloro che sono colpiti da un conflitto vogliano lasciare il paese. Sorprendentemente, le percezioni, le paure e le esperienze di violenza e conflitto per lo più non portano a considerazioni sull’andarsene. Ciò mette in luce un pregiudizio alla mobilità nella ricerca sugli sfollamenti forzati e sulle migrazioni, e nei discorsi politici più ampi. Ma soprattutto dovrebbe far capire, una volta per tutte, che le vere cause che portano la gente a migrare sono altre. Una immobilità specie tra i giovani che dovrebbe essere compresa nel contesto di aspirazioni di vita più ampie – che possono includere o meno la migrazione – e, dall’altro, essere il risultato della mancanza di capacità di migrare.
Come dimostra ciò che sta avvenendo nella Striscia di Gaza, da un lato la voglia di restare nel proprio paese e, dall’altro alto, l’impotenza delle autorità internazionali, provocano decine di migliaia di morti tra i civili. Morti la cui responsabilità ricade non solo sugli autori diretti di queste stragi, ma anche sui governi stranieri che, negli ultimi anni, hanno professato la pace, ma hanno preferito fomentare la guerra vendendo – a volte regalando – armi e armamenti di ogni genere.