I romanzi che portarono al successo italiano ed europeo Gesualdo Bufalino furono principalmente Diceria dell’untore, che valse il Campiello, orpello memorabile di una scommessa vinta tra Elvira Sellerio e Leonardo Sciascia, e Le Menzogne delle Notte, che invece contribuì, nel suo fulgido splendore, al secondo dei premi nazionali più prestigiosi, lo Strega, premio che in fondo nasce dalla volontà di un gruppo di persone di varia estrazione sociale (letterati e non) di parlare di letteratura e confrontarsi con i subbugli che scatena la parola scritta spiata, indagata, e inchiodata a un giudizio.
In fondo Le menzogne della notte, titolo foriero di innumerevoli interpretazioni della poetica bufaliniana, nasce dall’esaltazione della parola, o meglio ancora del dialogo in quanto mezzo di comunicazione più antico dell’interiorità umana e nel medesimo va ritrovata la centralità della narrazione. Il romanzo presenta uno splendido, e mai ossequioso, sfoggio della lingua italiana, che rimane una miniera sconosciuta per la capacità di estirpare dal vocabolario bellezze linguistiche impolverate, latinismi, calchi ripresi da opere ottocentesche (scritto di Tommaseo, Bellini, Mazzini) o dai libretti d’opera che prendono vita nel continuo periodare funambolico della prosa, lontano oltremodo dal pastiche, giacché la qualità della parola rimane sempre a un livello superiore. La forza di Bufalino consta nell’innamorarsi della parola rivelatrice di spicchi di verità, i quali innescano un virtuoso circolo culturale, per cui la tradizione diventa recupero del sommerso e l’arricchimento tesoro inestimabile; e della quale spesso se ne cade vittime. Ed ecco il lettore più sedotto cercare fonti sperdute, canzonette lontane, o i versi di tale operetta e di tale poeta francese o inglese e meravigliarsi di una cultura enciclopedica così prodigiosa, mai ostativa, ma solidale, libera, che può solamente crescere in misura proporzionale all’amore per la curiosità del bello.
A metà tra maieutica e sortilegio, proprio un gruppo di condannati, accusati di aver tentato di sconvolgere un regno di pseudo-storicità borbonica, sobillati da un oscuro carceriere, ospite indesiderato della loro ultima notte, per fissare nella memoria un glorioso e trionfante ricordo, intonano un melodioso de profundis, un canto del cigno, nell’acqua cheta della notte. Ragion per cui, quanto idealmente ricreato, assume le forme e i connotati di un decamerone notturno, quantunque i condannati non fuggano dalla malattia, ma dalla giustizia rappresentata dal governatore del forte, Consalvo de Ritis, e i meri esecutori della condanna fatale.
Certo è pur vero che la monarchia alla quale si allude possa intendersi in senso allegorico e quindi patologia sociale, escrescenza nociva da estirpare per un risorgimento politico, di cui si paventa sempre la portata, ma l’opera non ha connotati storici e i confini sono volutamente labili; in virtù di ciò il perimetro del successo del romanzo, se non della prosa di Bufalino, sempre avara di appigli concreti, fa sì che l’opera in questione non diventi immanente storia dell’uomo, ma storia di uomini, di scacchi mossi da un’abilità propensa al maneggio non tanto del narratore, quanto di un demiurgo invisibile irriducibile giocatore delle sorti umani. È pur vero che delle coordinate storico-cronologiche definite avrebbero inquadrato la vicenda solo ed esclusivamente in funzione del narrato vissuto, l’assenza delle quali consentono all’allegoria profetizzata (sia essa giustizia, miscredenza della verità, o incantesimo) di espandersi a macchia d’olio per ogni periodo storico, regalandone una validità assoluta, come spesso asserisce il motto latino mutatis mutandis (in questo senso lo storico Sallustio credo sia stato l’iniziatore con una delle sue arguzie: omnia Romae venalia sunt, ponendo nella parole il seme eterno della verità).
Tornando al romanzo il bugiardino narrativo, posto nella copertina posteriore (sintomatico vezzo di rendere l’opera fruibile nelle sue varie ed articolate sfaccettature), gioca con i generi del romanzo, affibbiando ad esso più di una definizione, per il quale sarebbe opportuno scegliere la soluzione di giallo metafisico; d’altronde l’impianto ci regala le ultime confessioni di quattro moribondi ai quali è stata concessa la possibilità di fare il nome dell’oscuro mandante, che per ironia della sorte è conosciuto con lo pseudonimo di Padreterno. La capziosa proposta viene offerta dal governatore, dissuggellata l’ultimo giorno prima della sentenza. Ognuno dei condannati potrà, nell’oscuro segreto del suo piccolo cartiglio, affidare al buio della verità quel nome, forse il sedicente spettro seguito da De Ritis, ormai anch’egli braccato dalla morte.
In questo curioso gioco narrativo per cui un morto, che ha inflitto la massima pena ai suoi prigionieri, vuole regalare il profumo della libertà, si incrociano racconti su racconti su uno sfondo di chiara impronta buzzatiana: vi troviamo una fortezza arcigna che troneggia su un’isola misteriosa, della quale di disconosce il mare, ma per asprezza del tempo e amaritudine della terra assomiglia vagamente a uno sputo di terra sicula, isolotto di un’isola; e in questa solitudine così avara di gioie, sproloquia come pioggia invocata il sortilegio del racconto, una diluizione che attenua la fastidiosa concentrazione della morte, un nembo maligno che per interminabili momenti non s’addensa, si sparpaglia allontanando barbagli di nuvole nell’attesa che debba compiersi qualcosa. La menzogna pertanto diventa un inganno faceto del tempo e, al contempo, un inganno sarcastico della vita. Allora questi baloccamenti della morte regalano una meditazione soffusa, che muta spesso in un parziale rimpianto per l’oscuro segreto che si deve trattenere e una malcelata voglia di confessare. Così i testimoni di questo dialogo ci appaiono sotto le mentite spoglie di filosofi al banchetto (il governatore, i condannati, il frate Cirillo) che coprono le verità in bugie, come uomini prigionieri di una caverna che scambiano il riflesso delle ombre per gli oggetti sensibili; essi vanno silenziosamente contro una morte certa, forse miracolosamente architettata dallo stesso Padreterno.
Svelare il romanzo sarebbe un delitto, però la pluralità dei temi trattati è un crocevia della poetica dello scrittore siciliano che accoglie il timore, la morte della morte, la verità, come oggetti conoscibili; verità, ripeto, sensibili solamente se si è disposti ad ascoltare noi stessi e gli altri nell’arduo gioco della vita. Per cui nell’amaro dileggio il fautore dell’inganno è ingannato o ha ingannato il lettore (chi lo sa, forse a quello alluderebbe la dedica iniziale: A noi due).
Infondo le ultime parole del governatore in merito alla condizione dell’uomo sono queste: “..allora mi chiedo: io, chi sono? Noi, gli uomini, chi siamo? Siamo veri? Siamo dipinti? Tropi di carta, simulacri increati, inesistenze parventi sul palcoscenico d’una pantomima di cenere, bolle soffiate dalla cannuccia d’un prestigiatore nemico? Se così è, niente è vero. Peggio: niente è, ogni fatto è uno zero che non può uscire da sé. Apocrifi noi tutti, ma apocrifo anche chi ci dirige o raffrena, chi ci accozza o divide: metafisici niente, noi e lui, mischiati a vanvera da un recidivo disguido: nasi di carnevale su teschi colmi di buchi e d’assenza… Ho visto un quadro a Parigi, or è un anno. Rappresentava una scimmia in un ateliere, con tavolozza e pennelli. Saremmo questo, noi creature di lacrime? Gli scarabocchi d’una scimmia pittrice? Se non pure fantocci in piedi, nel mezzo di una stanza, moltiplicati da due specchi che si fronteggiano?..”.