Nasco a Firenze nel 1929 da Edoardo, artigiano antifascista, e Tosca Cantini, casalinga come tante in quel periodo oscuro che le donne contan proprio poco. In casa siamo tutte femmine, scrittrici e giornaliste, Neera e Paola, eccetto Elisabetta, figlia non meno amata ma adottiva. Grazie a mio padre socialista rischio la vita sin da piccola, così mi abituo a fare il reporter di guerra, ché son staffetta partigiana nelle Brigate Giustizia e Libertà. Partito d’Azione, che bel nome, proprio quello che voglio diventare, donna d’azione. A Firenze si comincia a far sul serio quando arrivano i nazisti, nel 1941, con mio padre catturato e torturato a Villa Triste dai fascisti di Mario Carità e io che porto munizioni da una riva all’altra del mio fiume, privo di ponti distrutti dalle bombe. A guerra finita mi danno persino una medaglia, per me è normale, son priva di paura, vivo la vita con scellerato ardore. Studio al Liceo Classico Galilei, come si conviene a una ragazza di famiglia borghese, provo con Medicina, poi con Lettere – forse più vicina alle mie corde – ma son irrequieta, non riesco a terminare, il mio unico mestiere è il giornalismo, mi convince zio Bruno che fa quel lavoro, poi conosco Curzio Malaparte (il mio maestro!) ed è la svolta decisiva per capire che la mia missione è vivere per raccontare storie. Sono una giovane studentessa quando scrivo sulle colonne del cattolico Mattino dell’Italia centrale, articoli di varia umanità, cronaca nera, costume, guai giudiziari, infine la prima incazzatura della mia vita che mi fa licenziare; il direttore vorrebbe che scrivessi un pezzo contro Palmiro Togliatti, uomo che non amo, ma meglio non scrivere che farsi dire cosa raccontare. Lascio Firenze per Milano dove c’è più stampa, molte redazioni di giornali, mio zio Bruno dirige Epoca, un bel settimanale edito da Mondadori, mi prende a lavorare ma non fa nessun favoritismo, mi chiude in redazione a correggere le bozze dei collaboratori, poi come premio mi promuove inviata d’alta moda – proprio a me! – ma è una novità, nel 1952, a Palazzo Pitti di Firenze, un evento insolito.
Ho solo 22 anni quando vedo la mia firma su un articolo, sull’Europeo di Michele Serra che diventa il mio giornale, dove rimango fino al 1977. Vado a vivere a Roma, mi occupo di cronaca mondana, di dolce vita, vado anche a New York per raccontare i divi e per scrivere il mio primo libro, I sette peccati di Hollywood, con i retroscena del cinema, della vita delle star, con Orson Welles (quale onore!) che firma la prefazione. Alfredo Pieroni è il primo amore, giornalista per La Settimana Incom Illustrata, è con lui che nel 1958 credo di poter avere un figlio ma lo perdo per aborto naturale, rischio la vita, finisco in depressione, tento di suicidarmi con un tubetto di sonniferi, dico addio a Pieroni che non può essere l’uomo della mia vita. La condizione della donna m’interessa, non solo in Italia, vado in Oriente per fare un reportage, ne vien fuori un libro, Il sesso inutile, un successo, dove scrivo cose mai dette prima da nessuno. Il reportage è il mio mestiere ma la fiction mi attira, invento una storia – Penelope alla guerra – dove narro di Giò, una Penelope moderna che non attende il suo Ulisse ma viaggia per il mondo, vola a New York e incontra persone del passato. Vendo molto, mi traducono nel globo occidentale, scrivo tanti articoli e intervisto, ci tiro fuori un altro libro di successo, Gli antipatici, ritratti di personaggi del bel mondo, tra cinema e cultura, che escono prima sull’Europeo poi sulle pagine del libro. Siamo allo sbarco sulla Luna, non posso perdere l’esperienza d’intervistare chi ci deve andare, i tecnici della Nasa, persino il mitico Von Braun, un ex nazista convertito alla scienza americana. Se il sole muore lo dedico a mio padre.
Tutto quel che accade lo seguo in prima linea per raccontarlo con occhi illuminati da verità vissute sul mio corpo da farfalla, la penna invece è pesante come il piombo e battagliera. Nel 1967 sono in Vietnam per L’Europeo, come regola di vita non mi schiero, non sto dalla parte di nessuno, racconto eccidi Vietcong e comunisti, nefandezze americane e sudvietnamite, atti eroici, momenti di umana compassione, tutto quel che c’è da dire non nascondo; vengo sette volte in Indocina a vivere questa sanguinosa follia che finisce nel libro Niente e così sia. Muoiono Martin Luther King e Bob Kennedy, volo in America per capire cosa accade, nei luoghi dove scorrono giorni di follia, dove vedo studenti che contestano e distruggono, invocano Che Guevara ma vivono con l’aria condizionata, viaggiano su fuoristrada, indossano camice di seta, son pieni di vizi consumistici. Non sopporto le contraddizioni, vivere secondo le mode, poi manifestare e agitare simboli che non si conoscono; io son come Pasolini, stava con i poliziotti, figli di povera gente, non con gli studenti, figli di borghesi. Quante volte rischio la vita … ma son sempre presente dove c’è un massacro, anche in piazza Tre Culture, Città del Messico, accanto agli studenti che protestano contro l’occupazione militare, mi prendo una raffica di mitra e tutti mi credon morta. In obitorio un prete si rende conto che son viva, sopravvissuta non so come al massacro più infame della mia vita, persino peggiore della guerra … e di eventi bellici ne ho vissuti sulla mia pelle, da India a Pakistan, passando per Sudamerica e Medio Oriente. Quel giorno sulla Luna è il reportage dell’Apollo 11, la missione che mi affascina, l’intervista a Conrad, la scommessa, in palio una bottiglia di whiskey, il ricordo delle frasi storiche, in fondo che m’importa se son state decise prima, sceneggiate da qualcuno, è pur vero che resta un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l’umanità. Conrad si porta sulla Luna una mia foto, lui dice di aver vinto la scommessa ma io la bottiglia non la pago, quel che faccio è una sorta di rivalsa femminista, gli regalo un abbonamento a Playboy, proprio a lui che si sente così maschio.
L’uomo della mia vita però lo incontro nel 1973, siamo d’agosto, lui si chiama Alexandros Panagulis, un vero eroe che affronta in Grecia i colonnelli, perseguitato, torturato, incarcerato, un uomo che si oppone alla dittatura con la forza delle idee, un democratico. Resto con lui tre anni, fino alla sua morte in un incidente stradale maledetto, ci scrivo un libro intitolato Un uomo, uno dei più belli che una donna possa dedicare al compagno di tutta un’esistenza. Come vorrei un figlio da quest’uomo ma la maledizione di non poter essere madre mi colpisce ancora, aborto spontaneo dopo una lite – mi era già capitato – e non mi resta che scrivere una Lettera a un bambino mai nato, altro libro che ricorderete, il più venduto. Un altro uomo di cui son stata amica è Pasolini, poeta scellerato, un uomo mica niente facile, un po’ come me, in fondo, indago sulla sua morte, quando lo ammazzano dei vigliacchi criminali su quel campo di terra e sassi di Ostia mare, sono una che capisce al volo quando c’è di mezzo qualcosa che si vuol far sparire, come per la morte del mio amato Panagulis ci son troppe cose poco chiare, moventi strani, mandanti oscuri. La storia del mio eroe la scrivo su Un uomo, il suo incidente accade dopo, voluto da politici di quella tremenda giunta militare, la vicenda di Pier Paolo finisce sui giornali, è un reportage che poi diventa libro. Muore il solo uomo che avrei potuto amare e infatti ho amato, senza lasciarmi neppure un piccolo se stesso, caro il mio Alexandros massacrato, come Pier Paolo, l’amico più fidato. Mi getto anima e corpo nel lavoro, intervisto tutti quelli che posso intervistare, Henry Kissinger dirà chi me l’ha fatto fare?, ché gli tiro fuor di bocca cose che mai a nessuno aveva voluto dire. L’elenco è lungo, ci si scrive un libro solo a ricordare il buon Berlinguer, il pacioso Nenni, il re Husayn, il vecchio scià Reza Pahlavi, il negus Hailé Selassié, Indira Gandhi, Golda Meir, il mio Panagulis, Gheddafi, Deng Xiaoping, Sean Connery, il cancelliere Brandt, il grande Fellini e Pasolini che non può mancare … Intervista con la storia è il libro che ne vien fuori, davvero posso dire di aver avuto un colloquio con la storia nella mia vita scritta come un film.
Intervisto persino Khomeini, quel tiranno assassino, senza il chador, ché io mica son musulmana, neanche cristiana se proprio devo dirlo, io son soltanto Oriana; gli chiedo come mai le donne in Iran vengon trattate peggio delle bestie, lui mi dà del cattivo esempio, mi apostrofa come quella donna che si è tolta il chador, mi pianta in asso. Tu pensa che mi devo anche sposare per poterlo intervistare, matrimonio sciita con l’interprete, una cosa che si può annullare, perché mi cambio d’abito con lui dentro la stanza, che in questi posti proprio non si può fare, pena di morte dice una legge assurda. E mi sposano anche con la persona sbagliata, con il mullȃ che mi vede cambiar d’abito nella stanza invece che col traduttore, ma a me che importa, tanto è un matrimonio che vale quanto le regole d’una stramba religione. L’Iran è proprio un posto assurdo, ci torno ancora per intervistare Bani Sadr ma non mi vogliono più far ripartire, io telefono a Ingrid Bergman che chiama Pertini, il nostro Presidente, faccio un casino tale che mi lasciano andare. In politica le mie idee seguono il vento, ma non son certo di destra, la politica italiana è molto strana, forse con Pannella e i radicali la mia parentela è più vicina, per le lotte femministe e i diritti umani, non per l’aborto, chiaro, ma condividere tutto mica è facile. Intervisto Lech Walesa, un uomo vero, altro che quel pazzo Khomeini, mi danno la laurea honoris causa alla Columbia, quella laurea che non ho mai voluto da studentessa svogliata e un poco capricciosa.
Nella mia vita ho scritto proprio tanto, il rettore dice che son scrittrice tra le più lette al mondo, articoli ne scrivo, reportage che fanno proprio in pochi sulle colonne di giornali molto austeri come Times, New Republic, Washington Post, Stern, Corriere della Sera … chi l’avrebbe detto. Nel 1990 vado a vivere a New York, dopo aver pubblicato Insciallah, mezzo romanzo e mezzo reportage, ambientato a Beirut, tra le truppe italiane, dove mi accredita il ministro Spadolini. Conosco Paolo, sergente dell’esercito italiano – diventerà grazie a me astronauta -, vivo con lui cinque anni, è uomo coraggioso, affronta pericoli, vede amici morire, combatte kamikaze, fantasmi di esaltati, pazzi furiosi vestiti da invasati. Vedo un nemico che si combatte male, un nemico che non solo non teme di morire, ma vive la morte come un premio da riscuotere per un futuro Paradiso conquistato. New York è il mio rifugio, villa a due piani a Manhattan, Upper East Side, scrivo un romanzo interminabile per dieci anni, ma lo finisco poco prima di morire, si chiama Un cappello pieno di ciliege. Comunque la mia vera casa non è questa. La mia vera casa è la villa a Greve in Chianti, un rustico dove abitano i miei genitori con la mia sorellina. Intanto arriva l’undici settembre, data che non posso dimenticare, poi c’è il cancro ai polmoni da curare che lentamente procede e io lo so che lui alla fine uccide, ma ci combatto, come contro tutte le cose della vita con cui devo combattere da sempre. Cancro maledetto per tutte le sigarette che ho fumato, certo, ma soprattutto per i fumi dei pozzi di petrolio fatti saltare in aria da Saddam, in Kuwait, dove mi trovavo per narrare la guerra del golfo del 1991.
Due cose mi cambiano la vita e pure il mio modo di pensare, la morte dell’amato Alexandros e l’infamia dell’undici settembre, che mi fa capire quanto sia pericoloso il fondamentalismo per la nostra civiltà occidentale. Scrivo tanto su questa cosa, scrivo di getto, persino un po’ incazzata, violenta e dura come non son mai stata, anche poco obiettiva, lo confesso, ma non è facile essere obiettivi quando un pericolo minaccia. Siamo incapaci di difenderci dai pazzi, da questi islamici che vagan per il mondo, che c’invadono, che fan delle nostre strade luoghi dove edificar moschee e offender donne con usanze scellerate. Ci stanno islamizzando, lo grido in faccia al mondo occidentale, ai troppo buoni, a chi non vuol capire che presto saremo vittime sacrificali sopra un altare fatto di Corano. Io mi comporto come se Do esistesse, anche se son atea, amica di Benedetto XVI, rivendico il mio essere cristiana in quanto occidentale e tanto basta. Non voglio esser convertita, non ci tengo. Non voglio neppure esser islamizzata, sarebbe peggio che esser convertita. Resto atea e cristiana. La rabbia e l’orgoglio e La forza della ragione contengono tutto il mio pensiero su queste cose, poi ci sono le interviste a me stessa, le leggerete quando questo maledetto cancro mi avrà uccisa. Continuo a dire quel che penso come sempre, contro i torturatori americani, contro chi crede che fare la guerra a Bagdad sia la soluzione, contro chi non vorrebbe andare in Afghanistan, contro chi pensa di esportare la pax americana, un concetto assurdo di democrazia.
Difendo la mia Firenze contro i barbari, i no global, contro attori smidollati e attricette che augurano cancri maledetti, imitatrici senza intelligenza, oche crudeli prive di civiltà, contro chi è di sinistra ma un tempo fu repubblichino, vorrei listare a lutto le mie strade dove passano cortei di sciagurati. Mi scaglio contro i magistrati e lo strapotere infinito, contro la sinistra che conosce il danno ma lascia fare, anzi se ne serve. Non son mai stata comunista, da buona figlia di padre socialista, non posso accettare un’idea che proibisce alla gente di ribellarsi, esprimersi, arricchirsi, dove lo Stato è despota sovrano, una monarchia vecchio stampo che evira gli uomini, che trasforma tutti in plebe assuefatta e amorfa, che fa morir di fame. In Italia poi abbiamo i sindacati, figli sciocchi di Marx, proprio come certi magistrati che interpretano la legge secondo simpatie. Non mi togliete la proprietà privata, la libertà, il gusto di parlare. Sono il sale della vita. In Italia non voto, non posso scegliere tra Prodi e Berlusconi, son due poveri idioti che non meritano un istante di attenzione. Fini è più odioso di Togliatti. Non appoggio nessuno, pure se loro mi tiran per la giacca. Resto me stessa, anarchica al punto che vorrei – con la complicità degli amici di Carrara – far saltare in aria le moschee che da troppe parti cominciano a edificare. La Lega poi non sa cos’è la patria. La sinistra è democratica quanto io son musulmana e la destra non sarà mai la squadra con cui giocare, questo è certo. Conservatrice sì, forse lo sono.
Contro l’aborto, a meno che non siate violentate da Bin Laden, contro il matrimonio e le adozioni gay, libertà ne avete, accontentatevi di amare. La maternità è cosa per donne, purtroppo non l’ho avuta, ma non mi turba l’omosessualità, Pasolini e Zeffirelli son due amici, con loro affronto certi argomenti e son compresa. Non son d’accordo con l’eutanasia, dico anche che l’Unione Europea è un club di persone dell’alta finanza che soggioga i paesi. Vinco tanti premi, persino l’Ambrogino d’Oro a Milano, grazie alla Moratti, ma quello che più vorrei me lo regala sulla tomba Zeffirelli, ché la mia città non me lo vuol proprio dare. Muoio che ancora un sacco di cose avrei da fare, che peccato, ma accade nella mia Firenze, il 15 settembre del 2006, ho 77 anni, non sono senatrice a vita, meglio così visto chi l’ha chiesto, poi lo sarei stata troppo poco. Muoio mentre rivedo la Torre dei Mannelli, guardo l’Arno da Ponte Vecchio, il quartier generale di mio padre partigiano, dove da bambina – nome di battaglia Emilia – portavo le bombe a mano ai grandi, nascoste nei cesti d’insalata. Muoio al Santa Chiara, di sicuro non compresa, apprezzata da chi non avrei voluto, succede spesso, credo. Adesso mi trovate nella tomba di famiglia, cimitero degli Allori, al Galluzzo, in mezzo a tanti atei come me, a musulmani (non fondamentalisti), conservo una copia del Corriere della Sera, un Fiorino d’oro regalo di Zeffirelli, un ceppo di Alekos. Tutti i miei libri e i miei ricordi li affido a Papa Benedetto, il solo cui son rimasta affezionata, all’Università Lateranense di Rino Fisichella, lascito terminale di un’atea che volle morir cristiana per rivalsa.