Il 17 ottobre la Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), in comunione con il patriarca di Gerusalemme e i cristiani di Terra Santa, ha deciso di promuovere una Giornata nazionale di digiuno, preghiera e astinenza per la pace e la riconciliazione.
La nascita dello Stato di Israele, settantacinque anni fa quando il 14 maggio 1948 Ben Gurion proclama la nascita dello Stato, è segnato dalla guerra. Un conflitto che segna, che segnerà, il destino di questo Stato. Nella notte tra il 14 e il 15 maggio, cinque paesi arabi (Egitto, Siria, Libano, Transgiordania, Irak) muovono infatti i loro eserciti all’attacco del territorio che l’Onu, il 29 novembre 1947, ha assegnato al nuovo Israele. Gli ebrei si difendono con coraggio, vanno al contrattacco, sgominano gli avversari e si riversano nella Palestina che sarebbe dovuta andare ai palestinesi, occupandone larghe porzioni. È la guerra che rende più profondo il sentimento dello Judenstaat, la patria ebraica, unendo laici e religiosi, ebrei europei ed ebrei del Medio Oriente, architetti tedeschi e bottegai ungheresi, docenti universitari e agricoltori dei kibbuz. Mentre dai successi militari scaturisce la devozione per le forze armate, che resterà una costante della società israeliana sino al disastro dell’invasione del Libano nel 1982 e alla nascita di Peace now, il movimento pacifista.
Sessant’anni Israele resta, e lo stiamo vivendo tragicamente, l’errore fatale commesso dai governi d’Israele nel protrarre per decenni l’occupazione della Palestina, rosicchiando anno dopo anno, sordi a qualsiasi appello, pezzi della terra altrui. «Guardate, disse quindici anni fa lo scrittore David Grossman nella sua orazione per il decennale dell’assassinio di Yitzhak Rabin (assassinato il 4 novembre 1995), primo ministro dello stato d’Israele e Premio Nobel per la Pace nel 1994, – rivolto ai governanti israeliani –, dove avete condotto questo paese. Guardate come siete riusciti a far marcire i valori, la morale, che furono alla base della fondazione d’Israele. Riflettete su come l’occupazione della Palestina e la disperata rivolta dei palestinesi, abbiano deturpato la nostra immagine nel mondo». Parole dure, spietate. Ma che non si possono tacere o dimenticare. Nel dicembre 1987, inizia l’Intifada (in arabo «rivolta»): la guerra dei palestinesi dei territori occupati che scagliano pietre contro gli israeliani fa il giro del mondo. Il 13 settembre 1993 a Washington viene firmato solennemente l’accordo di Oslo tra Palestina e Israele alla presenza del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. Non possiamo non ricordare la famosa e storica stretta di mano fra Rabin e Arafat. Nel 2000 si scatena la seconda Intifada. Nel 2008, dopo la presa del potere di Hamas – che è l’acronimo arabo di Ḥarakat al-Muqâwama al-Islâmiyya, ossia Movimento Islamico di Resistenza, ma le iniziali, tra loro abbinate, significano anche «entusiasmo, zelo, spirito combattivo». È un’organizzazione palestinese di estremismo islamico considerata terroristica da Israele, Stati Uniti e Unione Europea. Nel suo statuto invoca la distruzione di Israele. Fondata nel 1987 durante la prima Intifada, ha rivendicato attentati suicidi contro i civili e attaccato centinaia di volte Israele con i razzi. Dal 2007 controlla Gaza con la forza. È sostenuta finanziariamente dall’Iran e dall’Hezbollah libanese – nella Striscia di Gaza – un lembo di terra di appena 360 chilometri quadrati con la più altra densità di popolazione del mondo; nei secoli ha sempre vissuto un alternarsi di molti «padroni» (il dominio turco, quello britannico, gli egiziani). Nel 1947, il Piano di spartizione Onu la assegnò al futuro – ma mai nato – Stato arabo. Israele la occupò nel 1967, durante la guerra dei Sei giorni (dal 5 giugno al 10 giugno 1967). Nel 1994, gli accordi di Oslo l’hanno consegnata al controllo palestinese. Nel 2005, Israele si ritirò dall’enclave. Nel 2006 Hamas vince le elezioni, dopo aver eliminato con una campagna violenta il gruppo rivale Fatah, e ha iniziato a controllare Gaza con un regime di terrore che lo scorso sabato è esploso violentemente piombando dal cielo.
Con il professore Francesco Pira, Associato di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi e Direttore del Master in Esperto della Comunicazione Digitale dell’Università di Messina, Saggista e Giornalista, vogliamo ancora una volta analizzare e prendere le «misure del mondo in cui viviamo» (Andrea Riccardi, La forza disarmante della pace, Jaca Book). La situazione internazionale è davvero molto delicata e sempre più «liquida» (Zygmut Bauman, Modernità liquida, Laterza). Questo nostro secolo, dall’11 settembre 2001, pare essere testimone di eventi catastrofici. L’accoglienza, la ricerca delle verità, il rispetto la giustizia, la pace non possono essere più essere messe tra parentesi in attesa di tempi migliori, propizi. Non possiamo più accettare il degrado sociale e culturale che sempre più avanza e che ci sta indebolendo. Occasioni di confronto, come questa, urgono e sono necessarie.
D.: Il nostro mondo è un mondo sempre più difficile da comprendere. Viviamo una cultura dello scontro che provoca, drammaticamente, nemici, frontiere, morte morti. Il sogno della grande pace, la grande aspirazione del 1989, seguita alla caduta del muro di Berlino, non si sta più realizzando. Viviamo in un mondo di identità incerte e di contrapposizioni che il fenomeno della globalizzazione sempre più crea, dando vita alla rinascita di particolarismi. Come possiamo costruire e custodire la pace non solo a Gerusalemme, ma in tutte le Gerusalemme d’Italia, d’Europa e del mondo?
R.: Quello che è insopportabile, nelle ultime ore, vedere le immagini in Israele, di bambini uccisi, da terroristi senza scrupoli, che stanno mettendo in seria discussione tutti gli equilibri mondiali. Nessuno ha il diritto di spezzare i sogni di giovani vite. Nessuno può decidere chi deve morire e chi deve vivere. Come se non bastasse quello che sta accadendo in Ucraina e in varie parti del mondo dove la guerra non si è mai fermata. Sembra distante anni luce il valore della Pace. Gli interessi economici, il lavoro costante delle lobby di chi fabbrica armi di morte e distruzione allontanano ogni speranza di pace. È incredibile vedere le immagini di molte città del mondo dove ci sono proteste contrapposte. Come se il valore della vita fosse diventato nullo. Dobbiamo cercare senza sosta e ri-trovare il rispetto per la pace. L’assenza della pace compromette anche il clima e il raggiungimento di obiettivi fondamentali. In questi mesi è arrivato un grido unanime: “Porre fine alla guerra in Ucraina e avviare seri negoziati di pace”. Ma mentre si lanciava questo appello ecco che si apre un altro focolaio di guerra in Israele. Lo ha ribadito papa Francesco nel suo discorso al Forum per il Dialogo in Bahrein. L’ANSA ha riportato che a chiedere la pace “Sono anche i musulmani, a partire dalla massima autorità sunnita, il Grande Imam di Al-Azhar Ahmed Al-Tayyeb, che chiede di alzare lo stendardo della pace invece che quello della vittoria, e di sedere al tavolo del dialogo e dei negoziati”. Il pontefice ha evidenziato che “Chi è religioso con forza dice ‘no’ alla bestemmia della guerra e all’uso della violenza. Uno scenario drammaticamente infantile: nel giardino dell’umanità, anziché curare l’insieme, si gioca con il fuoco, con missili e bombe, con armi che provocano pianto e morte, ricoprendo la casa comune di cenere e odio”. Le associazioni stanno organizzando numerose manifestazioni e tanti incontri di sensibilizzazione per far fronte ad una difficilissima e complessa situazione sociale. Il filosofo Edgar Morin, in una recente intervista su “La Lettura” del Corriere della Sera ha sottolineato come: “Stiamo assistendo al degrado della solidarietà come pieno riconoscimento dell’umanità dell’altro. Oggi ci sono troppe persone che soffrono la tragedia della solitudine. C’è una politica di solidarietà da sviluppare. C’è urgente bisogno di un enorme cantiere”. Mi preoccupa il fatto che nessuno si occupi di questo «cantiere».