Paolo Cavara (Bologna, 1926 – Roma, 1983) è un documentarista che nel cinema dei primi anni Cinquanta dirige oltre quaranta cortometraggi. È aiuto regista per alcuni lungometraggi a soggetto come La maja desnuda (1958) di Henry Koster e Mario Russo, ma soprattutto collabora con Jacopetti e Prosperi per la realizzazione di Mondo cane (1961) e La donna nel mondo (1963).
I malamondo (1964) è il primo mondo movie che Cavara gira in proprio per raccontare i giovani europei inquieti, annoiati, figli del Boom che non hanno visto la guerra, utilizzando uno stile che si avvicina alla fiction, ma eliminando le parti eccessive tipiche dei lavori alla Mondo cane. Si nota un atteggiamento critico nei confronti di Jacopetti e Prosperi, ma il lavoro risulta datato in ogni senso e si ricorda solo per la grande cura formale e per un’ottima colonna sonora di Ennio Morricone. I malamondo è un documentario – inchiesta che parla di omosessualità (senza nominarla), pace, riti goliardici nordeuropei, travestiti francesi, cliniche inglesi per guarire i gay, nudisti e spogliarelli. Soggetto di Cavara, ma collaborano alla sceneggiatura i giornalisti Livio Zanetti e Carlo Gregoretti.
L’occhio selvaggio (1967) è un film a soggetto molto polemico nei confronti dell’esperienza con Jacopetti e Prosperi. Il protagonista della pellicola è un regista interpretato da Philippe Leroy che non arretra davanti a niente pur di ultimare un documentario-shock. Cavara critica Jacopetti e riprende in chiave grottesca l’episodio incriminato della fucilazione contenuto in Africa addio, mostrando Leroy e l’operatore Gabriele Tinti mentre fanno spostare un vietcong davanti a un muro bianco perché la ripresa venga meglio. Le imprese del cinico regista non si limitano a questo. Nel deserto simula un incidente, fa restare i suoi compagni di sventura senza acqua per filmare disperazione e sconforto. Quando arrivano i soccorsi soltanto lui e l’operatore sapevano che era tutto previsto. Il regista utilizza le persone come fossero oggetti, persino l’amore è un sentimento da far fruttare in chiave cinematografica. Delia Boccardo interpreta una ragazza innamorata al punto di lasciare il marito per seguire il regista, anche se si rende conto di vivere accanto a un uomo privo di sentimenti. A Singapore vediamo una finta cura praticata con bastonate sui corpi inermi dei tossicomani, ma non c’è niente di vero, si tratta solo di un effetto scioccante molto cinematografico. “La realtà è noiosa, la bugia è divertente. Non ci sono buoni o cattivi film, ma solo film capaci di eccitare lo spettatore per almeno 50 metri di pellicola. Una donna con il fucile in mano eccita il masochismo, una donna disarmata il sadismo”, recita la pseudo morale del regista. Cavara inserisce una citazione dell’episodio jacopettiano relativo al bonzo buddista che si dà fuoco in piazza per protestare contro la guerra. Fa capire che era tutto costruito. Vediamo anche una finta sequenza con un sultano caduto in disgrazia che mangia farfalle, dorme per terra e subisce l’umiliazione di un offerta in denaro per avere in cambio una moglie. Tutto è recitato a soggetto. Il regista afferma di aver fatto una scelta coraggiosa quando ha deciso di stare dalla parte dei padroni per girare film pieni di bugie, orrori e scandali, assecondando le richieste del mercato. La sua morale è finalizzata al tornaconto personale, recrimina perché l’operatore non riprende una scena con un vietcong che lo percuote, rischia la vita pur di fare un grande film, vive pericolosamente perché – a suo modo di vedere – solo questo è vivere. “Cosa te ne fai di una vita normale? Si beve, si mangia… e poi?” chiede alla ragazza sconcertata. La sua opinione sule donne è il massimo del misogino: “Lei è soltanto una donna e si è adattata…”, è quel soltanto che fa pensare. Il film descrive un personaggio cinico fino in fondo, capace di farsi rinchiudere in un locale dove ci sarà un attentato e di rischiare la vita per una ripresa scioccante. L’occhio selvaggio resta in primo piano sino all’ultima drammatica sequenza, quando il regista ordina un nuovo ciack per riprendere la disperazione e la distruzione che lo circonda. L’occhio selvaggio è scritto dal regista insieme a Fabio Carpi e Ugo Pirro (Tonino Guerra e Alberto Moravia collaborano ala sceneggiatura), non è un mondo movie ma un film che resta in equilibrio tra poesia e autocritica. Cavara racconta la realtà contemporanea, analizza la crisi dell’occidente, critica la riduzione a mercanzia del genere umano e riflette sui meccanismi che scattano nella mente dello spettatore durante la visione. Puro cinema sul cinema per far pensare alla manipolazione della realtà.
Paolo Cavara abbandona l’esperienza del mondo moviee l’ispirazione documentaristica per dedicarsi al cinema vero e proprio, in certi casi dichiaratamente commerciale, ma spesso con ambizioni d’autore.
La cattura (1969) è una coproduzione italo – jugoslava interpretata da David McCalum, Nicoletta Machiavelli, Lars Bloch, Giorgio Dolfin, Sergio Mioni e Sergio Serafini. Il soggetto è del regista con la collaborazione di John Crawford, che gira un film davvero buono sugli orrori della guerra. I dialoghi sono pochi, ma l’impatto visivo è grande, soprattutto nella prima parte che vive di sequenze onirico – visionarie girate in mezzo a boschi innevati. Il film racconta la vicenda del sergente nazista Halman incaricato di uccidere la pericolosa partigiana Anja, una tiratrice infallibile. Halman la cattura ma per motivi contingenti resta alcuni giorni insieme alla ragazza in una baita di montagna dove i due si innamorano e dimenticano la guerra. Il sergente decide di lasciare libera la donna, ma appena l’uomo e la donna si separano vengono uccisi dal fuoco dei rispettivi nemici. Il film non è retorico, pure se nel finale viene fuori l’immancabile invito a fare l’amore invece della guerra.
La tarantola dal ventre nero (1971) è un buon giallo all’italiana interpretato da Giancarlo Giannini, Stefania Sandrelli, Claudine Auger, Barbara Bouchet, Rossella Falk, Silvano Tranquilli, Annabella Incontrera, Barbara Bach e Giancarlo Prete. Il cast è eccellente, ma soprattutto Giancarlo Giannini è ben calato nella parte dell’ispettore di polizia alle prese con uno squartatore di donne. Un sadico assassino immobilizza le vittime con una droga e poi le seziona ancora coscienti, imitando la tecnica della vespa quando uccide la tarantola. Si tratta di una pellicola ispirata a L’uccello dalle piume di cristallo (1970) di Dario Argento, capostipite indiscusso di un certo modo di costruire thriller in Italia. Atmosfera morbosa e violenta, molto nudo e momenti decisamente inquietanti sono la ricetta giusta per emozionare il pubblico. Si ricorda una lunga scena erotica con protagonista Barbara Bouchet che interpreta una ninfomane tra le mani di un abile massaggiatore. Proprio lei sarà la prima vittima di un killer misterioso che indossa un paio di guanti in lattice, dispone di un ago per immobilizzare e colpisce con un coltello affilato. I primi sospetti cadono sul marito tradito ma la spiegazione non è così’ semplice perché viene fuori un giro di ricatti organizzato dalla padrona del centro massaggi e da un giovane complice. Persino il commissario cade nella rete dei ricattatori e viene filmato mentre fa l’amore con la moglie. Muore il marito della ninfomane e subito dopo anche il giovane ricattatore viene ucciso da un’auto in corsa. Alla fine si scopre che il killer è il massaggiatore cieco, uno psicopatico impotente che aveva ucciso la moglie e che odiava le donne belle e libere. Abbastanza prevedibile. Il meccanismo narrativo ricorda il thriller argentiano ma anche il giallo sexy di Sergio Martino e molta produzione italiana contemporanea. Il valore aggiunto lo forniscono gli attori, tutti molto bravi a partire da Stefania Sandrelli e Giancarlo Giannini. Paolo Cavara cita il mondo movie con una sequenza ben realizzata dove mostra una vespa che uccide una tarantola con il suo pungiglione e alla fine deposita le uova nel suo ventre. Molte scene sono ad alta tensione, è ben costruito un inseguimento sui tetti, così come gli omicidi del killer seguono le regole del buon giallo italiano. Il regista è molto bravo a immortalare una Roma solare e semi deserta con poche automobili che circolano e alcuni passanti distratti. Ottimo il finale con il commissario che uccide il killer con le proprie mani perché crede che abbia assassinato sua moglie. In realtà la donna è ancora viva, si trova soltanto sotto l’effetto della droga paralizzante. Giancarlo Giannini esce dall’ospedale con il bavero della giacca alzata e si immerge tra la gente che passeggia incurante del suo dramma. Il soggetto non molto originale è del produttore Marcello Danon, mentre la sceneggiatura è firmata da Lucille Lask. Musiche di Ennio Morricone e montaggio di Mario Morra, che episodicamente ricompone parte della squadra jacopettiana. Paolo Cavara dirige con eleganza e si avvale di un’ottima fotografia curata da Marcello Gatti.
Los amigos (1973) è un western all’italiana molto ambizioso interpretato da Anthony Quinn, Franco Nero, Pamela Tiffin, Franco Graziosi, Adolfo Lastretti e Ira Fürstemberg. Il soggetto è di Harry Essex e Oscar Saul, che scrivono la sceneggiatura insieme a Cavara, Augusto Finocchi e Lucia Drudi Demby. La fotografia è di Tonino Delli Colli. I protagonisti sono una coppia molto bizzarra: il sordomuto Erastus (Quinn) e il giovane Johnny (Nero), vivono nel Texas del 1836 e vengono incaricati dal presidente Sam Houston di contrastare i piani secessionisti del generale Morton.
La parte più commerciale della carriera di Paolo Cavara comincia con Virilità all’italiana (1974) – in alcuni testi menzionato come Virilità – concepito come imitazione di Malizia (1973) di Salvatore Samperi. Gli interpreti sono Agostina Belli, Turi Ferro e Marc Porel. L’azione si svolge in Sicilia dove un ragazzo capellone è accusato di essere un omosessuale. Il padre, che ha divorziato dalla moglie per sposare una ragazza più giovane, per salvare l’onore della famiglia decide di rendere nota la relazione tra suo figlio e la matrigna. La sceneggiatura di Gian Piero Callegari e Giovanni Simonelli non è all’altezza del tema e non si salva neppure come tentativo di imitazione. Per fortuna gli attori sono bravi, Cavara gira con sufficiente diligenza una pellicola che strappa qualche sorriso quando mette in scena gli stereotipi sulla Sicilia.
Il lumacone (1974) è una commedia interpretata da Agostina Belli, Ninetto Davoli, Turi Ferro e Francesco Mulè. Si racconta la vita grama di Gianni, un ex cuoco alcolizzato abbandonato dalla moglie che vive in una baracca insieme al ladruncolo Ginetto, appena uscito di galera, e cerca di redimerlo. Alla fine Gianni mette su un ristorante dentro un vagone ferroviario in disuso e porta il ragazzo sulla retta via. Il lumacone è una commedia sottoproletaria che mette in scena alcuni bozzetti poetici sull’epopea dei perdenti, anche se il film si stempera sempre più verso un retorico finale. Il soggetto è di Ruggero Maccari che collabora con il regista per la sceneggiatura.
E tanta paura (1976) è un buon giallo con ambizioni d’autore interpretato da Michele Placido, Corinne Cléry, Eli Wallach, Tom Skerritt e John Steiner. L’ispettore Romei indaga su una serie di omicidi che hanno come vittime un gruppo di ricchi viziosi, ma il solo indizio è un’illustrazione di Pierino Porcospino che viene sempre rinvenuta accanto ai cadaveri. Il soggetto è di Guy Longo, sceneggiato dal regista insieme a Bernardino Zapponi ed Enrico Oldoini, ma non è il solito giallo argentiano, i toni sono grotteschi, quasi da commedia nera, anche se la satira sociale non è molto raffinata. Molto originale l’attenzione che il regista dedica al fumetto e a una delirante sequenza animata realizzata da Gibba.
Atsalut pader (1979) è un ottimo film storico – biografico interpretato da Gianni Cavina, Claudio Bigagli, Antonello Fassari, Daniele Vargas, Michela Caruso, Ezio Marano e Nerina Montagnani. Gianni Cavina è frate Lino da Parma, che si dichiara estraneo alla politica ma sta dalla parte dei poveri e dei rossi durante il fascismo. Cavara, con la collaborazione degli sceneggiatori Lucia Drudi Demby ed Enzo Ungari, racconta la vita di un frate coraggioso che difende gli scioperanti nel 1907 e muore per strada, in mezzo alla sua gente, nel 1924. Ottime le caratterizzazioni e convincente l’ambientazione d’epoca. Il film non è mai paternalista e patetico, il tono si mantiene leggero e ilare senza cadere mai nell’agiografia. Il titolo significa: Ti saluto padre. Produce niente meno che la Rai.
Atsalut pader è l’ultimo lavoro per il cinema di Paolo Cavara che conclude la sua carriera realizzando tre ottime fiction televisive: La locandiera (1980), Fregoli (1981) e Sarto per signora (1982).
Nel 1983 Cavara muore, ancora giovane, lasciando molti progetti in sospeso. Possiamo dire che è stato un autore a metà, ma che in ogni caso ha sempre confezionato prodotti dignitosi e di buona qualità visiva. Ricordiamo per completezza che hasceneggiato il film per la televisione La bella Otero e ha scritto il soggetto di Così come sei (1978) di Alberto Lattuada.