Peccato o crimine (Laterza, 2021) è una ri-costruzione originale da parte di due grandi storici, entrambi di origini siciliane, sullo «scandalo della pedofilia» che da qualche settimana è nelle librerie. Gli autori sono: il professore Francesco Benigno, ordinario di Storia moderna alla Scuola Normale Superiore di Pisa ed il professore Vincenzo Lavenia, associato di Storia moderna all’Università di Bologna. Un allievo come il sottoscritto del Liceo Classico «G. Verga» di Adrano.
Il fenomeno della pedofilia ha rappresentato e rappresenta per l’istituzione della Chiesa cattolica una grave crisi che fatica a trovare una soluzione. Perché? Qual è la sua origine, la sua storia? Si tratta di un tema che ha messo la Chiesa in una «tempesta» dalla quale gli ultimi pontefici (Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco) non sono riusciti a venire fuori. Come mai la Chiesa fatica a far fronte a un fenomeno che le causa discredito, disaffezione e una forte crisi spirituale? A queste domande risponde l’acuto ed interessante saggio Peccato o crimine. La Chiesa di fronte alla pedofilia.
D.: Nel suo studio e nella sua formazione (Bildung) le parole «perdono», «pene», «Inquisizione» sono stati dei lemmi preziosi per ricostruire la parabola dell’Età moderna. Che cosa l’ha spinta ad occuparsi di queste questioni? Ha avuto un maestro, una guida in quest’esplorazione e/o ricerca?
R.: Sono sempre stato molto affascinato dagli studi di storia religiosa; già dai miei anni di liceo avevo una certa passione per la storia della Riforma e della Controriforma. Poi arrivai alla Scuola Normale, quando avevo diciannove anni, studiando tanti libri. Per l’esame di Storia bisognava scegliere un «classico» su cui cimentarsi, e io avevo optato per il volume Eretici italiani del Cinquecento di Delio Cantimori, un maestro della storiografia italiana, gentiliano di formazione, fascista durante gli anni del fascismo, comunista nel secondo dopoguerra (almeno fino al 1956) e grande studioso delle tradizioni eterodosse italiane ma anche dei giacobini e dei rivoluzionari, traduttore del Capitale di Marx insieme alla moglie. Insomma, all’inizio la fascinazione era cantimoriana: studiare l’eterodossia in tutte le sue forme. Poi fui preso, in realtà, dalla «macchina» e dalla costruzione egemonica della Chiesa romana: dal modo in cui quest’istituzione oltre ad aver vinto ha anche convinto, specie nella Penisola italiana; e qui certamente c’è il «segno» che ha lasciato sulle mie curiosità il mio maestro di studi a Pisa, che è stato Adriano Prosperi, oggi un grande amico, che mi ha seguito per la laurea e per il dottorato. Sono stato suo assistente (oggi si dice assegnista) quando Prosperi insegnava alla Normale. Insieme abbiamo lavorato alla redazione del Dizionario storico dell’Inquisizione, un’esperienza di lavoro collettiva. Ovviamente l’intento di chi studia la Chiesa in questa prospettiva non è solo quello di guardare al lato repressivo e violento della tradizione cristiana e di quella cattolica, anche se il rapporto tra violenza e religione è stato ed è centrale nei miei studi. Per questo mi sono occupato del nodo della legittimazione della guerra e della formazione cristiana dei soldati. Uno degli ultimi libri che ho scritto è dedicato appunto a questo argomento (Dio in uniforme. Cappellani, catechesi cattolica e soldati in età moderna, 2017). Certo, esiste l’aspetto repressivo, ma vi sono anche l’aspetto formativo e quello persuasivo, ovvero la capacità della Chiesa di «vincere» e di «convincere», una capacità che si è dispiegata in particolare nell’età della Controriforma, e che ha creato conformismo ma anche un modo di convivere, diverso da quello protestante, più attento, per esempio, all’esercizio della carità, più indulgente nei confronti dei difetti umani, importante per comprendere la storia della penisola italiana.
D.: La sessualità dall’antichità ad oggi è stata vissuta dalla Chiesa-istituzione non sempre come «dono» e «scoperta». Qual è il «nodo» che impedisce ancora oggi una corretta educazione e formazione sessuale clericale e laicale? Quali sono le «ragioni» e le «radici» di questo impoverimento educativo nei confronti della sessualità nella Chiesa cattolica?
R.: Non dobbiamo scambiare quello che è successo dopo gli anni Settanta nei Paesi a tradizione protestante, come sono ad esempio gli Stati Uniti, la Germania o i Paesi Bassi, con quello che è stato il «protestantesimo storico». Perché non è vero che nei confronti della «carne» c’è stato un atteggiamento più indulgente del mondo protestante, luterano e soprattutto calvinista. La differenza ha risieduto a lungo nella valorizzazione della sessualità nell’ambito familiare, cosa che il protestantesimo ha promosso già a partire da un’operetta sul matrimonio di Martin Lutero, in cui, in qualche modo, il riformatore invitava all’affettività coniugale come un aspetto importante della relazione, al di là dello scopo riproduttivo insito nell’unione uomo-donna. Ovviamente, il protestantesimo abolendo il sacramento dell’ordine e il celibato non ha più distinto il ceto dei «chierici», dei frati, dei monaci, dal resto dei cristiani. In questo c’è una novità forte, una frattura nettissima con il mondo cattolico. Tuttavia sia il mondo protestante sia quello cattolico hanno un fondamento agostiniano. Lutero era un frate agostiniano (e non, come si scrive erroneamente nei manuali, un monaco). Come lui anche Calvino era intriso di agostinianesimo, e in misura minore lo era pure Zwingli; e lo erano alcune sette protestanti. Tutto questo per dire – come ci ha spiegato molto bene Michel Foucault nella sua quadrilogia sulla Storia della sessualità – che la condanna dei peccati di concupiscenza e del piacere è stato un aspetto importante di tutta tradizione cristiana. Perché il corpo è considerato il tempio dell’anima. Perché il messaggio cristiano ha ereditato la condanna giudaica di tutta la sessualità al di fuori del matrimonio. Inoltre il cristianesimo è stato erede delle scuole neoplatoniche e stoiche e nei secoli ha accentuato la stigmatizzazione del desiderio e della passione erotica come qualcosa di deviante nello sforzo per il «contenimento di sé». A questo si aggiunge, il nodo del clero: perché se da un lato il laico deve arginare la concupiscenza attraverso il matrimonio, attraverso il debito coniugale come l’unica «via di fuga» da un desiderio incontrollabile e anarchico entrato nella Storia attraverso il peccato originale di Adamo e Eva; dall’altro vi è la «costruzione» del ceto clericale, la sua distinzione dai laici che ha messo molti secoli ad affermarsi, ma che dopo l’anno Mille ha implicato una battaglia fondamentale per separare il corpo clericale dal corpo laico e secolare anche per questioni di potere. Tale battaglia, in un primo tempo, è stata condotta soprattutto dal movimento cluniacense, intento a spazzare via il concubinato ecclesiastico e soprattutto a perseguire i cosiddetti «peccati contro natura». In questo senso nella tradizione cristiana non c’è nessuna distinzione tra cattolicesimo e protestantesimo, che hanno stigmatizzato entrambi tutto ciò che non è riconducibile alla sfera riproduttiva, in base ad alcuni passi del Pentateuco e alle lettere di san Paolo. Tale tradizione ha condannato l’uso del “vaso indebito” e di tutto ciò che nella sessualità non è finalizzato alla riproduzione: la masturbazione, la zoofilia, la sodomia tra maschio e femmina, e soprattutto i rapporti omoerotici senza distinzione di età. Certo, il rifiuto della sessualità detta “contro natura” ha una storia risalente, che inizia persino prima del cristianesimo. Ma il cristianesimo ha accentuato una tendenza del mondo tardo-antico che avrebbe portato alla cancellazione di una sessualità più fluida, almeno per l’élite, o per dirla con Paul Veyne, alla “bisessualità di stupro” fondata sul patriarcato che a lungo, ad Atene come a Roma, aveva favorito il maschio adulto attivo nei confronti dei minori e delle donne. Così già nella legislazione tardo-imperiale cristiana si cominciò a colpire non soltanto l’adulterio e la prostituzione ma anche quel rapporto “contaminante” che è il rapporto maschio-maschio, non risparmiando il clero. Dunque, c’è una lunga storia di stigmatizzazioni dei peccati della carne, anche se a fino all’età moderna la lussuria non è stata considerata il primo dei sette vizi capitali (era la superbia). Lo si capisce guardando all’Inferno dantesco (siamo nel settimo centenario della morte di Dante). Ma il nodo del libro che ho pubblicato con Francesco Benigno non è la ricognizione del rapporto tra cristianesimo e sessualità, e neppure il presunto impoverimento educativo della Chiesa. Quella che abbiamo tracciato è la storia di una divaricazione crescente tra la sensibilità dell’opinione pubblica e quella del clero cattolico nei confronti dell’abuso sessuale dei minori, che non è stato al centro delle normative canoniche neppure prima del Settecento, quando la Chiesa aveva gli strumenti per colpire i crimini del clero in quanto tali (con i tribunali diocesani e con quelli dell’Inquisizione). Dopo l’Ottocento la Chiesa romana ha continuato a trattare tali abusi nell’ambito dei peccati più gravi, ma senza rinunciare a procedure segrete di emendazione e, in anni recenti, senza riconoscere che, dopo la Shoah, e specialmente dopo gli anni ottanta del Novecento, la società occidentale è diventata assai sensibile quando di tratta di bersagli innocenti. Per questo alcuni commentatori e le stesse associazioni delle vittime di abusi del clero hanno parlato polemicamente di un “olocausto bianco”.