Perché rileggere Gesualdo Bufalino

Articolo di Filippo Scimé

Il caso nato con Diceria dell’untore segnò l’ingresso nell’ambiente letterario nostrano di un professore liceale in pensione che, sfuggito alla tentazione e al desiderio di immaginarsi autore postumo, decise, dopo un’estenuante lotta, di scardinare le serrature dei suoi cassetti. Le opere a lungo conservate rassomigliavano a crisalidi che, dopo un lungo stato metamorfico, erano riuscite a divenir farfalle. Questo tourbillon tra prosa e poesia, tra il mondo e un “io” sommesso, ci ha consegnato nuove opere che, reinterpretando la struttura tradizionale del romanzo, erano le primizie sconosciute di un giardino per tanti anni coperto da una coltre fitta e densa. Fu così che il professor Bufalino, che aveva letto più libri che vissuto giorni, dominò la scena letteraria per tutti gli anni ottanta e novanta.

L’avvicinamento progressivo alla pubblicazione ha evidenziato un coacervo di scelte narrative che abbracciano svariati campi: dalla traduzione di autori francesi, tra i quali ricordiamo Baudelaire, La Fayette, Toulet e Giradoux (I Fiori del male, L’amor geloso, Controrime, Susanna e il Pacifico), brandita orgogliosamente come ultima arma a difesa della propria intimità, alla riproposizione di un pantheon mnemonico delle proprie radici, che scandagli i ricordi dei primi passi sulle antiche basole paesane (Museo d’ombre); dall’afflato poetico che rivive nel suo brillante testamento (L’amaro miele), alla favolistica riproposizione di un diario-racconto (Argo il Cieco). A questo macrocosmo letterario si aggiungeranno le riflessioni sulla vita, sulla contemporaneità, confluite in un’unica silloge (Cere Perse); il brillante progetto di una Commedia storico-mitica in cui maschere storiche diventano eroi di racconti (L’uomo invaso e altre invenzioni); poi un florilegio di aforismi che ha la ciclicità dei mesi e l’eternità di cui sono privi gli anni (Il Malpensante. Lunario dell’anno che fu) ed infine una lodevole riproposizione della struttura a cornice mescolata al divertissement letterario di ottocentesca memoria (Le Menzogne della notte).

L’inizio degli anni Novanta segna l’ingresso in una fase in cui l’esplorazione del mondo e delle cose sembra gradualmente affievolirsi, come se il troppo clamore, scaturito dai suoi pensieri, abbia risvegliato una congenita attrazione per il silenzio, un letargo che consenta di allentare il rapporto con il lettore. L’unica eccezione sarà rappresentata dalla personale volontà di diffondere le proprie opere a un gruppo di pochi amici, un nido protetto che gli consentirà di scavalcare l’eterno confronto con il lettore. In questo modo nascono Calende Greche e il Guerrin Meschino, lavori caratterizzati da edizioni sibi et paucis che rifuggono da un’iniziale pubblicazione per poi approdare, con buona pace dell’editore e dell’autore, al pubblico. La periegesi letteraria si concluderà con Tommaso e il fotografo cieco, nel quale la menzione di un incidente stradale annuncerà il suono di una triste profezia.

Ma la lettura di Bufalino può davvero risultare un esperimento interessante? Può anche darsi e ciò potrebbe verificarsi a patto che il lettore si presti ad ammirare una sperimentazione linguistica che raduna un’affascinante miscela di musica e di cinema, un continuo lavorio la cui fermentazione produce un balsamo delicato, anelando a un profumo che annienti l’afrore della contemporaneità, o per meglio usare le parole di Bufalino, l’ossificazione del mondo ossia la banalità che ci imbriglia nel balenio di giorni troppo simili a sé stessi.

Non si disperda pertanto un patrimonio così prezioso di prosa aulica, di una voce dalla cadenza sicula che al petulante microfono di Piero Chiambretti, come unico rimedio ai malanni sociali, scandiva il refrain “libri, libri libri!” e investiva di dignità regale i maestri elementari. E allora sarebbe più semplice imbattersi nella selva oscura dei libri per uscirne, indenni, con uno suo (artisticamente pregevoli sono le nuove edizioni Bompiani), brandendolo come il rimedio per placare la curiosità e per scoprire, al di là di qualsiasi panegirico, un grimaldello contro il silenzio, un apriti-sesamo verso un modo di concepire la letteratura alta, lo specchio riflesso di un indecifrabile io che oscilla tra essere e non essere. Mi congedo lasciando in calce una poesia tratta dall’unica raccolta poetica scritta da Bufalino: l’Amaro Miele. L’accostamento di due antitesi prefigura già un sottile gusto per le partiture scandite dell’ossimoro: segno della contraddittorietà della vita.

Un segno con l’unghia
Di questa terra di uve soavi,
cuore, ti scorderai,
dell’erba che tremava al soffio della luna,
delle corse, dei baci, dei mandolini.
Sulla tua soglia , ora che il tempo s’inferocisce,
non son rimaste che rondini uccise,
e cenere di passi, cenere di parole.
Richiudi, o cuore, il libro del tuo giorno:
accanto a un viso fa’ un segno con l’unghia.

da La Festa breve in L’Amaro Miele, Einaudi, 1996

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