Piero Chiara: il viaggio nello stesso treno, ma in un’altra carrozza

Articolo di Filippo Scimé

Poco importa se il nome di Piero Chiara sia stato imprigionato dalle maglie dell’oblio; dipanati infatti quegli invisibili segmenti ferrosi del tempo, la memoria umana può recuperare, senza grandi sforzi, uno degli affabulatori più divertenti del secolo che ci siamo lasciati alle spalle.

Chiara esordisce tardivamente nel panorama letterario all’età di cinquant’anni quando, grazie all’insistenza dell’amico Vittorio Sereni, mise nero su bianco fatti e personaggi ormai affievoliti dal passato, i quali, eclissatisi, tornavano a fare capolino ogni qualvolta un uditorio rimaneva sedotto dalle sue parole, strategicamente disvelate come i grappoli di un acino succulento. Così, tra una preghiera e una rassicurazione che quei racconti avrebbero avuto successo, prese forma, nell’anno di grazia 1962, Il piatto piange, disincantata elegia di una Luino durante il ventennio fascista. Proprio da quelle pagine cominciò un percorso narrativo curioso, per il quale all’oratore brillante si sostituì lo scrittore attento e meticoloso, divenuto prima un autore di poesie, sottili come cirri di nuvole, e, in un secondo momento, un brillante romanziere, capace di cospargere di una miriade di racconti sul sentiero della vita, un cammino che, tra alti e bassi, ci distoglie dal torpore e nel quale l’autore “racconta” a perdifiato e si racconta mescolando ricordi, verità, odori, tramonti e viaggi che furono o che non furono mai.

Già, viaggi. La vita dello scrittore lombardo era destinata a cambiare quando chiese e ottenne un visto per la Bolivia; mi son sempre chiesto che cosa sarebbe successo, se fosse giunto in Sud America, e soprattutto se quella meta tanto lontana, quanto assurda, non fosse una deliberata scelta di andare a verificare chissà quale bizzarra storia aveva sentito all’amato caffè Clerici. Ma l’entrata in guerra dell’Italia gli risparmiò un viaggio così lontano, decuplicandone, contrariamente a quanto si possa pensare, altri più assurdi o più tragici come la fuga in Svizzera a causa del mandato di cattura emesso dal tribunale speciale fascista. Viaggi sempre alla ricerca di avventure costantemente braccate e forse vissute per essere scritte un giorno, con la presunzione di vedere ancora germogliare un ricordo laddove nemmeno un barbaglio di luce si rifrange nella cenere dell’oblio.

Indubbiamente uno dei talenti di Chiara è stato il suo essere spaventosamente attuale, come se quei personaggi di lago o di confine fossero un nostro parente, il conterraneo che aveva lasciato il paese per fare fortuna, o l’integerrima donna di carità che faceva le opere pie per la salvezza della propria carne. Molti critici ignorando quasi che la vita è fatta di istinti e di passioni, ne hanno parlato, e ne parlano tuttora, come di un narratore erotico, i cui racconti spesso indugiano nella trasgressione fatale di seduttori impenitenti o di donne lascive. In realtà Chiara non indugia su certi particolari, semplicemente non se ne discosta e non vuole farlo perché il recupero prezioso dei frammenti della vita non trascura nulla: tutto viene ripescato e le fantasie più torbide sono mitigate dal setaccio della penna, dall’inchiostro che scorre fugace e inghiotte voracemente ogni cosa.

La definizione di interprete autorevole invece calza a pennello per via di una produzione letteraria strutturata, anche in questo caso, secondo dinamiche che hanno seguito più il cuore, che la sua intenzione di definirsi tale. Ho utilizzato il termine opere, perché sarebbe un errore fissarsi esclusivamente sulla cristallizzazione della prosa come chiave di volta per comprendere il narratore; è la poesia, inizialmente, che interpreta sentimenti affini ai movimenti poetici sorti durante il secondo conflitto bellico, a intraprendere sentieri ben lontani dalla spigliatezza della prosa: essa si fa specchio nitido sul quale si riflette quell’atteggiamento intimo, improntato a una primigenia pudicizia, inconsapevolezza delle cose del mondo, come se imprimesse nei suoi versi solo lo stridente calembour della vita che gli appare tuttavia offuscata come negli occhi di un implume. La silloge Incantavi e altre poesie raccoglie un microcosmo sconosciuto ai lettori ed è proprio il riconoscimento del linguaggio poetico ad accompagnare e poi traguardare quegli anni fino alla scommessa, vinta per nostra fortuna, del 1962, un’incantevole palingenesi. I nuovi incanti del narrare perseguono fini decisamente diversi: la maturazione dell’uomo si congiunge a quella dello scrittore, che guarda ormai alla poesia con il rimpianto di un’ingenuità perduta e forse mai più ritrovata. La prosa di Chiara è una confessione ininterrotta del proprio io: essa ci appare lineare e priva di orpelli per una precisa volontà di descrivere la nitidezza del vero, di recuperare il perduto, dandogli nuovamente dignità di memoria, di traducibilità nell’atto concreto. Proprio la memoria, intesa come evocazione dei ricordi, non ha il compito di sciogliere la pesantezza del passato né di imbalsamarlo, ma di ricavare una lezione che vuole impreziosire il nostro multiforme bagaglio di esperienza (lo stesso che ognuno di noi porta invisibilmente sulle spalle), oppure, più semplicemente, uno svago, la piega di un sorriso (anche amaro), il suono di una voce perduta o una diceria per ingannare lo scorrere del tempo. Per cui, raschiando il barile dell’accaduto, tutto ha importanza, persino le increspature delle onde del lago che riflettono chissà quale lontana voce, un amore trepidante in attesa di là dal confine, o l’attimo in cui si parte per lasciarsi tutto alle spalle. Chiara, infatti, a proposito di viaggi, non lascia nulla per strada e indugia, a volte, nella descrizione dei paesaggi del suo itinerario mentale (l’onnisciente lago), incedendo in qualche vezzo poetico e, recuperati i sortilegi della parola, si lascia guidare dai ricordi.

Si avverte, altresì, la delicatezza della descrizione dei contorni e delle sfumature che, improvvisamente, rinverdiscono, quando ad esempio ricordano una via o un palazzo che non esistono più. Lo scrittore ne ricopia con gli occhi chiusi il sottile disegno per non disperdere l’attimo, tratteggiando le cimase o i veroni della vecchia Luino o di chissà quale città il nostro scrittore abbia veduto. Il racconto è quindi il filtro, per certi versi spietato, che consente il recupero del vissuto sottraendo dall’oblio il cantuccio più nascosto. È come se la memoria diventasse macchia per esaltare i chiaroscuri della vita. “Sotto la sua mano” è avvenuto pertanto un continuo travaso, una depurazione dell’acqua lacustre in acqua potabile, e il lettore, dissetandosi, ha accompagnato fedelmente la solitudine del suo narratore (l’io sospeso tra la vita e il sogno della vita, come il ragno al filo della sua tela). Ma volendomi ricollegare infine al titolo con il quale ho esordito mi ha sempre colpito la nettezza e l’umiltà con le quali Piero Chiara si è sempre visto, prefigurandosi uno scrittore lontano da qualsiasi formazione culturale o canone, così mentre gli altri cercavano di capire i grandi mali del tempo e ne elencavano i rimedi, lui viaggiava in un’altra carrozza del medesimo treno e si limitava, da buon intenditore di pittura, a dipingere lasciando delle macchie di colore alle quali i lettori di ieri e di oggi non possono che affidarsi per esaltarne i contrasti e rimanere, come nel suo racconto “Giuditta, ti sento”, voltati controvento al muricciolo del porto per indovinare chissà quale odore la speranza ci faccia percepire ancora il racconto della sua vita.

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