L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
È questo il primo dei centotrentanove articoli della Costituzione Italiana voluta dai cinquecentocinquantasei padri costituenti riuniti nell’Assemblea Costituente, firmata dal capo provvisorio dello stato Enrico Di Nicola il 27 dicembre del 1947 ed entrata in vigore l’1 gennaio del 1948. Il processo di un’Italia in chiave repubblicana ebbe il suo culmine il 2 giugno 1946 quando si svolse il referendum sulla forma costituzionale dello stato che mise fine alla monarchia costituzionale.
Il lavoro pertanto come valore irrinunciabile e imprescindibile finalizzato alla realizzazione di una società sana i cui individui possano acquisire indipendenza economica, dignità, possibilità di progettare il proprio futuro e di costituire una pensione per la vecchiaia.
Fatta questa premessa penso faccia bene parlare di un elemento che si chiama tasso di disoccupazione ovvero il rapporto percentuale tra la popolazione di più di 15 anni che è alla ricerca di un lavoro e la forza lavoro totale, misurata sommando gli occupati e i disoccupati. Con la parola disoccupati si intende coloro che hanno un’età compresa tra i 15 e i 64 anni e sono alla ricerca di un lavoro nelle quattro settimane che precedono quella di riferimento e sarebbero disponibili a lavorare entro le due successive. Non si includono quindi gli inattivi, ovvero chi non è in cerca di occupazione.
Il 28 novembre 2014 il quotidiano online La Repubblica titola: Tasso di disoccupazione al nuovo record del 13,2%, tra i giovani al 43,3% e a seguire questo cappello: È il maggior balzo dell’Eurozona. Occupati in calo di 55mila unità tra settembre e ottobre, mentre sono stabili su anno e in crescita nel complesso del trimestre. Due giorni dopo, il 30 novembre 2014 invece nel quotidiano online La Stampa è apparso un articolo a firma di Luca Ricolfi con questo titolo: Disoccupazione mai stata così alta nella storia d’Italia e a seguire questo cappello: La serie storica dell’Istat si ferma al 1977, ma guardando i dati del collocamento e i vecchi censimenti si scopre che nella crisi del 1929 e del 1861 il tasso era inferiore.
E oggi come vanno le cose sul fronte occupazionale in Italia? La domanda è d’obbligo e la risposta direi scontata in senso negativo, considerato il lungo periodo di difficoltà derivante dalla pandemia e dalla guerra Russia Ucraina e i relativi problemi di aumento dell’inflazione. L’Istituto Nazionale di Statistica ci dice che a settembre 2022 il tasso di disoccupazione è al 7,2% mentre quella giovanile si attesta al 23,7%. Non sono i dati record in negativo del 2014, ma restano cifre pesanti e significative.
Sorge spontanea ancora una domanda: ma come si forma e come si favorisce il lavoro? Va detto nell’immediato che i posti di lavoro non si possono formare dal nulla per decreto legislativo, al massimo i governi possono favorire la creazione di posti di lavoro investendo nelle infrastrutture e attraverso incentivi dedicati alle aziende e agli imprenditori, che hanno l’obiettivo di abbassare il costo del lavoro che in Italia è molto alto. Le banche centrali possono favorire gli investimenti e quindi l’occupazione attraverso l’abbassamento dei tassi di interesse che influiscono direttamente sul costo del denaro.
L’elemento preponderante nella generazione dei posti lavoro è il mercato regolato dalle leggi di domanda e offerta dei prodotti ed è lì che bisogna intervenire a livello governativo favorendo gli scambi commerciali, favorendo la formazione di manodopera specializzata, potenziando le università che formano i futuri sviluppatori, incentivando la produzione e la commercializzazione dei beni. Sto parlando di governi e di nazioni non dimenticando che il mercato è sempre più globalizzato e interdipendente, che le politiche protezionistiche oggi non pagano soprattutto se si svilisce la qualità e la specializzazione.
Laddove non si riesce a intervenire per favorire la diffusione del lavoro intervengono le politiche sociali che vengono messe in pratica per contrastare la povertà, ma anche le organizzazioni malavitose che storicamente trovano facile manovalanza criminale laddove esiste il disagio economico e una bassa scolarizzazione. In quest’ottica qualche anno fa è stato creato il reddito di cittadinanza (RdC), evoluzione del reddito d’inclusione (R.E.I.), oggi oggetto di discussione politica in quanto è risaputo che il nuovo governo, a guida Giorgia Meloni, ha deciso di stravolgerlo facendo temere i fruitori che sarà cassato.
Ritengo che sia giusto migliorare un provvedimento che di fatto ha aiutato milioni di persone in difficoltà economica, andando a colpire chi rifiuta un’opportunità di lavoro o chi non ne ha realmente diritto. Ma la domanda è? Chi può garantire la creazione di nuovi posti di lavoro? Come visto prima non è un esercizio facile. Gli investimenti vanno fatti in maniera oculata evitando un ulteriore eccessiva e inutile antropomorfizzazione del territorio, piuttosto puntando al risanamento; vanno aiutati quegli imprenditori che investono abbassando il costo del denaro e il costo del lavoro; è necessario favorire l’interscambio commerciale con il resto del mondo prendendo il meglio dalla globalizzazione ed evitando di cadere nell’errore del protezionismo. Il tutto per garantire condizioni di lavoro secondo le leggi attuali e stipendi adeguati, favorendo la specializzazione e la formazione professionale ricordando che il più importante patrimonio di un’azienda sono le persone che vi lavorano.