Dario Bertini è uno dei pochi poeti veri nel panorama attuale fatto di egocentrici pizzicagnoli alla cantonata. Che gli piacesse la birra scura, ovvero imperscrutabile, lo sapevamo da tempo, almeno da quattro edizioni dell’omonima raccolta. E che facesse le prove generali per nuotarci dentro, potevamo intuirlo, perché quando sei immerso nel tuo mondo letterario non è tanto per dire, ci sei davvero dentro fino al collo, anzi, con tutta la testa. Perché noaltri non respiriamo col naso e la bocca. Dell’aria, non ce ne facciamo quasi nulla. Il poeta è vivo solo quando nuota nella sua birra, nel suo assenzio, nel suo vino, quei dolci nettari di cui i grandi del mondo vero si nutrivano per dare alla carta la propria testimonianza. Sempre onesta e sempre coraggiosa. Mai corretta, mai accomodante. Come la verità. Il poeta canta la verità, la sua verità. Chi la ama, la ama. Chi non la ama, non la ama, e non rompa i coglioni perché non stiamo qui per fare i ruffiani. Stiamo qui per “cantare l’infinita bellezza del mondo, ma anche la desolante nullità dell’uomo…” (Questa era un’autocitazione).
Bertini si dimentica di Bertini quando scrive e quando legge poesie. Ciò che importa è il colore, non il rumore. L’assurdo, non il presunto. E se un il blues dal vivo lo accompagna, lui ci dà dentro per tutta la notte, come i maestri del Village, come il mio amico Eric Smith, in Georgia, che quando leggeva le sue poesie abbassava a poco a poco il tono e chi lo ascoltava allungava il collo sempre più assorto. “Call them mercy dancers, those moments of hesitation…”
Ora vi racconto un aneddoto. L’altro giorno davanti a un centro commerciale di Epagny, qui vicino, mia figlia si è incollata al finestrino perché ha visto un enorme elefante rosa, una specie di statua pubblicitaria messa lì per attirare i clienti di qualche negozio. Per lei, che ha quattro anni, quello era solo un enorme elefante rosa. Il suo stupore era puro, intimo, era il vero. Io ho fatto il giro della rotatoria e sono tornato indietro per andare a vederlo da vicino, e mentre eravamo lì a girargli intorno, mi sono venuti in mente gli elefanti rosa di una poesia di Bertini, seduti a prendere il tè sotto l’ombrellone. Che cosa ha fatto quel matto di un contrabbandiere, mi sono detto, è riuscito a entrare nella vita di chi legge. E non è questo lo scopo di chi prende la penna in mano? La risposta cercatela “negli occhi che brillano come bicchieri rotti”.
Anche nelle altre poesie non si scherza. L’amore per i grandi americani, per Irving Stettner, per esempio, si sente in ogni pagina. La critica pungente, il coraggio dell’inatteso, il verso libero e liberato dai costrutti delle accademie acchiappa-follower a cui accorrono tutti coloro che in fondo sanno di non essere nulla e vorrebbero diventare qualcosa. Se sei poeta e hai raggiunto la consapevolezza di esserlo, prendi la penna, prendi la birra, un sigaro, ti abbassi un po’ la visiera della coppola, e scrivi.
C’erano temerari d’altri tempi che avrebbero accettato di sedersi al nostro tavolino, caro Dario. Che ne dici di Verlaine, eccolo lì, sono le sette ed è già brillo. Offriamogli un altro pastis e facciamoci raccontare come è possibile tirare per tre pagine l’elogio di un culo latteo o delle cosce di una monaca. Oppure andiamo a Napoli, a trovare il principe de Curtis, che di poesia se ne intendeva. Lui lo sapeva, “Ognuno ‘e nuie nasce cu nu destino…”
Perché la poesia alla fine è questo, un destino, “un percorso”, come l’ha definita il Gabbiere Gavioli, clandestino che porta pochi libri nella sacca, ma libri che possono salvarti in una notte di disperazione e di solitudine. Eccola qua, la solitudine. Ogni volta che si parla di poesia si finisce sempre col parlare di lei.
La poesia di Dario Bertini, però, non è solo solitudine. È anche un sorriso davanti a un bambino coi pantalocini corti che sta per pisciare dappertutto. La bellezza di “sentirti parte di una stella mentre la tua casa va a fuoco”.
(Foto di Elettra Altieri)