Adriano Pintaldi sceglie un registro insolito per raccontare il cinema di Avati, parte dal cibo e narra il legame che esiste da sempre tra il regista e la sua terra, le tradizioni contadine, le grandi tavolate campestri, le tagliatelle della madre e le sequenze dei suoi film ambientate a tavola. Vediamo pranzi di nozze, feste di laurea, piatti tipici della cucina emiliana, il menu di venti portate di Ragazzi e ragazze (recitato dal parroco) per il pranzo di fidanzamento, la tradizione culinaria emiliana esce fuori alla grande, grazie anche alle testimonianze dei suoi attori. Partecipano alla raccolta di aneddoti molti membri della factory avatiana: Gianni Cavina, Alessandro Haber, Carlo Delle Piane, Diego Abatantuono, Christian De Sica, Antonio Albanese, Katia Ricciarelli, Sandra Milo, Francesca Neri, Vanessa Incontrada, Silvio Orlando, Neri Marcorè, Lino Capolicchio e Giancarlo Giannini. Il documentario parte con Avati che si ricorda a tavola in una trattoria romana, una panoramica che ha usato in film successivi, un momento bello della vita da inserire nella finzione cinematografica. Avati dice che il suo rapporto con la cucina gli porta alla memoria la giovinezza, persino l’infanzia, quando in casa si faceva lo zucchero bruciato, una sorta di croccante artigianale. Per il regista la donna è il simbolo della cucina, lo dice con il massimo rispetto, ma per lui la tradizione emiliana è rappresentata dalla madre ai fornelli che prepara un piatto di tagliatelle per l’ospite di turno. La pasta fatta in casa veniva offerta a chi era di passaggio nella grande casa di campagna, come oggi si potrebbe servire un caffè. Ci sono i gusti che non si ritrovano, perché legati a un periodo della nostra vita, che si alternano a spezzoni di vecchi film che mostrano tavole imbandite. La casa dalle finestre che ridono lascia il posto al Signor diavolo, per passare a La cena per farli conoscere. Gianni Cavina racconta il suo rapporto intimo con Avati, il fatto che il regista si accorgesse quando lui recitava, lo conosceva così bene che lo voleva al naturale. Maurizio Costanzo cita le sceneggiature scritte insieme ad Avati, quelle del primo periodo, da Bordella a Tutti defunti tranne i morti, fino a Le strelle nel fosso e La casa dalle finestre che ridono, tutti lavori intrisi di cultura contadina, sospesi tra verità e superstizione. Tutto questo materiale viene esaltato nel Magnificat, dove il sacro va a braccetto con la superstizione e si confonde in esso. “Mia madre baciava tutti i santi e accendeva le luci tre volte”, ricorda Avati, che ha sempre avuto un rapporto stretto con le leggende e con il fantastico, mentre rammenta una madre molto religiosa che non poteva fare a meno di seguire le sue superstizioni. Il cinema che Avati scrive è intriso di queste paure primordiali, del timore di tutto quello che ci circonda. Avati ricorda i pranzi della sua giovinezza, quando alla domenica non poteva mancare il pollo arrosto con patate, su una tavola imbandita a festa. Pintaldi intervista De Sica e Zingaretti, mostra immagini de Gli amici del Bar Margherita, introduce Lucio Dalla e un’amicizia che risale ai tempi dei suonatori di clarinetto. Antonio Avati racconta il vino emiliano, Sangiovese e Lambrusco, pure il meno noto Albana, quindi si lascia andare ai profumi dei prodotti della gastronomia come il prosciutto di Parma, il culatello, l’aceto balsamico, il parmigiano, tutte cose che rendono la vita migliore, piacevole, degna d’essere vissuta.
“Era un’Italia profumata e odorosa, quando non esisteva lo sciampo e ci si lavava i capelli con l’uovo in testa”, ricorda il regista. E come dimenticare il ragù, non solo emiliano pure toscano, che bolliva per ore, per giornate intere, nella casa della madre. Pintaldi ci dona l’incipit di Regalo di Natale con il grande Carlo Delle Piane che mangia patate bollite e osserva una signora con la quale attacca discorso, dopo un complice scambio di sguardi. Vediamo Katia Ricciarelli che racconta le sue tagliatelle, scorrono immagini de La rivincita di Natale, Il cuore altrove, passano sullo schermo Sandra Milo, Neri Marcorè (che imita benissimo Pupi) e Nino D’Angelo (che Avati ha portato nel cinema d’autore). Ezio Greggio ricorda che con Avati ha interpretato l’unico ruolo drammatico della sua carriera (Il papà di Giovanna), una parte interessante, che solo un regista di grande umanità poteva inventare. Ugo Tognazzi, che con il cibo aveva un rapporto importante, cambia la vita di Avati, leggendo il copione de La mazurka della santa e del fico fiorone e presentandosi come protagonista ideale del film. Prima di quella storia Avati aveva girato solo insuccessi, come Thomas e Balsamus, e non era certo un autore importante. “Non è facile convincere gli attori a mangiare mentre recitano, ma io cerco di farlo, perché con il cibo non posano, sono naturali; gli attori sono veri quando si distraggono e fanno cose vere”, dice Avati. Ricorda una zuppa d’amore afrodisiaca tra Francesca Marciano e Lino Capolicchio nel suo capolavoro horror, La casa dalle finestre che ridono. Il documentario ci mostra Abatantuono e Di Luigi (attori trasformati dal regista) con alcuni frammenti del Bar Margherita, quindi Haber dichiara di essere legato a Pupi da grande amicizia, dice che il regista emiliano ha cambiato i parametri di molti attori. “Il regista che sussurrava agli attori”, lo definisce in modo originale. Renato Pozzetto è uno degli attori che Avati ha modificato in un ruolo importante, da protagonista, in Lei mi parla ancora (doveva essere Dorelli, poi la scelta è caduta su Pozzetto), un film che racconta anche la vita del regista, non solo quella del padre di Sgarbi. “Un lavoro che volevo abbandonare, non finirlo, sono stati mia figlia e mio fratello a convincermi ad andare avanti”, dice Avati. E hanno fatto bene, visto il risultato, aggiungiamo noi. Chiara Caselli si rammarica di aver incontrato tardi un regista come Avati, anche se non è mai troppo tardi. Nicola Nocella (Il figlio più piccolo), una sua scoperta, dice: “Lavorare con Pupi è come andare in vacanza”. Il documentario, presentato al Roma Film Festival 2021, non può che finire con una nota sul cibo. “Il pranzo della festa nella cultura contadina era un’occasione per poter mangiare e bere tanto e bene. Questa era l’usanza”, conclude Avati. Tutto vero, era l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, pure quella dei Settanta, fino a un certo punto, poi le cose sono cambiate troppo e anche noi abbiamo iniziato a non capire.