Non solo a Venezia, ma ovunque per secoli la tortura è stata concepita come funzionale al concetto stesso di giustizia. Solo l’Illuminismo e la rivoluzione francese porteranno a una sua progressiva messa al bando.
I “tratti di corda” e la “camera del tormento”
Se l’elenco dei metodi di tortura per estorcere confessioni è piuttosto lungo e variegato, pare che quello più diffuso in occidente consistesse nei cosiddetti “tratti di corda”, detti anche “scassi di corda” e Venezia non faceva eccezione. Tuttavia ci si arrivava per gradi, un supplizio per nulla scontato, con regole ben precise e le sue brave esenzioni.
Il famigerato supplizio era praticato nella cosiddetta “camera del tormento”, posta in Palazzo Ducale fino alla fine del ‘500 e trasferita poi alle Prigioni Nuove, insieme alla stanza della magistratura de’ I Signori di Notte. Quella vecchia rimase di uso esclusivo del Consiglio dei X e degli Inquisitori di Stato, altre magistrature del complesso organigramma della Serenissima.
Il crudele trattamento, applicato per gradi, si prefiggeva di aprire anche le bocche meglio cucite, fungendo da pressione psicologica prima ancora che al malcapitato fosse applicata la tortura stessa. Nel caso le urla e i lamenti del disgraziato svolgevano pure la non secondaria funzione di terrorizzare altri disgraziati in attesa di interrogatorio, creando un clima di tensione e paura e inducendoli così a confessare le proprie colpe senza troppe storie. In pratica si catturavano più piccioni con la stessa fava.
Destinatari della tortura
Non si torturava a casaccio, ma solo gli imputati fortemente sospettati e i testimoni ritenuti poco credibili o reticenti il cui silenzio costituiva un ostacolo alla conoscenza della verità.
I giudici dovevano innanzi tutto valutare se le argomentazioni prodotte dai soggetti fossero idonee a scagionarli e nel caso soprassedere. Niente tortura anche quando la colpevolezza fosse provata “per testimonij, per inditij indubitati, o pur confesso”.
Si passava all’atto estremo quando gli elementi di colpevolezza formavano gravi indizi, ma non ancora prove certe e quindi fosse necessaria la confessione; oppure se l’imputato si rifiutava di denunciare i complici. In ogni caso la tortura non pregiudicava il riconoscimento dell’innocenza di fronte a elementi a discarico. L’inquisito era altresì prosciolto con formula dubitativa se resisteva ai tormenti senza che nuove imputazioni fossero emerse a suo danno.
In genere dovevano sussistere contestualmente tre imprescindibili presupposti per ricorrere alla tortura: l’imputato doveva apparire come responsabile del delitto, gli indizi contro di lui dovevano essere gravi, il reato doveva contemplare pene peggiori della tortura. Vietato il tormento se la pena prevista era d’ordine pecuniario. Il giudice che avesse torturato ingiustamente un innocente rischiava di vedersela con il patibolo.
Esentati i ragazzi sotto i quattordici anni, le donne incinte, le puerpere per quaranta giorni dopo il parto, gli ultra sessantenni, dottori, avvocati, religiosi, alti dignitari e cavalieri. Nessuno poteva essere torturato nei giorni dedicati al culto e mai prima che fossero trascorse dieci ore dal suo ultimo pasto.
Tempi di applicazione della tortura
I gradi di applicazione dei “tratti di corda” prevedevano forme di pressione crescenti per intensità, in modo da evitare inutili sofferenze. Si partiva dalla semplice minaccia, accompagnando l’accusato nella camera del tormento e mostrandogli l’armamentario pronto all’uso. Questo consisteva nel legare i polsi del reo dietro la schiena e pi a una corda per poi issarlo per mezzo di una carrucola. Il peso del corpo veniva così a gravare tutto sulle giunture delle spalle con danni spesso irreversibili.
Pare non fosse in uso, come da altre parti, legare pesi ai piedi del malcapitato per aumentare l’efficacia del trattamento. Anche l’Inquisizione utilizzava la tortura della corda poiché la Chiesa voleva evitare spargimento di sangue, ma senza aggravi di pesi, limitandosi alla sola sospensione.
A ogni modo le conseguenze comportavano spesso la storpiatura a vita e non era raro il caso che bastasse la sola vista dell’apparato per indurre imputati e testimoni a mutare rotta, perché le tremende conseguenze del supplizio erano ben note.
Lo stesso termine “tortura” deriva appunto dalla pratica di torsione delle braccia quale mezzo coercitivo per estorcere una confessione.
I passi successivi
Se il soggetto non cantava con le buone, dopo avergli ripetuto le domande, veniva denudato, polsi legati dietro la schiena e poi alla corda pendente dal soffitto, ma senza issarlo. Il terzo passo consisteva nella sospensione del corpo per non oltre un’ora. Infine si passava alla “cavalletta” e poi allo “squasso”, ma per non più di tre volte nello stesso giorno. La prima consisteva nel sollevare il corpo ad altezza d’uomo e lasciarlo piombare a terra; l’altra e più tremenda fase si eseguiva arrestando la caduta a un paio di braccia dal pavimento. Il tutto poteva ripetersi per un massimo di tre giorni distinti, i cosiddetti “collegi di corda”.
Era altresì obbligatorio consultare prima un medico per accertare l’idoneità fisica dei destinati al crudele trattamento. Questo doveva avvenire in presenza di due chirurghi pronti a verificare il corretto allacciamento degli arti alla corda, curare gli inevitabili traumi che ne sarebbero derivati e dare un parere sul proseguimento. Obbligatoria la presenza dei magistrati, sei nel caso dei Signori di Notte, che si davano il cambio con estrazione a sorte. Assolutamente non ammessi gli avvocati.
La confessione
Tra una fase e l’altra era d’obbligo sollecitare il soggetto alla confessione e riproporgli le domande. Si verbalizzava tutto, parola per parola, perfino le urla, le imprecazioni, come sopportava la tortura, se era svenuto o meno, se chiedeva di farla finita e se era pronto a vuotare il sacco. Tuttavia lo si slegava solo al termine della confessione per poi rimandarlo ai “cameroti”, come erano chiamate le celle a Venezia.
La confessione resa sotto tortura, detta “in tormentis”, doveva essere confermata il giorno dopo, quando il poveraccio veniva ricondotto davanti ai giudici che gli leggevano il verbale prima della ratifica.
Un metodo riconosciuto come imperfetto
I giudici ricorrevano ai “tratti di corda” come extrema ratio, consapevoli dei limiti di questo mezzo istruttorio considerato imperfetto e nonostante qualcuno avrebbe voluto applicarlo senza troppe remore, magari con la malvagità di infliggere sofferenza per amor di sofferenza. Infatti era risaputo come dai supplizi uscissero sovente confessioni rilasciate solo per metter fine al dolore, non necessariamente la verità.
Per lo più nell’applicare la tortura si badava bene a non causare danni eccessivi, dissesto di braccia e spalle a parte che già avveniva di suo. Assolutamente da evitare la morte del malcapitato, perché con essa sarebbe venuta meno la possibilità di ottenere informazioni o l’ammissione delle colpe.
Una voce solitaria contro la tortura
Caso unico e innovativo nella storia del diritto medievale contro l’uso della tortura è stata una sentenza del 1311 al termine di un processo contro i Templari di Veneto, Lombardia, Romagna e Istria, falsamente accusati di aver abbracciato la fede mussulmana. L’arcivescovo di Ravenna, Rinaldo da Concorrezzo, aveva assolto gli imputati, rigettando come prove processuali le confessioni estorte sotto tortura, da lui esplicitamente condannata come strumento di indagine. Tuttavia, fino al “secolo dei lumi” questo episodio è rimasto un’eccezione senza alcun seguito.
Abolizione della tortura in Occidente
In occidente la tortura è rimasta in vigore fino a inizio Ottocento dopo che molti intellettuali già nel secolo dell’Illuminismo avevano cominciato a denunciarla come pratica barbara.
Tra costoro è rimasto nella storia Cesare Beccaria e il suo trattato del 1764 “Dei Delitti e delle Pene”.
A Venezia i “tratti di corda” cominciarono a entrare in disuso all’inizio del ‘700, ma pare non del tutto. Il primo sovrano ad abolire la tortura è stato Federico II di Prussia nel 1740.
Dopo i primi decenni del XIX secolo la tortura era quasi scomparsa almeno in Europa. Solo il codice penale austro-ungarico ha previsto fino al 1918 la facoltà da parte degli inquisitori di ricorrere alla “bastonatura” dell’imputato, pratica per altro raramente utilizzata.
Su tutto questo ho dovuto documentarmi per scrivere il libro Il Signore di Notte, un giallo ambientato nella Serenissima del 1605, con protagonista l’aristocratico Francesco Barbarigo, personaggio realmente vissuto in quel periodo.
Secondo il verbale di un processo dell’estate di quell’anno e rintracciato presso l’Archivio di Stato di Venezia, il Barbarigo ricopriva allora la carica di Signore di Notte al Criminal insieme ad altri cinque colleghi. Infatti questi magistrati per tradizione fin dal 1260 venivano scelti uno per ciascuno dei sei sestieri di Venezia. A loro veniva affidato il mantenimento dell’ordine pubblico in città.
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