Un vecchio proverbio anglosassone dice: “Queen must be seen to be believed”. Ovvero, la Regina deve essere vista per essere creduta. Ovvero, bisogna apparire in pubblico se si vuole ottenere la credibilità. E, di conseguenza, se si vuol raggiungere i sudditi, la gente, la massa, i follower.
L’arte della ricerca spasmodica di visibilità, come falene attratte dalle sorgenti di luce artificiale, si sviluppa attraverso immagini o parole che attirino l’attenzione, fino a trasformarsi in una sorta di dipendenza o addirittura, perché no, di patologia, sia nella partecipazione attiva dei mittenti che in quella passiva dei destinatari.
Il mezzo è la visibilità ed il fine è rappresentato dalla credibilità. E ciò che rende “reale” la sfera del visibile è l’esposizione “virtuale”. Un meraviglioso ossimoro, se ci pensate.
Tempi strani questi, dove reale e virtuale, entrambi facenti parte della stessa funzione, si rincorrono in una staffetta mediatica e si intersecano su un piano bidimensionale. Un po’ sulla falsa riga di amore e odio. Oggigiorno, è lapalissiano affermare che senza uno dei due non esisterebbe l’altro. Ed è altrettanto pleonastico il fatto che la percezione della realtà si presenti sotto mentite spoglie, come un’ombra monarchica, dinamica ed eterea che si modifica in base alle prospettive e alle inclinazioni solari delle mode.
Nell’epoca della comunicazione social, codificata secondo una serie di linguaggi votati al conformismo glitterato, piegata al culto ossessivo dell’iconografia, devoti allo “sloganesimo” narcisista e politically correct del web, ed in cui tutto deve essere preceduto dal prefisso iper, ognuno di noi (dai rappresentanti delle più alte cariche istituzionali al più becero dei “cristianetti”), a suo modo, si sente Regina, ovvero in dovere o in diritto di ergersi a protagonista di una situazione pseudo-orwelliana. Nemmeno fossimo in pieno revival edonista anni Ottanta.
Col tempo, abbiamo acquisito gli strumenti (guai a non chiamarli tool) per capire ed interpretare la contemporaneità di determinati processi interattivi, nei quali, spesso, l’etica non è assolutamente un aspetto contemplato e dove ogni stanza del nostro microuniverso privato si trasforma in un luogo fittizio accessibile a chiunque, in un’esaltazione warholiana della forma che, di conseguenza, assegna ai contenuti un ruolo di importanza inferiore.
Il valore sociale della visibilità, dunque, non è altro che uno sguardo utopico rivolto verso orizzonti di marketing usa e getta; logica retorica che non risparmia nessun settore della nostra quotidianità e che, nonostante la costante evoluzione tecnologica, tra algoritmi di internet, piattaforme streaming e parossismo digitale, mantiene intatto il suo spirito primordiale e analogico, caratterizzato dalla preservazione del semplice concetto binario di scambio tra domanda e offerta.