L’emigrazione è un fenomeno vecchio quanto la comparsa dell’uomo sulla terra e su di esso sono stati scritti fiumi di parole. Quando si parla di emigrazione, saltano alla mente quelle foto in bianco e nero in cui i soggetti appaiono con le loro valigie di cartone in procinto di imbarcarsi. Oggi il fenomeno è cambiato? Ci sono delle analogie tra quest’epoca e quelle trascorse? L’emigrazione ha sempre avuto lo stesso volto o è cambiata nel corso del tempo?
Così, da alcune interviste fatte a diversi miei studenti di italiano L2 (Lingua Seconda), viene fuori una particolare faccia del suddetto fenomeno. Sono simili e diverse da quelle del passato le cause che spingono le persone ad emigrare per riversarsi, per esempio, in Italia, di cui al momento dell’ingresso si conoscono solo pochi aspetti della sua storia e, spesso, tali aspetti conosciuti non corrispondono a verità: “Non conoscevo l’Italia, le uniche cose di cui ero a conoscenza erano la storia di Roma, il Vaticano e la geografia”, dice E.D., una studentessa ucraina che arriva in Italia nel 2009; mentre un’altra studentessa che arriva nel 2011, O.K., dice: “L’Italia, all’inizio, non era proprio come me l’aspettavo … La immaginavo guardando alcune immagini trasmesse dai media … senza sapere, però, delle difficoltà e dei problemi”.
La maggior parte degli immigrati, soprattutto di area slava, intorno ai 35 – 45 anni, hanno un titolo di studio universitario; parlano l’inglese bene; fuggono da situazioni familiari poco confortanti o da una crisi politica ed economica tra gli Stati confinanti. Tutti arrivano in Italia con un Visto turistico. Mi racconta E.D: “Sono venuta in Italia dopo la morte di mio marito… Ho studiato all’Accademia dell’Università e del Commercio, presso la quale mi sono laureata … Quando sono partita… c’era una crisi tra l’Ucraina e la Russia che cresceva a causa dell’interruzione del flusso del gas russo nei diversi Paesi europei”; mentre O.K. dice: “Nel mio Paese mi sono laureata in biologia … Arrivai in Italia… con un Visto turistico. Sono partita a causa della crisi economica e civile”.
Gli intervistati di quest’area geografica raccontano la propria esperienza in serenità. Per loro le idee religiose vengono lasciate nella sfera personale. Tutti si iscrivono ai corsi di lingua e cultura italiana. La scuola diventa un posto dove sentirsi al sicuro e accettati, contrariamente alla strada, dove viene percepito – ma non sempre – un certo distacco come riscontriamo nelle parole di E.D: “Sento spesso la discriminazione verso gli stranieri da certi politici”; O.K. dice: “Non posso non raccontare che spesso non mi sento accettata”. L’apprendimento della lingua diventa necessario per presentare le istanze per la dovuta documentazione italiana e per cercare lavoro che, per le donne, è quasi sempre quello di governante o colf con contratti a tempo determinato. Tuttavia, dopo diversi anni di sacrifici, per alcuni arriva il successo: “Da due anni lavoro come consulente all’interno di un’azienda … sul mercato internazionale”, dice E.D.; mentre O. K. dice: “Ho fatto vari lavori: la cameriera, la bebysitter, la collaboratrice domestica, l’assistente familiare”. Diversa da questa situazione, tuttavia, è il fenomeno migratorio che si muove dall’Africa, molto più simile alla nostra Grande Emigrazione. Le cause che spingono ad intraprendere il cosiddetto “viaggio della speranza” vanno ricercate nella carestia, nelle guerre e nelle idee politiche contrastanti. Non c’è quasi mai la voglia di aprirsi e raccontare quello che hanno vissuto e tutti hanno attraversato un doloroso periodo di lutto a causa della guerra e della fame. Il racconto della loro traversata diventa faticoso perché il viaggio intrapreso è tutt’altro che sicuro. A viaggiare sono uomini, donne e bambini di ogni età; attraversano più Paesi e vengono spesso incarcerati in Libia, come, difatti, racconta M.T., studente di italiano L2 proveniente dal Mali: “In Italia sono arrivato nel 2015, il mio viaggio è stato molto triste e ha messo in pericolo la mia vita. Quando sono arrivato in Libia, sono stato messo in carcere e ho lavorato per un anno… Poi, con un barcone, sono arrivato in Sicilia. Sono partito perché nel mio Paese c’era la carestia e nel 2012 c’è stata la guerra civile”. I migranti provenienti dall’Africa, spesso, non hanno titoli di studio. La religione è vissuta fortemente, pertanto in Italia la moschea diventa il primo luogo da frequentare per cercare serenità e non mancano purtroppo situazioni di razzismo come ci dice M. T: “Sento molto il razzismo, soprattutto in strada… Questo… mi fa soffrire molto”. Parlano i propri dialetti e le lingue nazionali. L’Italia non appare mai ai loro occhi come era stata loro descritta. Lavorano come contadini e operai; non stipulano quasi mai un contratto e lavorano anche come venditori ambulanti. Spesso non hanno i documenti necessari al soggiorno legale in Italia e sono in attesa di risolvere la situazione con l’aiuto dello Stato. M.T. dice: “L’Italia è molto diversa da come me l’avevano descritta… Non è tutto facile come mi avevano detto. Oggi lavoro come contadino, ma solo in primavera e in estate… In inverno lavoro come muratore, ci vado solo quando mi chiamano per due o tre giorni al massimo. Non ho mai avuto un contratto”.
C’è ancora un’altra prospettiva che riguarda il fenomeno migratorio in merito ai migranti provenienti, per esempio, dal Sud-America. Questi migranti, spesso, sono figli di quegli italiani partiti negli anni Cinquanta, pertanto dispongono, per esempio, di parenti che hanno dato loro la prima ospitalità. Mi racconta G.E., venezuelana arrivata in Italia nel 2017: “Sono laureata in Economia … sono venuta con Visto turistico… La situazione in Venezuela… era molto complessa… L’ospitalità di mia zia ha alleggerito di molto il peso della burocrazia”.
È importante conoscere le caratteristiche del fenomeno migratorio perché esso è sempre attuale. Un tempo si emigrava con le valigie di cartone; non si conoscevano la lingua e la cultura del Paese ospitante. Oggi si emigra in sicurezza da alcuni Paesi, ma non da altri, dove l’emigrazione ha un volto assai conosciuto e molto familiare a quello della Grande emigrazione.
Foto: Amnesty