Fu una strana mattina quella dell’undici maggio del 1989. Eravamo da poco arrivati in redazione, al giornale L’Ora, quando arrivò la notizia di un omicidio. La radio della polizia diceva che avevano trovato un uomo sfigurato da pallettoni di lupara dentro un auto, una Hyundai marrone all’interno del cimitero monumentale dei “Rotoli”.
Il motore era acceso e lo stereo mandava musica a palla. Non avevamo fatto in tempo ad organizzarci che la notizia di un altro delitto arrivò via etere. Anche qui si trattava di un omicidio ma stavolta compiuto addirittura dentro il carcere dell’Ucciardone. Il comune denominatore stava nel cognome delle due vittime. Si chiamavano Puccio tutti e due. Vincenzo quello ucciso in carcere con una pesente bistecchiera di ghisa che gli fracassò il cranio, Pietro quello assassinato dentro il cimitero con colpi di lupara a canne mozze.
Con il mio socio Michele ci dividemmo i compiti, lui “volò” al cimitero, io mi fiondai davanti l’ingresso del carcere borbonico dell’Ucciardone. Impressionante fu la sincronia delle due morti, era stato un attacco ben studiato da Totò Riina per punire i fratelli che stavano tentando la scalata al suo potere. Vincenzo Puccio non era uno stinco di santo, era stato lui nove anni prima nel 1980 ad assassinare – tra gli altri – il capitano dei carabinieri Emanuele Basile durante la processione del 4 maggio per la festa del Santissimo Crocifisso a Monreale. Puccio non esitò a sparagli anche se l’ufficiale dei carabinieri teneva in braccio la piccola Barbara, la sua bambina di soli quattro anni. Puccio fu ucciso dai suoi tre compagni di cella, Giovanni Di Gaetano e i fratelli Giuseppe e Antonino Marchese. Giuseppe Marchese, conosciuto come il killer delle carceri, gli sferrò il colpi mortali – cinque o sei – con la padella mentre gli altri due lo tenevano stretto avvolto con una coperta. Vincenzo Puccio il giorno prima aveva chiesto di parlare con il magistrato per cambiare cella.
Pietro Puccio invece era un imprenditore edile, aveva un piccolo appalto per costruire delle cappelle gentilizie, era stato condannato a sei anni per mafia al maxiprocesso ed era fuori in libertà provvisoria. Era appena arrivato in cantiere quando i killer, due su una moto di grossa cilindrata e coi caschi integrali, gli scaricarono in faccia i pallettoni. Un omicidio all’Ucciardone, un altro al cimitero, stesso orario, due esecuzioni decise molto probabilmente in un precedente colloquio in carcere con i tre compagni di cella di Vincenzo Puccio. “Uccidetelo alle 6,30 di giovedì 11 maggio, noi pensiamo all’altro”. Anche un terzo fratello sembrava essere stato inghiottito dalla lupara bianca. I carabinieri lo cercarono per tutto il giorno. Ma solo nel tardo pomeriggio ricomparve, terrorizzato. Antonino Puccio, anche lui condannato a sei anni nell’aula bunker e anche lui in libertà provvisoria. Era un altro fratello del killer ucciso in carcere. Ma i carabinieri non lo trovarono. E’ scomparso, è stato fatto fuori, dissero gli investigatori. Ma nel tardo pomeriggio, Antonino Puccio si presentò in questura. Era fuggito per paura. Non servirà a nulla. Anche Antonino Puccio sarà abbattuto dal piombo mafioso, in via Palmerino, sempre a Palermo, sempre su una Hyundai, il cinque luglio di quello stesso anno.