Quello che non c’è scritto nella manovra finanziaria

Articolo di C. Alessandro Mauceri

In questi giorni si fa un gran parlare della manovra finanziaria 2024, delle voci da inserire e soprattutto di dove reperire i circa 30 miliardi di euro necessari.

Tra polemiche e dibattiti (anche all’interno del gruppo di maggioranza) su cosa dire e cosa non dire agli italiani, nessuno si è preso la briga di far presente che, in realtà, tutto questo non sarebbe un problema se si risolvessero alcune questioni ormai ataviche.

La prima è l’evasione fiscale. Sebbene in leggero calo rispetto agli anni passati, la somma che manca dalle casse dello Stato rimane impressionante: l’ultimo dato ufficiale disponibile (2021) parla di un’evasione di 82 miliardi di euro. Un’ “evasione” che ha due facce: l’evasione fiscale (ovvero, la tassazione non versata) e l’evasione contributiva (cioè, le somme occultate agli enti previdenziali). Ebbene, degli 82 miliardi di euro di evasione stimata, ben 72 miliardi deriverebbero dal mancato pagamento di imposte come Iva, Ires e Irpef. Solo (si fa per dire) dieci sarebbero attribuibili a contributi non pagati. L’Irpef dei lavoratori autonomi parrebbe essere l’imposta più evasa. E poi l’Iva, con un ammanco di ben 17,8 miliardi. Numeri che fanno dell’Italia il Paese europeo con il maggior gettito Iva perso (sebbene con qualche piccolo miglioramento)!

Anche l’Imu e la Tari vengono evase, con una perdita del 21,4% annua per i comuni, pari a oltre 5 miliardi di euro. Da tempo, il ministero dell’Economia ribadisce la necessità di migliorare i controlli, soprattutto sulle cosiddette “case fantasma”, ovvero quelle non registrate correttamente (se ne è parlato recentemente a proposito del bonus 110% ma non sembra essere stata trovata alcuna soluzione efficace). Ma chi ha un immobile “fantasma”, non registrato o abusivo, certo non ha potuto beneficiare del bonus 110%.

La seconda “questione” è quella che riguarda il costo del denaro. Il costo del denaro è il tasso di interesse annuo stabilito da una banca centrale (ad esempio, a settembre la BCE ha modificato questo tasso) per la concessione di un prestito. Questo valore è particolarmente importante per i paesi il cui debito pubblico è maggiore dato che il denaro per coprire questo debito viene da prestiti bancari o da emissione di titoli di Stato ovvero obbligazioni emesse dai governi per finanziare la gestione del proprio Paese e delle sue attività istituzionali. In Italia sono emessi dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) attraverso il Dipartimento del Tesoro. Anche queste rappresentano un prestito concesso allo Stato da parte dei sottoscrittori. Per questi “prestiti” lo Stato paga un interesse. Solo nel 2023 l’Italia ha emesso titoli di Stato per poco meno di 516 miliardi di euro, di cui oltre 156 miliardi di euro di BOT e il resto di titoli a medio-lungo termine. (Attenzione a non far confusione tra “tasso di interesse” che è un numero puro, di solito espresso in percentuale, e “interesse” che è invece la quantità di denaro che si deve pagare).

Attualmente come riportato dalla Banca d’Italia nel documento “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”, il debito pubblico italiano ammonta a poco meno di 3mila miliardi di euro (il dato di maggio 2024 era di 2.918,9 miliardi di euro, in crescita di 13,3 miliardi rispetto al mese precedente e di 99 miliardi rispetto allo scorso anno). Questo significa “un debito a italiano pari a 49 mila e 475 euro e a famiglia addirittura pari a 110 mila e 563 euro”, ha sottolineato Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori. Una somma che appare ancora più spaventosa se si pensa che, ogni anno, su questa somma gli italiani devono pagare decine di miliardi di euro di interessi. Erano 63,984 miliardi di euro (pari al 3,6% del PIL) nel 2019, 65,983 nel 2020, 69,659 nel 2021 e 73,739 (pari quasi al 4% del PIL) nel 2022.

In parole povere (mai termine è stato più adeguato), ogni anno l’Italia paga interessi sul debito più del doppio delle somme stanziate per la manovra finanziaria. Il termine “Italia”, però, è troppo generico: a pagare queste somme spaventose sono gli italiani. Ma non tutti.

Ecco, è questa la terza “questione” di cui non si parla mai: a pagare il costo del debito e quello della manovra (e molto altro) non sono tutti gli italiani ma una percentuale sorprendentemente piccola di contribuenti. Secondo un report pubblicato lo scorso anno, quasi i due terzi, il 62,52%, dell’imposta sui redditi delle persone fisiche sarebbe a carico dal 13,94% dei contribuenti (con redditi dai 35 mila euro in su). In altri termini, circa due terzi dell’Irpef pesa sul groppone di un settimo dei contribuenti. “Non è accettabile che poco più del 13% della popolazione si faccia carico della quasi metà degli italiani che non dichiara redditi e trova benefici in un groviglio di agevolazioni e sostegni, spesso concessi senza verificarne l’effettivo bisogno. Un 13% che guadagna da 35mila euro lordi in su, e che per questo non può beneficiare del taglio al cuneo fiscale perché è considerato troppo ricco e non può difendersi dall’inflazione nemmeno quando arriva alla pensione, sempre perché è considerato troppo ricco. Non commettiamo l’errore di pensare che le disparità che esistono in questo Paese facciano male solo a chi si trova sui gradini più bassi della scala reddituale”, ha dichiarato Stefano Cuzzilla, presidente Cida. E tutti gli altri? I numeri riportati dagli studi di settore sono impietosi.

I redditi dei contribuenti italiani in cinque grafici | Pagella Politica Nel 2022, il 41% dei contribuenti ha dichiarato un reddito inferiore ai 15mila euro. Addirittura, il 16,7% un reddito medio di 7mila euro annui! Questo significa non solo che non versano un centesimo di tasse ma, anzi, che in quanto appartennenti a fasce di reddito così basse queste persone sono beneficiarie di molte delle agevolazioni incluse nelle finanziarie degli anni passati (e probabilmente anche in quella che verrà varata nei prossimi giorni). Come facile immaginare, esistono forti differenze di reddito a seconda delle regioni. Mentre in Lombardia il reddito medio è di quasi 27mila euro annui, in Calabria o in Sicilia è meno della metà (intorno ai 17mila euro all’anno).

Di tutto questo, però, durante le accese dispute politiche (e non solo) sulla manovra finanziaria non si è parlato. Si è preferito (fingere di) litigare sui sacrifici che gli italiani dovranno compiere (quali sacrifici dovrebbe compiere chi già non paga nemmeno un centesimo di tasse o chi non ha nemmeno i soldi per mangiare o per curarsi?). Di scovare i beneficiari del super bonus per la ristrutturazione delle prime case (dimenticando che, tranne gli immobili di lusso, le prime case non pagano l’Imu e che la ristrutturazione ha in genere ridotto la rendita catastale e consentito una classe energetica più bassa): Si è parlato di “flat tax sui Paperoni”, ma nella manovra non ce n’è traccia. Così come non c’è traccia delle tasse, sventolate ai quattro venti, sugli utili bancari. C’è un settore, oltre a quello delle case farmaceutiche, che durante la pandemia ha visto crescere i propri utili: sono le banche. Un periodo di grande prosperità che (anche grazie alle guerre) è continuato nel 2023 (e lo farà anche nel 2024). Lo scorso anno, in Italia, le prime cinque grandi e medie banche italiane quotate in Borsa hanno fatto registrare profitti netti per 21,1 miliardi di euro (+64% rispetto ai 12,8 miliardi del 2022). Secondo i dati ufficiali del FABI, l’aumento dei tassi d’interesse da parte della BCE avrebbe consentito alle banche italiane di mettere da parte un tesoretto di oltre 40 miliardi di euro di utili.

NEL 2023 GLI UTILI DELLE BANCHE ITALIANE OLTRE 40 MILIARDI | FABI – Federazione Autonoma Bancari Italiani Basterebbe tassare questi per coprire una parte consistente della manovra finanziaria 2024. Invece, si sta a discutere se aumentare le accise sul diesel o quanto regalare all’Ucraina per comprare altre armi e armamenti.

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