È paradossale, ma il sostantivo femminile «vacanza» deriva dal latino vacare che in realtà significa «dedicarsi pienamente a un’attività, esser libero da, […] essere immune da vizi, […] avere tempo per (dare ascolto a) qualcuno, ecc…».
Nelle pieghe della parola «vacanza» c’è una lunga, millenaria storia. Essa muove da Ulisse, il «figlio di Laerte, una figura che ha letteralmente afferrato l’immaginario occidentale, un personaggio il cui vero viaggio è senza fine» (cfr. P. Boitani, Il grande racconto di Ulisse) per poi giungere all’aristocratica e, in origine, britannica «moda» d’approdare nelle coste italiane, spagnole e greche durante gli anni Venta, Trenta del Novecento quando, appunto, nasce il «mito delle vacanze al mare».
Nell’antico mondo romano il diritto all’otium è riconosciuto solo ai nobili. I Romani trascorrono il tempo libero (appunto, otium) nelle ville in campagna o sulla costa di Baia, Pozzuoli, Miseno che diventano il ritrovo di tutta l’aristocrazia del periodo. Nei secoli che vanno dal XVI al XIX si diffonde, si afferma il Grand Tour nell’Europa centrale mediterranea come lunga «vacanza» di formazione (Bildung) per i/le giovani aristocratici/che. È nel Regno Unito del XVII secolo che compaiono i primi luoghi di villeggiatura termale. A partire dal Settecento, andare in vacanza in campagna è una moda degli aristocratici, un segno distintivo che dava lustro al nome della famiglia. Come scritto sopra è negli anni Venta / Trenta del secolo scorso che nasce il mito delle vacanze al mare.
Vacatio è uno «spazio vuoto» attraversato e pregno di tempo libero, un tempo dotato di libertà, a differenza di quello dedicato al lavoro che è invece un tempo scandito dall’obbligo, dalla produzione, ecc…Un tempo durante il quale noi vorremo – presi per incantamento – proseguire lungo il «cammin di nostra vita» sotto le «stelle» in compagnia di un libro, la Commedia di Dante, che non è soltanto un libro, ma soprattutto un’esperienza che ci fa «accumulare energia», ci aiuta a cercare e ad afferrare la felicità per poi viverla, a piccole dosi, in questo nostro tempo.
Il Sommo Poeta nasce a Firenze – osserva con acume il professore Giorgio Petrocchi – in un giorno tra il 14 maggio e il 13 giugno dell’anno 1265 nella casa degli Alighieri nel popolo di S. Martino del Vescovo, di fronte alla Torre della Castagna, casa che era stata di Geri Del Bello, più tardi di Alighiero […].
«Dante è nostro» in quanto fabbro, padre della lingua italiana. Il vocabolario fondamentale dell’italiano, ha insegnato e spiegato il professore Tullio De Mauro, è costituito da circa duemila parole di larghissimo uso, con le quali realizziamo oltre il 90 per cento delle nostre comunicazioni parlate e scritte. E più di milleseicento di queste duemila parole indispensabili sono già presenti nella Commedia.
D.: Professor Paolo Nebbia, vuole spiegarci dal punto di vista formativo cos’è il riposo secondo la sua esperienza e come la lettura della Commedia dantesca possa inserirsi nell’ottica del riposo estivo?
Un paio di estati fa, all’inizio delle vacanze estive, inviai ai miei studenti liceali una breve lettera, nella quale provavo a spiegargli il valore e le straordinarie potenzialità del riposo. Nella frenetica società in cui viviamo è sempre più difficile riuscire a trovare dei reali momenti di svago: dico reali perché spesso queste occasioni rischiano di essere fittizie o soltanto apparenti. Magari andiamo in villeggiatura, lasciamo la nostra città, sospendiamo una serie di attività, ma con la testa e con il cuore rischiamo di restare in quella realtà dalla quale invece stiamo provando ad allontanarci. Che cosa significa allora riposarsi? Che vuol dire entrare nel tempo della vacanza? Ma soprattutto come vale la pena investire questo tempo? Per provare a rispondere sinteticamente a tali quesiti – proprio come ho fatto nella lettera indirizzata ai miei alunni – traggo qualche spunto dall’etimologia del verbo “riposare”: la particella “ri” non è che un rafforzativo del verbo “posare”, pertanto riposarsi significa (ap)poggiarsi con sicurezza su qualcuno o su qualcosa. Ritengo che per un adolescente come per un adulto non ci sia occasione migliore delle vacanze estive per mettersi alla ricerca di questi “qualcuno” e “qualcosa” su cui “poggiarsi”: il riposo si trova coltivando relazioni sincere (qualcuno) e abbracciando abitudini sane (qualcosa). Riposarsi allora non significa non fare nulla, fare soltanto quello che ci va, trascorrere le giornate sul letto, sul divano o sotto l’ombrellone in spiaggia, piuttosto significa compiere delle scelte e soprattutto fare i conti con l’autonomia. Durante l’anno sono gli impegni, il lavoro, l’ordinario ad imporci spesso ritmi ed orari, ma con l’estate questa consuetudine tende ad attenuarsi, anzi è necessario che si attenui! È interessante notare come nel greco della parola “autonomia” il riflessivo “autòs” si unisca al sostantivo “nòmos” (“legge”, “norma”) proprio per mettere in luce una delle caratteristiche salienti dell’indipendenza: essere autonomi – specie nel periodo estivo in cui siamo liberi dagli impegni abituali – significa sapersi autoregolare, saper organizzare da soli la propria vita. Vivere il riposo nella prospettiva di un saggio utilizzo dell’autonomia vuol dire usare il proprio tempo libero in modo costruttivo, sulla scorta di lucide riflessioni e ponderate decisioni che possono realmente tutelare il nostro relax.
Sfruttare la pausa estiva per apprendere l’arte di vivere il riposo – che è poi quanto ci invita a fare il terzo comandamento cristiano – può essere utile anche in vista della ripresa delle attività ordinarie a settembre, quando per ricaricarci dalle fatiche quotidiane saremo comunque chiamati a trovare qua e là un po’ di tempo per riposarci: in tal senso, saremo lieti di aver allenato la nostra autonomia, grazie alla quale riusciremo a darci buone regole e ritmi sani da soli, proprio come avremo (forse) imparato a fare durante l’estate.
In quest’ottica, la Commedia dantesca può rivelarsi un valido alleato per il nostro riposo: se il riposo vero possiede una valenza di ricarica delle energie ma anche una dimensione costruttiva, ritengo che non ci sia libro più adatto come coadiuvante per il nostro relax. All’interno della Commedia troviamo passi drammatici e sezioni divertenti, riferimenti biblici, evangelici e teologici, il rimando a questioni etiche, politiche e sociali, cenni di storia, geografia ed etnografia, innumerevoli richiami letterari; troviamo trattate le tematiche e adottati i generi più svariati, dall’amicizia all’amore, dall’avventura all’etica, dalla religione alla satira, dall’epica alla poesia, dalla favola alla cronaca. Come spesso sottolinea scherzosamente il dantista Franco Nembrini, se uno dovesse trasferirsi su un’isola deserta e avesse l’opportunità di portare con sé un solo libro, non ci sarebbero dubbi su quale scegliere: l’unico dubbio potrebbe sussistere fra la Bibbia e la Commedia, ma alla fine si opterebbe comunque per la Commedia, perché tanto al suo interno vi sono disseminati svariati riferimenti biblici.
D.: Nomen est omen. Il nome Dante – o meglio Durante – racchiude già l’«augurio espressivo» di un uomo in cammino, di un uomo davanti ad un bivio, di un uomo che ha davanti a sé una meta. Come e perché già nel nome «Dante» c’è in nuce tutta la ricchezza con cui il nostro poeta tesserà e rivestirà tutta la sua opera e in particolare la Commedia?
Nel video (https://www.youtube.com/watch?v=VgQbnso6sNE&t=20s) che ha inaugurato il mio canale YouTube, avevo già avuto modo di sottolineare quanto già i nomi Dante e Durante fossero il precoce preludio della missione che questo grande uomo era destinato ad espletare nel corso della sua esistenza. La vita umana possiede un limite, prima del quale e dopo il quale siamo tutti sostanzialmente destinati a compiere due atti: prima del trapasso siamo chiamati ad amare, quindi a donarci, a dare, mentre dopo il trapasso siamo chiamati a durare, a restare nella memoria dei nostri cari e dei posteri. Il «nostro» Alighieri, declinando con i suoi due nomi il participio presente di questi due verbi (“dare” e “durare”), rappresenta la «sempiterna» contemporaneità del suo agire e restare: è sempre “dante”, dal momento che ancora oggi prosegue con l’offrirci spunti di riflessione, momenti d’intrattenimento e svago, suggerimenti, ammonimenti, consolazioni, rassicurazioni; ed è sempre “durante”, dal momento che ancora oggi perdura, non passa di moda, non stanca.
Quest’uomo ha centrato il bersaglio della sua esistenza e così facendo ci ha indicato una traiettoria che tutti noi siamo chiamati a percorrere per raggiungere la pienezza del nostro essere. Non nascondiamocelo, noi abbiamo bisogno di Dante, questo tempo, questa società, questa umanità hanno ancora bisogno di lui! L’estate scorsa con un amico sacerdote abbiamo organizzato una serata dedicata ad una lectura Dantis del canto XI del Purgatorio e in tale circostanza mi ha molto colpito la frase con cui don Andrea ha chiosato il nostro incontro: “Dante è vivo, perché Dante ci spiega cos’è la superbia e oggi quasi nessuno ci spiega più cos’è la superbia!”. Se non ci fosse la Commedia dantesca, verrebbero meno tutta una serie di occasioni per riflettere sulle più disperate tematiche: la lettura del I canto dell’Inferno, ad esempio, ci consente di ragionare sulla traiettoria che sta seguendo la nostra vita, sulla necessità di una guida affidabile che ci supporti nell’uscire dalle situazioni difficili; il V canto dell’Inferno ci offre l’opportunità di riflettere sull’amore e sui suoi rischi, il XIII sul tema del suicidio, il XIX sulla facilità con cui il bene può tramutarsi in male, il XXVI sul coraggio, sull’avventura, sulla sete di conoscenza, sull’importanza del concetto di limite, il XXXIII sul rapporto fra bisogni primari ed amore paterno, sul tema del tradimento, sulla giustizia-ingiustizia di determinate punizioni. Spero che questa rapida rassegna, limitata soltanto ad alcuni passaggi della prima cantica, riesca a rendere l’dea del concetto: leggere la Commedia – specie se liberi da vincoli esterni (per i più giovani mi riferisco soprattutto ai vincoli scolastici) e liberi da impegni lavorativi o di routine – significa continuare a nutrirsi di un pane (e qui sto alludendo ad alcuni passaggi del Convivio) che Dante ci offre (perché è ancora “dante”) nel nostro tempo (perché è ancora “durante”) e di cui abbiamo inconsciamente bisogno per saziare e stimolare i nostri affamati reconditi.
D.: Le estati di Dante – da quella felice dell’anno 1300 quando fu nominato eletto priore a quella triste e pensosa del 1321 di ritorno dall’ambasceria da Venezia durante la quale si sarebbe ammalato di malaria che lo ha portato alla morte – sono assai presenti nell’opera dantesca. Quante volte ricorre nell’opera dantesca il sostantivo «estate», con quali accezioni? Cosa insegnano a noi oggi le «estati di Dante»?
All’interno delle tre cantiche sono numerosi i riferimenti estivi – in genere richiamati in contesti figurati – anche se poi le occorrenze del sostantivo «estate» sono effettivamente soltanto tre, si collocano tutte nell’Inferno e si trovano tutte nella forma «state».
La prima è presente ai vv. 49-51 del XVII canto (“non altrimenti fan di state i cani / or col ceffo, or col piè, quando son morsi / o da pulci o da mosche o da tafani”) e viene utilizzata in un contesto di comparazione: Dante sta utilizzando l’immagine dei cani, che in estate tentano in ogni modo di liberarsi dal fastidio arrecatogli da pulci, mosche o tafani, per descrivere l’irrequieto e disperato tentativo da parte dei dannati del settimo cerchio (gli usurai, violenti contro Dio nell’esercizio della loro professione) che, raggomitolati fra i granelli di una sabbia infuocata, cercano di difendersi con le mani dai lapilli della pioggia di fuoco che li tormenta. In questo caso l’immagine della calura estiva, nella quale si muovono i cani della similitudine, rafforza anche l’idea della vampa insopportabile che sono costretti a soffrire questi peccatori.
La seconda occorrenza esula dal linguaggio figurato, è di più immediata comprensione e si trova ai vv. 79-81 del XX canto: “Non molto ha corso, ch’el trova una lama, ne la qual si distende e la ’mpaluda; e suol di state talor essere grama”. Siamo nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio, dove vengono puniti i maghi e gli indovini, e in questi versi Virgilio sta raccontando a Dante la leggenda della nascita della città di Mantova (che prende appunto il nome dall’indovina Manto) e la sua descrizione è ricca di riferimenti geografici che riguardano il territorio lombardo: viene spiegato che il fiume Mincio, affluente del Po ed unico emissario che alimenta le acque del lago di Garda, dopo un breve corso trova un avvallamento (“lama”) ove si allarga (“si distende”) e forma una palude (“e la ‘mplauda”), la quale però d’estate è solita inaridirsi (“suol di state talor essere grama”).
L’ultima occorrenza esplicita del termine “state” è presente ai vv. 49-51 del XXVII canto (“Le città di Lamone e di Santerno / conduce il lioncel dal nido bianco, / che muta parte da la state al verno”) ed è calata all’interno di una panoramica politico-sociale della Romagna al tempo di Dante. È il poeta fiorentino stesso ad elencare in prima persona a Guido da Montefeltro le varie famiglie e i diversi partiti che reggono i comuni e le signorie romagnole: all’interno di questo elenco troviamo menzionato Maghinardo Pagani da Susinana, detto “lioncel dal nido bianco” in virtù del leone che campeggia nello stemma bianco della sua casata, governatore delle città di Faenza (bagnata dal fiume Lamone) e di Imola (bagnata dal fiume Santerno). Il termine “state” lo troviamo nell’espressione scherzosa che utilizza Dante per rievocare il comportamento subdolo di Maghinardo, che – come confermato anche dalle pagine della Cronica di Giovanni Villani – era noto per aver parteggiato sia per i guelfi che per i ghibellini a seconda delle convenienze del momento. Per tale ragione, Dante lo etichetta con l’appellativo di colui che cambia partito dall’estate all’inverno (“che muta parte da la state al verno”).
Al di là di questi riferimenti diretti, come dicevamo, l’estate viene implicitamente menzionata numerose altre volte all’interno della Commedia, soprattutto nel contesto figurato. Una delle similitudini più note in cui si palesa questo richiamo – che qui citiamo a titolo esemplificativo – si trova sempre nella prima cantica ed è quella che inaugura l’incontro fra Dante e Ulisse nel XXVI canto. Siamo nell’atmosfera cupissima di Malebolge, più precisamente nell’ottavo cerchio dell’ottava bolgia, dove i consiglieri fraudolenti sono tormentati da lingue di fuoco che li avvolgono e li ardono. Al panorama che si offre dinanzi ai suoi occhi, Dante appare turbato, dal momento che vede il fondo della bolgia colmo di fiammelle sparse qua e là nel crepaccio. Per offrire al lettore un’immagine vivida, che riesca a rappresentare quanto sta osservando, Dante ricorre al contesto similitudinario: “Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, / nel tempo che colui che ’l mondo schiara /
la faccia sua a noi tien meno ascosa, / come la mosca cede alla zanzara, / vede lucciole giù per la vallea, / forse colà dov’e’ vendemmia e ara: / di tante fiamme tutta risplendea / l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi / tosto che fui là ’ve ’l fondo parea” (Inferno XXVI, vv. 25-33). Dalla tetra realtà di Malebolge improvvisamente ci ritroviamo per qualche verso catapultati nella tranquilla atmosfera di una serata estiva: come il contadino (“’l villan”), che sul colle si riposa in estate, quindi nella stagione in cui il sole (“colui che ‘l mondo schiara”) splende nel cielo per più ore (“la faccia sua a noi tien meno ascosa”), di sera, quindi nel momento vespertino in cui “la mosca cede alla zanzara”, vede tante lucciole nei campi della vallata che forse lui stesso coltiva (“vede lucciole giù per la vallea, / forse colà dov’e’ vendemmia e ara”), allo stesso modo Dante vede risplendere l’ottava bolgia di così tante fiammelle (“di tante fiamme tutta risplendea / l’ottava bolgia”). Non ci sono dubbi sul fatto che Dante utilizzi questa lunga ed intensa similitudine estiva per innalzare il tono, per diffondere sulla cupa aura del basso inferno una coltre di solennità, una patina di spensieratezza: questo squarcio idillico è come se riportasse il lettore bambino, è come se lo riconducesse ad un tempo fatto di stupore anche per le piccole cose. Infatti, le lucciole nel buio ci appaiono così affascinanti, così attraenti solo se una parte di noi è rimasta un poco puerile, se sappiamo ancora meravigliarci delle cose semplici. L’estate – come ci conferma anche la poetica leopardiana – è il tempo della leggerezza, è il tempo dell’innocenza e della fanciullezza.
Cosa ci lasciano allora le estati di Dante? Indubbiamente ci ricordano che l’estate è un tempo importante, nel quale – sebbene noi abbassiamo la guardia e giustamente entriamo nella dimensione del riposo – possono comunque avvenire eventi decisivi. Se mi volto all’indietro, diversi avvenimenti rilevanti ho visto accadere nelle estati della mia vita, alcuni di essi anche drammatici. Quando le vicende dolorose giungono d’estate, nel momento del riposo, non abbiamo il pretesto del lavoro o dei tanti impegni per distrarci, per provare a non pensare a ciò che ci fa stare male: l’estate, essendo un tempo di pausa, diventa l’occasione per fermarsi e riflettere, ci costringe a fare i conti con quelle cose dalle quali invece volentieri scapperemmo. Sulla scorta di Dante e della sua Commedia, auguriamoci di riuscire a sfruttare la nostra estate per riposarci in modo sano, per crescere nella serietà con cui guardiamo agli eventi della nostra vita, senza avere paura di guardare negli occhi anche gli accadimenti che ci interrogano e ci mettono in crisi, senza avere paura di calarci nelle profondità del nostro inconscio, perché tanto dal buio esistenziale – come ci insegna Dante – si può sempre riuscire fuori a «riveder le stelle».