Erano ancora vivide in tutti noi le terribili immagini della strage del 23 maggio 1992, quando, a meno di due mesi, il 19 luglio 1992, Cosa Nostra portò a compimento un altro efferato attacco allo Stato, all’uomo che aveva raccolto il testimone di Giovanni Falcone e che appariva deciso ad andare fino in fondo: Paolo Borsellino.
Alle 16:58 di quel giorno, in Via Mariano D’Amelio, l’esplosione di una carica di tritolo occultata all’interno di una Fiat 126, uccise assieme a Borsellino gli agenti Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Emanuela Loi ed Eddie Walter Cusina; subì delle serie ferite, ma ebbe salva la vita, un altro componente della scorta, l’agente Antonino Vullo.
Il 1992 fu un anno terribile nella recente storia d’Italia, un vero anno “periodizzante”, dopo la dissoluzione dell’assetto bipolare a livello mondiale, dissoluzione che fece saltare il quadro politico-istituzionale della Repubblica nata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Un anno che peraltro confermò una importante interpretazione storiografica: la centralità della Sicilia nei passaggi storici del nostro Paese, dato che proprio nella nostra isola – ancora una volta – si giocò una partita decisiva per i futuri assetti dell’Italia dopo la fine del bipolarismo e la imminente scomparsa di quello che da alcuni fu chiamato “il sistema dei partiti”.
Si dissolsero, infatti, quasi tutte le forze politiche (tranne i comunisti) che dal secondo dopoguerra avevano egemonizzato la scena politica e al tempo stesso nacquero i nuovi partiti che fino a poco tempo fa sono stati protagonisti del quadro politico italiano: Forza Italia (Polo delle Libertà), la Lega di Bossi, PD e Ulivo, Rifondazione. Fu modificato il sistema elettorale e si tornò a sostenere con forza la controriforma istituzionale (la famosa “Grande Riforma” craxiana) dando più forza all’esecutivo e svuotando il potere legislativo, con il conseguente indebolimento del Parlamento, in pratica quello che oggi sta tentando di fare l’attuale maggioranza meloniana sotto la guida di Fratelli d’Italia. La magistratura fu attaccata frontalmente da precise forze politiche (anche qui: quello che avvenendo in questi mesi!), soprattutto per la sua azione contro la corruzione (Mani pulite e Tangentopoli) e contro il sistema di potere mafioso: tutto questo perché da più di dieci anni aveva squadernato i legami tra mafia e politica, tra massoneria deviata ed esponenti della destra eversiva, tra segmenti dei servizi segreti e circoli imprenditoriali e finanziari. In particolare, fu colpita Cosa nostra – basti pensare al maxi-processo -che si trovava in grave difficoltà quando nel gennaio del 1992 la Corte di Cassazione confermò l’impianto accusatorio e le condanne del maxiprocesso; sulla base di ciò i capi mafiosi fecero saltare qualsiasi forma di mediazione e la situazione precipitò: la strategia “stragista” di Riina intendeva ridare centralità politica all’organizzazione mafiosa usando con cinismo e ferocia tutti gli strumenti – stragi e trattative – per svolgere un ruolo determinante, come in passato, nel “nuovo sistema politico italiano”. Furono giorni e mesi terribili (ci sono giorni e mesi che valgono anni!) e che, per certi versi, rappresentarono un passaggio di fase: da un lato, ci fu la risposta dello Stato che portò all’arresto e alla condanna di centinaia di latitanti che da decenni scorrazzavano liberamente per la Sicilia; dall’altro, rimasero settori di “intoccabili” e di complicità frutto dell’intreccio tra politica e mafia.
Peraltro, non si può comprendere bene ciò che accadeva in quelle settimane e in quei mesi se non riannodiamo il filo del discorso, partendo dall’inizio degli anni Ottanta, a quando in Sicilia tornano, – dopo le uccisioni del giornalista Francese, del commissario Giuliano e del giudice Terranova -, Pio La Torre, che diventa segretario regionale del PCI, e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, che diventa prefetto di Palermo. La Torre rappresenterà un profondo cambiamento per il PCI: un partito di sinistra, organizzato e di massa, che, seppur con delle contraddizioni, sostiene in quel torno di tempo la lotta per la pace – contro i missili a Comiso, ricordiamo la grande manifestazione dell’11 ottobre 1981- e contro la mafia. La Torre in poco tempo fu capace di mobilitare grandi masse per questi obiettivi tattici e strategici e verrà ucciso il 30 aprile 1982.
Dalla Chiesa, pur con poteri limitati, schiererà la forza dello Stato e avrebbe voluto indirizzare la sua repressione verso realtà “nuove” del panorama mafioso siciliano (fa testo la famosa intervista al quotidiano “Repubblica” nella quale accusa esplicitamente i cavalieri del lavoro catanesi). E sempre nella prima metà degli anni Ottanta maturava la straordinaria esperienza de “I Siciliani” di Pippo Fava, ucciso il 5 gennaio del 1984, un uomo che ha segnato profondamente la storia della città di Catania.
Proprio in occasione del ventiseiesimo anniversario della strage di Via D’Amelio la magistratura ha condannato ex ufficiali dell’Arma dei carabinieri e alcuni “uomini d’onore” per il reato di “minaccia a corpo dello Stato” nella cosiddetta trattativa fra le Istituzioni e le cosche. Di più: alcuni degli ufficiali “si accreditarono verso i loro interlocutori mafiosi dicendo loro (o facendo credere loro) di rappresentare le Istituzioni dello Stato o coloro che, comunque, avrebbero avuto il potere di soddisfare eventuali richieste indicate dai vertici mafiosi”. In pratica la trattativa Stato – mafia c’è stata.
Partendo da questo dato, Paolo Mieli, sul “Corriere della Sera” di martedì 24 luglio 2018, sostiene la tesi che la linea “trattativista” fu attuata da governi di vario orientamento (di centrodestra e di centrosinistra) con la benedizione di un capo dello Stato come Oscar Luigi Scalfaro, eletto proprio nel 1992. In fondo, ciò che Mieli pensa di dirci maliziosamente – non c’è molta differenza tra i due principali schieramenti politici del Paese – è un’antica verità: lo storico intreccio esistente tra lo Stato e la mafia, la funzione della mafia nel sistema di potere dominante in Italia, la complicità delle Istituzioni nel consentire a Cosa nostra di affermarsi e svilupparsi, prima in determinate zone e poi su scala nazionale, come forma peculiare del modo di produzione capitalistico: non per caso, tutta l’esistenza di Cosa nostra, al di là degli aggiustamenti tattico-strategici, è caratterizzata da un feroce anticomunismo coniugato con il terrorismo stragista esercitato nei confronti delle forze, delle associazioni e degli istituti dello schieramento democratico.
Dunque, nel ’92 la trattativa esprimeva l’interesse mafioso di tornare al centro delle scelte politiche che avrebbero determinato i futuri assetti della Seconda (?) Repubblica per rientrare “a pieno titolo” (cioè la violenza al servizio di un preciso disegno politico) nella gestione del potere.
Ecco perché la lotta alla mafia e al sistema di potere dominante della Sicilia rimane la priorità per chiunque voglia battersi per la trasformazione in senso democratico della nostra isola; ed è l’impegno che dobbiamo assumere affinché non sia vano il sacrificio di coloro cha sono morti in questi anni e, al tempo stesso, è l’impegno da portare avanti verso le nuove generazioni che hanno il diritto di vivere in un mondo migliore.