Le fredde cifre parlano di oltre 85 donne uccise dai loro ex o in un contesto di violenza para familiare di “genere” (vittime non protette e non considerate). Abbiamo, ad oggi, oltre 50 persone che hanno scelto il suicidio come via per la libertà dal carcere nel quale, per lo più, stavano espiando pene contenute (ovvero sotto i quattro anni). Abbiamo una serie non del tutto palese e chiara di uomini e donne delle forze dell’ordine che lavorano in condizioni proibitive e talvolta (per svariati motivi) arrivano a togliersi la vita. Da ultimo ma non perché sia meno importante vi sono cifre da capogiro che lo Stato corrisponde per le ingiuste detenzioni patite da cittadini innocenti. Molti, troppi sono quelli che finiscono dietro le sbarre senza una fondata motivazione e molti, troppi, sono quelli che per indagini fatte male riescono a scivolare dalle maglie (troppo larghe) della giustizia e come direbbe un noto ex magistrato “a farla franca”.
Quanto rappresentato sono due facce della stessa medaglia e due facce che minano il delicato rapporto tra cittadino e mondo della Giustizia. Inoltre, come se non bastasse tutto questo, abbiamo un quadro sconcertante in ordine ai tempi dei processi con il concreto baratro della prescrizione che incombe ad ogni passo anche per reati molto gravi (prescrizione che da patologia del sistema è, ormai, uno degli esiti processuali più frequenti). Vi è un organico di magistrati (giudicanti e requirenti) e di personale amministrativo a vari livelli del tutto insufficiente. Gli organici sono molto ridotti con un inevitabile disservizio. Nei giorni d’estate è stato il Presidente del Tribunale di Imperia che ha fatto notare come nel suo Tribunale gli amministrativi fossero sotto organico del 60%. Appare evidente che così facendo si arriva alla paralisi della giustizia. Il caso di Imperia, venuto alla ribalta delle cronache, non è isolato; anzi è diffuso e si riscontra su tutto il territorio nazionale. Il lavoro di magistrati e di amministrativi capaci e professionalmente preparati non sarà mai sostituito dall’idea efficientista degli strumenti telematici come evidenziano le cronache continue di mal funzionamenti.
A fronte di ciò il nostro legislatore è capacissimo di creare “strumenti inutili” (se non addirittura dannosi) come il c.d. “ufficio del processo” e siamo capaci di creare dal nulla il “balzello” (nullità dell’atto) telematico sul quale occorre fare un ragionamento a parte.
Questo, ma non abbiamo la presunzione di avere toccato tutti i tasti dolenti, è il quadro d’insieme a dir poco critico ma che per certi versi potremmo definire catastrofico della Giustizia in Italia. Abbiamo già espresso il nostro giudizio sulla riforma denominata “legge Cartabia” nel suo insieme in altri scritti anche qui pubblicati e riteniamo che quanto quel reticolo di norme prevede è attuabile per non più del 30% (ad essere ottimisti). Ma, adesso, torniamo ai dati freddi e allucinanti delle morti, dati che vengono “sparati” (termine scelto di proposito) per qualche giorno e poi tutto tace “gattopardescamente” parlando.
Le violenze e le morti annunciate
Sulle morti di donne che hanno denunciato e che hanno rappresentato la loro situazione di vittime dobbiamo lavorare e attivarsi con la massima celerità, urgenza e competenza. Per evitare questo massacro vi è un solo modo: mettere in protezione la vittima in ogni caso e ad ogni costo. La Convenzione di Istanbul dice che la protezione alle vittime di violenze di genere e di violenze in generale va data a prescindere dalla presentazione della denuncia (o querela). Tema completamente dimenticato: da noi nemmeno dopo 20 denunce o segnalazioni di pericolo si protegge la vittima; anzi le si fa il processo a lei e alle sue fragilità sia mai che abbia detto il falso o simulato gravi ferite. I rei vanno perseguiti non le vittime: questo deve essere chiaro fuori e dentro le aule di giustizia. Non ci sono altri metodi per evitare le tragedie di morte che ogni giorno ci vengono vomitate dai media: proteggere le vittime, metterle in protezione non appena vi è una segnalazione di violenza fisica e/o psicologica.
La protezione alle vittime non incrina minimamente i diritti di difesa dei rei anzi finisce per esaltarli. Le donne, ma anche i soggetti fragili in generale (bambini, persone vulnerabili per malattie fisiche o psichiche, anziani) devono per prima cosa essere messi in protezione e mai sottovalutare le persona che denuncia violenze di genere o violenze sessuali o violenze domestiche (o violenze più gravi). In troppi casi si è fatto questo errore ed a pagare sono state sempre e solo le vittime. Mettere in protezione le vittime non significa anticipare o ledere le garanzie del reo ma semplicemente tutelare con la misura di prevenzione (che deve rispettare dei criteri oggettivi e normativi) il bene vita ed incolumità personale della vittima. Occorre formare e strutturare personale di polizia giudiziaria, del mondo sanitario e di magistrati ed avvocati che svolgano i loro compiti seguendo come principio guida il criterio di “protezione delle vittime”. Nessuno ha la pretesa di avere la soluzione in tasca e pronta all’uso ma alcune regole procedurali previste, peraltro, da norme internazionali fatte proprie dalla nostra legislazione (su tutte la Convenzione di Istanbul) sono necessarie ed in caso contrario – come si vede ogni giorno – vi sono costi elevati per la collettività. Ovvio che la protezione va attuata determinando il minimo disagio possibile per la vittima e i suoi figli (quando vi sono).
Occorre altresì attivare centri di ascolto dei soggetti che subiscono reati collaterali alla violenza e che sono entrati già in un vortice di violenza familiare o para-familiare. Questo deve essere efficiente e raccordato con le autorità di polizia per dare certezze alla vittima che non può essere lasciata sola in nessun caso e, specialmente, nel momento iniziale del rapporto con le Istituzioni. Nel caso di donne o addirittura ragazze molto giovani (o minorenni) è essenziale un supporto psicologico immediato che dia loro la forza di scegliere di uscire dalla spirale della violenza. Dobbiamo valorizzare il fenomeno della ambivalenza molto frequente nelle violenze intra-familiari e proteggere le vittime anche dagli aspetti manipolativi messi in atto dagli aguzzini. Stesso criterio in caso donne che provengano da altre culture anche con il raccordo fattivo con le ambasciate o i consolati dei loro Paesi che devono essere sensibilizzate a tali tutele. La donna non deve essere mai un possesso, un oggetto, uno strumento, un giocattolo; la donna è persona portatrice di diritti inviolabili così come tutte le persone. Va fatto comprendere che chi impedisce di muoversi e di avere amicizie non manifesta il suo amore ma il senso di proprietà sull’altro.
Il suicidio come libertà è inaccettabile.
Terreno, altresì, molto scivoloso è costituito dai suicidi in carcere che ogni estate, in modo periodico, si verificano. La risposta – lo diciamo subito – non è e non può essere quella di ampliare il numero degli istituti di pena. Una risposta miope e priva di dignità logica. Le carceri devono essere aggiornate e devono essere il luogo in cui espiano la pena i soggetti rei, pericolosi per la società e nel quale istituto si attua la rieducazione del condannato. La realtà, basta andare a visitarne alcune, è ben diversa, ovvero che, le carceri sono per lo più affollate da soggetti colpiti da cumuli di pena per reati anche minori e lontani nel tempo; o da soggetti che hanno reiterato i comportamenti delittuosi per via della mancata risocializzazione. Qui occorre un serio lavoro di modulazione (compito del giudice di sorveglianza) tra la pena da espiare, il soggetto a cui la pena viene applicata e la durata della pena in concreto.
Occorre rivedere le norme sull’affidamento in prova e anche mettere in campo altri strumenti alternativi alla detenzione (lavori socialmente utili o lavori di ausilio alla società nei più svariati settori) che devono essere applicati in tutti quei casi in cui il soggetto per caratteristiche soggettive può essere degno di fiducia e la pena o il residuo pena sia sotto i 5 anni. Uso più diffuso del braccialetto di localizzazione e effettivi premi a chi tiene un comportamento risocializzante. Il reinserimento del reo nella società è un passaggio essenziale ed è un elemento inscindibile di riconciliazione sociale. E’ inutile una pena che abbia un contenuto solo retributivo e afflittivo. La pena deve essere retributiva, rieducativa e risocializzante. Ovvero, deve restituire alla società un soggetto che effettivamente sia recuperato e non solo un soggetto che ha scontato la pena (nel senso di anni) ma che possa dirsi che abbia compreso il reale disvalore del fatto reato commesso. Ecco perché un reale investimento in braccialetti elettronici o modalità di controllo del reo in modalità non restrittive porterebbe a svuotare le carceri di tutti quei soggetti che devo scontare pene limitate. Unitamente a ciò e questo lo vogliamo dire forte e chiaro le carceri devono essere liberate da tutte quelle persone che hanno patologie psichiatriche poiché il carcere a certi soggetti li condanna a sofferenze assolute e inumane; li abbrutisce e fa peggiorare lo stato della malattia. Vanno trovati rimedi non carcerari ma devono essere collocati in strutture aperte per tali soggetti che con tutta evidenza sono persone che risultano incompatibili con la realtà carceraria.
La carenza di organici è inammissibile.
Non vi è dubbio che l’altro problema è rappresentato dagli organici sia dei magistrati, sia delle forze dell’ordine, sia degli agenti penitenziari (costretti questi ultimi a turni massacranti in situazioni di fortissimo stress) sia di personale preparato a quelle funzioni di prevenzione e controllo non solo del crimine ma delle situazioni potenzialmente criminali. Questo non sarebbe un arretramento delle garanzie, ma anzi sarebbe uno sviluppo di quelle prerogative che l’ordinamento democratico deve avere, ovvero: prevenire situazioni potenziali di danno per i cittadini e risocializzazione dei rei una volta scontata la pena. Non si potrà evitare la morte di alcune donne, ma si eviterà la carneficina in atto da anni senza che nessuno muova un dito. Non si potranno evitare tutti i suicidi in carcere ma sostenere che il “suicidio è un gesto insondabile” risulta vero solo in alcune circostanze e non certo quando la persona è reclusa e deve essere tenuta sotto controllo.
Il balzello informatico e la scelta suicida dell’avvocatura: il silenzio.
Unitamente a queste situazioni molto incrementate e diffuse di sostanziale illegalità dello Stato vi è la pretesa di questo trasformare gli avvocati in “ingegneri informatici” con tutto ciò che consegue. La cosa che da avvocato combatto e combatterò è l’assimilazione di un vizio dell’atto ad una “errata” o non corretta procedura di deposito telematico. Questa è una aberrazione che viola il sacro e indisponibile diritto di difesa che è promanazione del diritto dell’essere umano di potersi difendere e difendere i propri diritti. Nel settore penale per adesso (sino a 31.12.2023) vi è il c. d. doppio binario ma il “doppio binario” è essenziale per preservare le garanzie dei diritti ( e dei doveri) in questo Paese e non dobbiamo ridurre gli avvocati a qualcosa di simile ad un “ingegnare informatico” (peraltro maldestro). Abbiamo su questo specifico punto già scritto e non vogliamo ripeterci ma sia la informatizzazione sia i limiti dei diritti (che corrispondono a doveri dell’istituzione giudiziaria) negli atti di appello e nei ricorsi in cassazione meritano una ampia censura e meritano un rapido intervento della Corte Costituzionale a presidio dei principi inalienabili del sistema giuridico sia sostanziale sia processuale e dei diritti individuali e collettivi dei cittadini; tra i primi il diritto di difesa. La soluzione che guardi verso una concreta “velocizzazione” del processo (e del procedimento) è solo una: attuare una depenalizzazione dei reati minori e loro trasformazione in sanzioni amministrative con prospettive di concreto incasso da parte dello Stato. Inoltre, non vi è dubbio alcuno che, vi deve essere un concreto e cospicuo incremento degli organici dei magistrati e degli amministrativi. Altrimenti non vi è dubbio che lo spettro della prescrizione anche per reati gravi aleggerà (come aleggia) nelle aule di giustizia come un avvoltoio. Gli avvocati per primi, ma le Camere Penali Nazionali su questo non hanno la minima sensibilità e spiace dirlo, sanno che la prescrizione è un rimedio del sistema per eliminare una “patologia” dello stesso che è costituita dall’enorme ritardo nel processare un reo. La prescrizione non è una forma di definizione del procedimento e del processo ma una necessità dovuta alla lunghezza del sistema processuale; chi ha idea che sia una soluzione “assolutoria” erra in modo grave (qualcuno siede anche nei banchi parlamentari). L’istituto della prescrizione deve esserci perché è giusto che ci sia un baluardo alle violazione dei diritti processuali, ma deve costituire una eccezione, altrimenti, deforma il sistema in maniera irrimediabile. Abbiamo solo voluto fare un quadro di ciò che si rileva ogni giorno nelle aule giudiziarie e non abbiamo nessuna pretesa di completezza. Non abbiamo pretese di completezza, ma abbiamo la necessità, come cittadini ed operatori della giustizia, di risposte serie e rapide ad una deriva che è diretta verso uno scollamento sociale che a chi scrive (rimanendo così le cose) appare inevitabile e già in atto.