I due cardini del pensiero sallustiano, espressi dal Bellum Iugurthinum e dal De Bello Catilinae, sono rappresentati dall’analisi delle funzioni politiche nell’Urbe repubblicana, cariate dalla lunga usura di polarità negative: corruzione, concussione, et similia, che si ripetono senza soluzione di continuità, e il discorso dialogico che pertiene all’espressione retorica dei protagonisti politici (nelle forme distinte di esortazione, ragionamento, convincimento o ravvedimento), in quanto essi sono manifestazioni peculiari del I secolo a.C. Mai nessun autore ha osato concentrare nella riflessione storica la dimensione umana.
Probabilmente lo scenario sul quale poggiano queste riflessioni effimere presuppone che tali cardini reggano la porta del sogno repubblicano tradizionalista, e che Sallustio consideri il 43 a.C. come il preavviso della fine del sistema ormai in via di estinzione, o forse di definizione. Anche perché, al di là dei tempi, erano cambiati soprattutto gli uomini, sempre più affamati di prestigio e di vittorie. Una sintomatologia comune si ravvisa già al tempo degli Scipioni, che alla dottrina del recte loqui univano una nuova concezione del condottiero, leader assoluto e capo carismatico; tra questi possiamo annoverare senza dubbio Lucio Cornelio Silla che, racconta Sallustio nel Bellum Iugurthinum, era giunto in Africa in qualità di questore dopo anni di continui scambi di responsabilità tra il Senato e i magistrati assegnati a tali incarico, quando il comando delle operazioni era stato assegnato a Gaio Mario.
Nella parte finale dell’opera citata, trapelano, attraverso un lavoro di recupero e di ricerca storica (romanzata e non) le fasi concitate del confronto tra un mondo precostituito e un altro mondo, che oserei definire “costituito” nel suo divenire dominio romano. Entra dunque in gioco Bocco, il re dei Mauri, che, quantunque spalleggiato da Giugurta nell’arginare l’offensiva del nemico, chiede di trattare una pace separata con i romani, dopo aver subito un attacco. Gaio Mario, stremato da questa continua titubanza, convinto che il cambiamento strategico fosse l’unica strada percorribile per la sua carriera, e per il Senato in ambasce, deciderà di inviargli due dei suoi uomini di fiducia: Silla e Manlio. Allora lo storico sabino blocca il fluire della narrazione storica (quella propriamente tucididea, realizzata dalla raccolta di testimonianze dirette, ammesso che le testimonianze riutilizzate da Sallustio possano considerarsi dirette) e lascia che si sedimentino nella mente del lettore migliaia di truppe acquartierate, prodigandosi di tratteggiare brevemente la levatura e lo spessore morale di Silla, visto che l’occasione gli sembra propizia: idoneum visum est de natura cultuque eius paucis dicere.
Sul ritratto delineato, è doveroso ricordare che Sallustio abbia utilizzato la tipica struttura del ritratto paradossale, che “intreccia sottilmente i contrasti per suscitare in modo vivido l’impressione di una complessità inestricabile, di una mescolanza strana, di una ricchezza insondabile e quasi demoniaca” sintetizzava in un suo saggio Antonio La Penna.
Di diverso contenuto e, parimenti, significato, è la composizione del “discorso” al capitolo CII (102), totalmente frutto dell’invectio narrativa sallustiana. I discorsi sallustiani sono quanto di più moderno potesse concepire un’opera storica del I secolo a.C. Stiamo parlando di una ricostruzione verosimile dei fatti accaduti, seppur tendenzialmente orientata verso un principio politico che voleva sottolineare l’eziologia della corruttibilità di Roma; essi, inoltre, hanno la straordinaria capacità di compenetrare le figure storiche nelle loro sfumature di personaggi realmente esistito.
Nel caso specifico del capitolo CII tutta l’attenzione si sposta quindi su Silla e identifichiamo la dispositio: la disposizione pragmatica dell’ordine dei pensieri, che cerca l’effetto sorpresa e, al contempo, di studiare l’interlocutore nella ricezione attiva delle parole; è una fase preziosa che permette di ricreare la verosimiglianza dell’evento; con il vocativo “Rex Bocche” Silla si rivolge proprio al re dei Mauri, mostrando un accondiscendenza artefatta, cercando di trascinare il nemico dalla sua parte: perciò Bocco diventa un virum optimum, distinto da Giugurta, la macchia contaminatrice dell’intero popolo africano, ritenuto alla stessa stregua di una malattia come si evince dall’uso del verbo commaculo.
Nelle parole successive leggiamo un prezioso concentrato della politica estera romana: Roma preferisce stipulare alleanze con i sudditi ben disposti piuttosto che ricorrere alla violenza. E questo rapporto è espresso dalle parole: nostra amicitia. Silla con un colpo di spugna cancella anni di inettitudine (e la retinenza); lo scandalo, che radicatosi in Roma aveva proliferato nell’animo dei consoli abietti, sembrano un ricordo lontano. L’intento del questore è quello di velocizzare la conclusione del conflitto; per cui prima Bocco viene elogiato, perché ha acconsentito all’incontro, dopo gli vengono esposti gli enormi vantaggi a cui incorrerebbe, se scegliesse di accettare l’offerta di Roma.
Tutto è costruito nel rispetto di una dinamica sottile e arguta: le parole che Silla rivolge al nobile interlocutore non conoscono esitazioni; né il dubbio che il re africano possa rinnegare la parola data sfiora la perentorietà del questore, la cui decisione, folgorante come un lampo, appare in tutta la sua forza nunc, quando per illam licet, festina atque uti coepisti perge (in questo momento, quando è possibile per mezzo della fortuna, non indugiare, e come hai previsto acutamente ora prosegui). A Bocco si consiglia dunque di proseguire verso questo favorevole proposito, ricordandogli che, se prima il suo agire fosse stato diverso, avrebbe ricevuto più vantaggi dal popolo romano che tormenti subiti: profecto ex populo Romano multa plura bona accepisses quam mala perpessus es. Dunque il nostro “oratore” mostra da un lato la clemenza di Roma e dall’altro l’autorevolezza del suo agire, che non conosce più attese indarne. Egli oscilla tra quello che sarà il concretizzarsi del suo verbum actionis e quello che sarebbe potuto essere, se all’origine di questo conflitto avesse optato per un accordo con Gaio Mario.
Infine, chi scrive – sarebbe difficile non farci caso – lascia trasparire la sua presenza seminando tracce nel racconto degli episodi che analizza e rievoca. Seppur in qualche frangente si potrebbe presagire già l’inizio di caratteristiche narrative che si sarebbero consolidate solo molto tempo dopo nella letteratura latina, scovando nuovi generi (vedi Petronio, Apuleio con il romanzo) e perfino nella letteratura italiana.
Alludo anche alla costruzione dei personaggi che spesso accennano a riferirsi a quel patrimonio di nozioni filosofiche e morali, pertinenti alla rerum cognitio Sallusti. Si veda sempre nel medesimo capitolo, facendo un salto un po’ più indietro, Silla che dice: “Sed quoniam humanarum rerum fortuna pleraque regit, cui scilicet placuit et vim et gratiam nostram te experiri…”. Qui è Sallustio a lasciar trasparire il ruolo della fortuna come moderatrice degli avvenimenti umani, che ha acconsentito a rendere percepibili ai Nùmidi la forza e la benevolenza romana. L’autore sabino del resto lo ha fatto, rispettando i dettami dell’etica e della morale romana (come suona perentorio quel nostram), già precedentemente nel proemio, attribuendo a questo aspetto della vita un valore ben più alto della protezione degli dei, a cui si riservava una cieca fiducia. Tutto dipende dall’uomo: Sallustio propende per una visione irrazionale degli eventi, e un cosmo romano di forze romane e polarità positive, che possa riflettere la sua sacralità hic et nunc.
Solo tramite lo studio della fortuna potremo valutare sia l’impatto che Sallustio ebbe negli storici a lui successivi, sia il lascito intellettuale e filosofico dato agli interpreti del pensiero classico, quando proprio nello studio degli antichi si credeva di riuscire ad ottenere gli strumenti per comprendere meglio il presente. Fatto ormai episodico e casuale, ma non per questo inutile.