Il quinto capitolo del terzo tomo del Fermo e Lucia, del 28 novembre del 1822, si apre con un paragone, che è un ricordo e un’immagine di una scena di famiglia, ma vuol dire dell’impossibilità per uno scrittore di rappresentare la realtà nel suo svolgersi sempre fatto di vicende che avvengono in luoghi diversi e nello stesso tempo. Manzoni paragona il suo giuoco letterario a quello del figlioletto che non riesce a far rientrare nel covile secondo la sua volontà i porcellini d’India con cui ha giocato e alla fine lascia che vadano come vogliono: «Ho visto più volte un caro fanciullo, (vispo a dir vero più del bisogno, ma che a tutti i segnali promette d’essere un galantuomo) l’ho visto affaccendato sulla sera, a cacciare al coperto un suo gregge di porcellini d’India che egli aveva lasciato spaziare il giorno in un giardinetto. Il fanticino avrebbe voluto farli andar tutti di brigata al covile, ma era fatica perduta; uno si sbandava a destra, e mentre il picciolo pastore correva per raggiungerlo, un altre, due tre, uscivano dalla frotta a sinistra; dopo qualche impazienza egli si persuadeva che non sarebbe riuscito a quel modo; spingeva dentro prima i più vicini, e poi tornava a pigliar gli altri ad uno a due a tre, come gli veniva fatto. Così pure abbiamo dovuto far noi coi nostri personaggi».
Il racconto torna quasi del tutto identico nel capitolo XI di I promessi sposi del 1827: «Ho visto più volte un caro fanciullo, vispo a dir vero più del bisogno, ma che a tutti i segnali mostra di voler riuscire un galantuomo, l’ho, dico, veduto più volte affaccendato sulla sera a cacciare al coperto un suo gregge di porcellini d’India che aveva lasciati spaziare il giorno in un giardinetto. Avrebb’egli voluto fargli andar tutti di brigata al covile; ma l’era fatica indarno: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per cacciarlo in ischiera, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Di modo che, dopo essersi un po’ impazientito, s’adattava al modo loro, spingeva prima dentro quei che eran più presso all’uscio, poi andava a pigliar gli altri, a uno, a due, a tre, come gli veniva fatto. Un gioco simile ci è forza di fare coi nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; ed ora lo dobbiamo abbandonare, per dar ricapito a Renzo, che ci si para dinanzi».
Nel capitolo XI di I Promessi sposi del 1840 Manzoni si ripete quasi del tutto: «Ho visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del bisogno. ma, che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo, l’ho visto, dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un gregge di porcellini d’India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in un giardinetto. Avrebbe voluto fargli andar tutti insieme al covile; ma era fatica buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Dimodoché, dopo essersi un po’ impazientito, s’adattava al loro genio, spingeva prima dentro quelli ch’eran vicini all’uscio, poi andava a prender gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva. Un gioco simile ci convien fare co’ nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; e ora lo dobbiamo abbandonare, per andar dietro a Renzo, che avevam perduto di vista».
Il significato è che, se è impossibile rappresentare la realtà nella contemporaneità dei suoi momenti, possiamo anche capire come sia impossibile avere il controllo dei fatti nella realtà della vita. Chi è padrone dell’azione? Non l’autore, che sembra dominato dai suoi personaggi. Ma questi certamente sono ben lungi dall’avere il controllo delle proprie azioni. Sulla rappresentatività storica, sia degli umili che dei potenti, Manzoni nei Promessi sposi giungerà a una puntualizzazione che non possiamo non sentire come frutto di una pensosa consapevolezza del fondo casuale, conflittuale e tragico insieme dell’esistenza e della storia degli uomini. Sottolineando la coincidenza cronologica della svolta decisiva nella loro vita, la peste per don Rodrigo e l’avvio del ciclo positivo della vicenda di Renzo, scrive: «Lasciando ora questo nel soggiorno de’ guai, dobbiamo andare in cerca di un altro, la cui storia non sarebbe mai stata intralciata con la sua, se lui non l’avesse voluto per forza: anzi si può dir di certo che non avrebbero avuto storia né l’uno né l’altro: Renzo voglio dire […]».
Ma ci colpisce il fatto che introduca la figura del figlioletto nel corpo del racconto. Un dato di realtà familiare nella narrazione! Ma sappiamo che il romanzo del Sette-Ottocento è spesso un esplicito dialogo dello scrittore coi suoi lettori. E quindi questo può parlare di sé e di persone vicine.
Si è spiegato che sia ricordato il figlio Enrico. Ma questo era nato nel luglio 1819. Che a meno di due anni giuocasse coi porcellini così come è descritto è piuttosto improbabile. Addirittura sappiamo che il bimbo veniva su gracile, in ritardo e malaticcio. Invece un altro figlio, il primo, Pier Luigi, era nato nel luglio del 1813 e veniva su bene e camminò da solo presto. Dobbiamo ritenere che Manzoni pensasse a questo. Ma io leggo questo ricordo del figlioletto, in profondo, come un segreto atto di devozione e di amore non solo verso di lui ma nei confronti della sua famiglia tutta, e, ancora più in profondo, come goduta immagine di sanità fisica e di libertà psichica nel suo mondo soggettivo e familiare, che non era stabilmente tale. Ma anche dobbiamo chiederci perché l’autore abbia voluto che un momento di letizia e serenità sia termine di paragone di vicende penose e amare. Forse per farne presagire il lieto fine?