21 settembre 1990. Sono passati esattamente tre decenni dalla morte di Rosario Livatino, magistrato siciliano morto per mano della Stidda, organizzazione criminale italiana e siciliana di tipo mafioso.
Quella mattina Livatino si trovava a bordo della sua rossa Ford Fiesta, ed era in viaggio da Canicattì, città in cui risiedeva, verso Agrigento; si trovava sul viadotto San Benedetto, a tre chilometri dalla Valle dei Templi. Poi il fatto: degli uomini della mafia lo hanno avvicinato, braccato e ucciso con numerosi colpi di pistola. Nonostante il suo tentativo di fuga, è stato tutto inutile. Il magistrato avrebbe compiuto 38 anni, di lì a poco.
Livatino sarebbe stato ammazzato perché “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”. Questo quanto stato riportato dalla sentenza.
Si era occupato di quella che sarebbe divenuta la “Tangentopoli siciliana” e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni.
“Il giudice oltre che essere, deve anche apparire indipendente. È importante che egli offra di se stesso l’immagine non di persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di persona seria, di persona equilibrata, di persona responsabile, di persona comprensiva e umana, capace di condannare, ma anche di capire. Soltanto se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare ch’egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha“. Queste le parole dello stesso Livatino, parole che non sono mai rimaste astratte, ma che sono sempre state messe in atto, che il magistrato ha saputo trasformare in realtà, con un grande senso di responsabilità. Ed è stato proprio quest’ultimo ad avergli fatto perdere la vita, sorte che lo ha accomunato, purtroppo, a tanti altri suoi colleghi prima e dopo di lui: Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Pino Puglisi, Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, solo per citarne alcuni.
Proprio per ricordare questo tragico fatto, nella giornata di oggi, 21 settembre 2020, tante saranno le iniziative in suo onore e le città che lo ricorderanno con una commemorazione: Canicattì, Roma e Palermo, città quest’ultima nella quale sarà presente il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella; la cerimonia avrà luogo oggi pomeriggio al Palazzo di Giustizia. Per l’occasione Mattarella, prenderà parte a un seminario sul tema della deontologia e la professionalità del magistrato.
In tanti lo ricordano come un uomo sobrio e straordinariamente solidale e con un grande senso del dovere, a cominciare dal Monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace che ha definito Livatino un magistrato “umile, riservato, laboriosissimo: un esempio per tutti” e che proprio per queste sue doti ha postulato la causa della sua beatificazione, ancora in itinere.
Livatino era infatti un uomo dalla grande religiosità, per il quale Codice e Vangelo costituivano un tutt’uno; e forse era proprio questa tale sua solida interiorità spirituale, a dargli la forza di compiere ciò che compiva quotidianamente; era questo suo senso di missione a renderlo un modello per tanti “comuni” mortali. Tutto ciò ne ha fatto un uomo degno di memoria, un “martire della giustizia e indirettamente della fede“, come lo hanno definito Giovanni Paolo II e in seguito Papa Francesco.
Uomini come lui ci devono dunque far riflettere su quanto siano importanti le scelte individuali, che spesso hanno un costo molto alto; ma sono proprio queste ultime a definirci, a renderci migliori, a immortalare la nostra vera essenza. Queste non moriranno mai, ma continueranno a camminare sulle spalle di chi verrà dopo.