Sallustio e la guerra giugurtina: Cur? Quomodo? Quando?

Articolo di Filippo Scimé

Il Bellum Iugurthinum, scritto presumibilmente dopo il 43 a. C., stabilisce una connessione fra due tematiche (passato remoto e presente futuribile) che ricreano uno sfondo di eventi oltremodo lontani e ormai dimenticati (la guerra contro Giugurta e le schermaglie militari a essa congiunte), rispetto al presente vissuto dall’autore (la guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio). Pertanto, alla narrazione di un fatto, considerato dall’autore di elevata importanza e di mutevole complessità nella storia di Roma, si congiunge la prima analisi fisiologica del decadimento del costume e della vita politica romana, anteriormente alla maturazione della coscienza storica sui medesimi argomenti nel Tacito degli Annales. Il rapporto tra Sallustio e l’arco di storia indagato potrebbe essere approfondito cercando di rispondere a tre domande, poste dai seguenti avverbi interrogativi: Cur? Quomodo? Quando?

Pertanto ci chiediamo: Cur? Vale a dire perché Sallustio si occupa di storia con la ricostruzione di fatti accaduti in uno spazio-tempo distante dagli ultimi palpiti repubblicani e limitatamente accessibile sulla base delle fonti esigue?

Una spiegazione differente, evitando di riflettere sulle considerazioni personali espresse dall’aquilano sul proemio, indurrebbe a considerare una serie di motivazioni quali: l’opportunità di concentrare le proprie energie mentali su un archetipo di storiografia diverso dal passato; il desiderio di diventare uno scrittore, riprendendo un sogno nel cassetto e celando la frustrazione per una disastrosa carriera politica; o ancora la curiosità di capire gli ingranaggi della res pubblica, da vetus ossia da esperto, in quanto il cammino della vita ha temprato le asperità del suo tragitto, una volta approdato a un punto di osservazione diverso. Giugurta porta in sé il germe di una contaminazione che probabilmente ha infettato Lucio Sergio Catilina in qualità di homo appartenente alla nobilitas (l’unica classe operante secondo pratica virtuosa nello spazio politico sociale) e non nelle vesti di destabilizzatore dell’ordine costituito.

In merito all’actio historiae forse l’ultima tra le opzioni dapprima delineate può essere in un certo qual modo valida, a patto che si scinda l’uomo dallo storico. Non è infatti l’uomo che scrive di storia, ma lo storico, da intendersi come un nuovo personaggio nel panorama letterario in grado di esularsi dalla massa, esercitando la nobile attività di rievocare le azioni altrui; di disconoscere il proprio passato politico, anzi tracciarne uno completamente rinnovato e tutt’al più lontano dal fazionismo (almeno nel Bellum Iugurthinum): perseverando in questo scopo soltanto può contribuire al bene del suo popolo; in tal maniera, Sallustio ha elevato la ragione morale, sottomettendo l’ego personale.

Detto ciò, tra i motivi avanzati non va taciuta la struttura dell’impianto storiografico, supportato dalla sbalorditiva abilità con la quale un uomo politico, all’apice della sua maturità intellettuale, analizza aspetti e problemi lontani dall’ordinarietà dei suoi impegni. I secoli successivi, e soprattutto la protezione dell’alveo moralistico cristiano (che ne ha garantito una conservazione a lunga durata, al contrario del povero Lucrezio marchiato come materialista), ci offrono la possibilità di constatare che Sallustio riuscì nel suo intento con l’orgoglio di homo novus, legato perciò alla tradizionale prassi del cursus honorum vista unicamente in funzione del prestigio personale: prassi non dissimile alla nostra contemporaneità (O tempora, o mores).

Quomodo? Vale a dire in che modo utilizza il materiale storico a sua disposizione; a quale “porto” intende approdare? Da un punto di vista tecnico non abbiamo la minima idea di come lavorasse Sallustio; siamo assolutamente certi, però, che, nell’elaborazione del suo materiale (almeno nella seconda delle sue monografie) egli abbia utilizzato fonti greche e latine, provenienti da testi sondati, raccolti, e sequestrati durante la campagna di Numidia (47-45 a.C.). Al contrario di quanto potrebbe accadere sul testo di uno storico, e delle riffe che potrebbero causare date o attribuzioni errate, la lettura e l’analisi delle opere sallustiane è servita maggiormente a inquadrare il periodo storico vissuto dall’autore (la sua contemporaneità) più di quello descritto. Son propenso a ritenere che Sallustio sia una meravigliosa proiezione della temperie culturale del I secolo a.C. Infatti la sua storia è inefficace se vogliamo cercare appigli storico-geografici o identificazioni di momenti, che inevitabilmente vennero compressi, perché il corso storico degli eventi avesse importanza solo nella misura in cui poteva infondere nei lettori i crismi dell’etica repubblicana tradizionale. Quindi ampio spazio era concesso all’agire umano dei protagonisti sul proscenio della storia.

L’esempio presentato da Giugurta era indubbiamente il caso migliore per approfondire l’insanabile frattura che aveva allontanato le classi sociali e deteriorato gli antichi costumi. Giugurta, ancora, è un diamante sulle cui facce è proiettata la decadenza della classe politica romana; quindi funge da leva (o tagliola) per capire la miseria umana e politica circostante: Lucio Calpurnio Bestia; Caio Bebio; Metello; Mario; riflessi della decadenza. E la medesima decodificazione è testimoniata dall’abilissima tecnica di Sallustio nella creazione di discorsi (non documenti autentici, ma libere composizioni), che esprimono la personalità storica dell’oratore in questione e ne tratteggiano il pensiero, che non di rado si appresta anche a definizioni psicologiche.

Dunque il linguaggio storico assume diversi connotati (etico-morale, sociale, psicoanalitico) convertendosi in interpretazione pitica dei cardini del pensiero sallustiano: tre sono i mali che affliggono la grande Roma avaritia, superbia, ambitio; la proliferazione dei seguenti mali non dipende dalla sorte, ma dall’assenza di virtus. L’incapacità della classe politica di conservare il patrimonio repubblicano nel momento di massima grandezza aveva generato una decadenza della quale se ne intravedevano gli effetti (a maggior ragione dopo la morte di Cesare!). Che lo stato di cose principiasse da Giugurta, poco importa: il problema permaneva comunque ed era strettamente legato al genus Romanus.

Quando? Vale a dire quando Sallustio decide di scrivere. credo si possano tracciare due momenti: un tempo biologico e un tempo storico. Il tempo biologico (o meglio ancora psicologico) è il momento in cui l’uomo, constatata l’inutilità della politica nell’accezione di servizio della cosa pubblica, decide di diventare uno storico di professione, e contemporaneamente di giustificare la sua nuova scelta (rinnegando l’habitus di politico colluso e decaduto). Questo passaggio si concretizza unicamente nell’ottica dell’otium, tempo prolifico per la costante ricerca della gloria e del bene per il popolo. Un’interpretazione coercitiva dell’impiego assunto è giustificata anche dalla breve visione della politica contemporanea che Sallustio offre nella Guerra Giugurtina (IV, 5), laddove, alla critica che gli si riserva, lo storico risponde che la presenza di gentaglia nei posti di rilievo della res publica ai suoi tempi (beffardamente considerata indegna) è la prova della bontà dell’inazione, della contemplazione che non poggia sui danni combinati dall’omonima classe politica, ma sull’origine di essi.

Per quanto riguarda il tempo storico, è noto, analizzando i brandelli della vita pubblica di Sallustio, che lo storico latino fosse spregiudicato nella vita pubblica e in quella privata (come attestano le riflessioni nel proemio della guerra con Giugurta), subendo conseguenze pesanti nell’una e nell’altra; infatti, se nella vita pubblica patì l’onta dell’espulsione dal Senato e rischiò una condanna per malversazione, anche nella vita privata le fonti attestano che pagò molto cara l’inimicizia politica e personale nei confronti di Milone. In fin dei conti è con la morte di Cesare che ebbe termine l’attività politica di Sallustio, e così nel lasso di tempo che intercorre tra la pugnalata di Trebonio per prima e quella di Cassio per ultima, l’anonima stella del senatore Sallustio bruciò ardentemente fino a spegnersi su di un cielo che avrebbe conosciuto l’astro lucente di Ottaviano (solo dal 27 a.C. Augusto) per quarantuno lunghissimi anni. La scia dello storico, al contrario, durò eternamente e proprio in questa sommessa fuga, in questo tacito celarsi, la scrittura storica potrebbe anche essere intesa come fuga, l’unica via praticabile in un contesto politico impraticabile.

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