“Sciacquare i panni in Arno”: Alessandro Manzoni e la Questione della lingua

Articolo di Armando Giardinetto

Già Dante Alighieri, con il “De vulgari eloquentia” (1304-1307), si chiedeva quale dei 14 volgari da lui individuati potesse essere usato dignitosamente dagli scrittori nelle opere letterarie. Con le “Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua”, poi, scritta dal cardinale Pietro Bembo e pubblicata nel 1525, continuerà la disputa in tal senso. Bembo, che possedeva l’autografo del Canzoniere di Petrarca, propose il toscano delle Tre Corone della letteratura italiana (Dante, Petrarca e Boccaccio) come lingua unica da adottare per scrivere i testi letterari in Italia e redasse una grammatica del toscano fondata sulle opere soprattutto dell’Aretino, utile per scrivere i testi poetici, e di Boccaccio, utile per scrivere in prosa. A queste due sopraccitate opere bisogna aggiungerne un’altra, “I Promessi sposi”, che è un romanzo storico famosissimo in tutto il mondo, un best-seller della nostra letteratura. In soli 13 anni, 1827 – 1840, secondo alcune stime, Manzoni vendette più di duecentomila copie (La Repubblica, 1989). Il Teatro, prima, e la televisione dopo hanno contribuito al successo di questo testo molto importante, non solo perché ci dà una chiara panoramica della nostra storia in un determinato periodo – il XVII secolo italiano – ma anche perché contribuisce, insieme alle suddette opere, a quella che viene chiamata dagli studiosi “Questione della lingua”: secolare dibattito su quale modello linguistico prendere in considerazione per scrivere testi letterari in Italia. Va subito detto che la mancata unificazione politica dell’Italia aveva fatto in modo che non ci fosse una lingua nazionale che invece esisteva, per esempio, in Francia. Di fatti, quando poi ci fu l’unificazione del Paese, nel 1861, ci si ritrovò senza una lingua propriamente nazionale. Quando si parla de “I Promessi Sposi”, ci viene da pensare subito all’autore che naturalmente non ha bisogno di particolari presentazioni. Alessandro Manzoni, infatti, è nella rosa degli scrittori-romanzieri, poeti, drammaturgi più grandi che l’Italia abbia mai avuto e di cui gli italiani ne vanno orgogliosamente fieri. Nato a Milano nel 1785, Manzoni visse una vita lunga e non proprio facile; morì il 22 maggio del 1873 nella medesima città e i suoi maestosi funerali, celebrati al Duomo di Milano una settimana dopo la morte, sono passati alla storia: “Per le strade un gridio di venditori di fotografie del gran poeta, di ritratti d’ogni formato, d’ogni prezzo… Le pareti delle case erano tappezzate di avvisi portanti il nome del Manzoni… Gli uomini erano tutti nelle vie, e metà Milano, a non esagerare, volle seguire il feretro… A mezzodì il feretro, preceduto dalle cento bandiere delle scuole e delle associazioni operaie e dalle rappresentanze italiane, avviavasi al Cimitero Monumentale, passando per le vie maggiori”. La Questione della lingua lega imprescindibilmente grandi personaggi della nostra letteratura che si sono dedicati a questo specifico studio tra cui Dante, Leon Battista Alberti, Bembo, Trissino, Machiavelli, Varchi, Cesarotti e Alessandro Manzoni. Nell’Ottocento tutti avevano l’idea chiara sul fatto che il volgare toscano – in forma scritta – si diffuse grazie alle molteplici strade percorse con successo dalle opere delle Tre Corone della letteratura italiana. Tuttavia gli scrittori, nella fattispecie i prosatori ottocenteschi, riscontrarono una serie di problematiche legate alla lingua da usare per scrivere i testi e Manzoni rientra in questa categoria. Alla fine della prima stesura de I Promessi sposi (1821), intitolata “Fermo e Lucia”, Alessandro Manzoni era certo che il suo romanzo – scritto un po’ in lombardo, un poco in toscano, un po’ in francese e con alcune frasi in latino – fosse linguisticamente imperfetto, infatti lo definì un “composto indigesto”. Pertanto nel 1824 l’Autore riprese il testo e, facendo una revisione, tradusse in toscano dell’uso vivo le parole, le espressioni e le frasi presenti in dialetto lombardo e in toscano letterario ma, come è risaputo, non era ancora contento del risultato ottenuto con la “Ventisettana”, decise così di andare a “sciacquare i panni in Arno”: andò in Toscana e soggiornò soprattutto a Firenze, dove ebbe a che fare con i fiorentini, parlava con loro e ascoltava attentamente la lingua, le parole, le espressioni usate. Inoltre si servì di una fonte vivente molto vicina a lui, la fiorentina Emilia Luti – governante delle sue figlie – alla quale fece moltissime domande riguardante il fiorentino dell’uso vivo, soffermandosi soprattutto sul lessico. La Luti, borghese nemmeno poi tanto colta, collaborò con lo scrittore con tanta disponibilità infatti, in segno di gratitudine, alla fine della ricerca linguistica Manzoni le regalerà una copia de I Promessi sposi. Da qui inizia la definitiva revisione del romanzo – terza versione – che uscirà nel 1840 e sarà scritto in lingua toscana dell’uso vivo e reale, cioè la lingua di tutti i giorni parlata dai fiorentini. In Migliorini 2001:551 si può leggere: “Egli sostituisce… parole e locuzioni letterarie con un linguaggio più popolare, come ad esempio entrambi con tutt’e due, oppure confabulare con chiacchierare, modifica le varianti fonetiche: dimandare con domandare”.

Lo scrittore milanese, allora, arriva a capire che la crisi linguistica dell’Italia di quel periodo, sofferta soprattutto dai prosatori, aveva finalmente vita breve dal momento che la soluzione stava nell’adottare il fiorentino dell’uso vivo come lingua letteraria, sostituendo talvolta anche le parole usate dagli antichi scrittori con la forma linguistica attuale, ossia in voga in quel momento. Questa sua idea, che vedeva il toscano dell’uso vivo e reale come lingua nazionale – che mise l’autore stesso in una posizione di studio a 360° sulla lingua e sulle lingue in generale – la sviluppò e la difese in un saggio composto in quasi tre decenni (1830 – 1859) e mai terminato: “Della lingua italiana”.

Per Alessandro Manzoni, dunque, la lingua doveva essere un fenomeno sociale e non solo letterale, di fatti se già gli scrittori usavano il toscano per le loro opere, si trattava solo di un’unificazione linguistica del parlato; per lui la lingua doveva essere il mezzo attraverso il quale la popolazione si esprime e riesce a soddisfare linguisticamente le circostanze della vita. Inoltre pensava che nelle scuole elementari dovessero esserci maestri prettamente toscani; che nelle scuole ci fossero vocabolari della lingua italiana su stampo fiorentino dell’uso vivo (“Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze”); che si studiasse la Commedia e che gli studenti dovessero intraprendere dei viaggi-studio in Toscana, a Firenze, combattendo così l’analfabetismo che dilagava. Alessandro Manzoni, in conclusione, si interessò allo studio della lingua sin da quando aveva all’incirca vent’anni e sin da allora l’italiano gli sembrava una lingua morta messa a confronto con il francese che, sorto dal parigino, invece, veniva usato in Francia nella vita reale di tutti i giorni, in teatro e nei testi letterari. A rigor di questi suoi studi, durati moltissimi anni, seppur criticati da molti altri intellettuali dell’epoca, dopo l’Unità d’Italia, nelle scuole del Regno d’Italia fu adottato il fiorentino come lingua da studiare e da esso discende il nostro italiano contemporaneo. Solo qualche decennio più tardi nasceva la linguistica che è lo studio scientifico del linguaggio verbale dell’essere umano.

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