Il settore dell’abbigliamento è da anni sotto attacco da parte di numerose associazioni che denunciano lo sfruttamento e le condizioni di lavoro (spesso al limite della schiavitù e dello sfruttamento minorile) di chi realmente produce i capi che vengono venuti in Europa, negli USA e in molti altri paesi del mondo.
Ora una ricerca condotta dal Center for Global Workers ‘Rights (CGWR) e del Worker Rights Consortium (WRC), utilizzando database inediti, avrebbe dimostrato che molti grandi marchi del settore della moda e dell’abbigliamento avrebbero scaricato le perdite dovute al lockdown (almeno 16,2 miliardi di dollari tra aprile e nel giugno 2020) sulle spalle dei fornitori e dei lavoratori.
Che molti capi venduti dai grandi marchi o dalle aziende di moda statunitensi ed europee sono prodotti nelle fabbriche in paesi come il Bangladesh, la Cambogia e il Myanmar non è una novità. Ma il mercato dell’abbigliamento è strettamente legato alle stagioni. Ciò ha fatto sì che la maggior parte dei capi non venduti nel periodo marzo-luglio ovvero quello della chiusura della maggior parte dei negozi è rimasta invenduta o invendibile.
La decisione di molte multinazionali del tessile è stata semplicisticamente di annullare gli ordini già prodotti o, peggio, rifiutarsi di pagare gli ordini precedenti lo scoppio della pandemia. Una decisione che ha avuto conseguenze devastanti su milioni di lavoratori già costretti ad affrontare orari ridotti e salari da fame. Secondo il rapporto, almeno 60 milioni di lavoratori di questo settore, di cui l’80% donne (spesso sottopagate rispetto ai colleghi uomini), sono rimasti senza stipendio o con salari così bassi da non permettere la sopravvivenza. In Bangladesh, ad esempio, il 72% dei lavoratori sono stati licenziati (buona parte dei quali senza preavviso già a marzo). Nello Sri Lanka, lockdown imposto dal governo ha creato danni enormi all’industria dell’abbigliamento (che in questo paese occupa 275.000 lavoratori, la maggior parte donne migranti provenienti dalle zone rurali). In Sud Africa, oltre 725.000 richieste di sussidi da parte di lavoratori del settore sono state congelate a causa della mancanza di documentazione da parte dei datori di lavoro in attesa che il Fondo di assicurazione contro la disoccupazione possa analizzare le loro pratiche e capire se i loro salari sono mai stati realmente pagamenti. “Si presume che ci siano aziende che non hanno pagato ai lavoratori quanto dovuto. Siamo a conoscenza di alcune società che presumibilmente prestano i soldi ai dipendenti e ciò non è legale. Siamo anche a conoscenza di altre società che stanno presumibilmente pagando parte del denaro e non l’intero importo, nonché società che utilizzano il denaro per qualcos’altro oltre allo scopo previsto. Se tutte queste accuse sono vere, ci appelliamo alle aziende a fare ancora la cosa giusta”, ha dichiarato il ministro del Lavoro e del Lavoro Thulas Nxesi.
Secondo Clean Clothes Campaign, tra salari non pagati, bonus e risarcimenti non pagati, solo durante i primi tre mesi della pandemia, dalle buste paga dei lavoratori dell’abbigliamento sarebbero scomparsi tra 3,2 e 5,8 miliardi di dollari. Per questo ha lanciato una campagna chiamata “Pay Your Workers” destinata principalmente a far sì che alcuni grandi nomi dell’abbigliamento decidano di pagare ai propri dipendenti gli stipendi concordati. “Questa campagna si rivolge ad alcune delle catene di fornitura di abbigliamento più ricche del mondo”, ha detto Ineke Zeldenrust di Clean Clothes Campaign, citando tra i nomi più famosi dell’abbigliamento sportivo. “Marchi che hanno realizzato profitti per decenni sulla base di salari di povertà e responsabilità esternalizzate senza contribuire a nessuna forma di protezione sociale nei paesi produttori di abbigliamento. La nostra campagna mira a reclamare fondi per i lavoratori, convincendo i marchi ad assumersi la responsabilità per le persone che hanno consentito grandi profitti attraverso il loro lavoro sottopagato”.
Blande le giustificazioni dia alcuni dei colossi della grande distribuzione dell’abbigliamento: secondo loro tutte le parti della filiera dell’abbigliamento avrebbero subito danni dal Covid-19. E le perdite delle fabbriche sarebbero dovute al fatto che spesso operano con “margini sottili come un rasoio” e “hanno molta meno capacità di assumersi un tale peso rispetto ai clienti”.
I numeri dicono che non è così: nonostante il periodo di crisi, molte di queste multinazionali hanno versato milioni di dividendi ai propri azionisti. A marzo, a pandemia già iniziata, Kohl’s, uno dei maggiori rivenditori di abbigliamento degli Stati Uniti, ha versato ben 109 milioni di dollari di dividendi ai propri azionisti. Dimenticando che, solo poche settimane prima, aveva annullato ordini ai produttori in vari paesi dove centinaia di migliaia di lavoratori sono rimasti senza paga e, a causa della pandemia, senza nessuna possibilità di trovare un altro lavoro.
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