Un’epoca industriale tramontata fa da sfondo alle storie parallele del romanzo che Gordiano Lupi ha scritto a quattro mani con Cristina de Vita,Sogni e Altiforni (Acar Edizioni) e che porta un sottotitolo significativo: “Piombino-Trani senza ritorno”. Il romanzo in realtà si può considerare una storia unica che ha due punti di vista, per molti aspetti tali da combaciare. Il doppio racconto, intenso e coinvolgente nella sua dimensione elegiaca, è un recupero del tempo passato con i suoi ricordi, con le sue promesse e con i suoi sogni, con le sue attese e illusioni poi andate perdute ma con una carica che, nonostante il bilancio negativo del presente, continua ad alimentare le ragioni della vita. Nella consapevolezza che il passato siamo noi e che è per noi vitale il vivere con i ricordi, non di ricordi. (Paolo Ruffilli)
Alcuni brani dal libro: Termino la doccia, mi vesto, preparo la borsa e saluto Leonardi. Un’occhiata distratta al campo sintetico del Valentino Mazzola, dipinto d’un verde innaturale, e riparto alla volta di Piombino, il gigantesco altoforno sullo sfondo che nasconde il ricordo del volto di mio padre. Mi pare di sentirlo ancora ripetere, al tavolino, dando le spalle al mostro d’acciaio: “Mica vorrai finire là dentro, anche tu, figlio mio?”. No, papà. No che non ci volevo finire. E tu lo sapevi. Ero nato per non arrendermi e per lottare. Adesso che sono tornato resto un uomo insoddisfatto, senza la cosa più importante, senza il sogno che non avrei dovuto abbandonare. Non posso rinunciare a un panorama di lamiere contorte, a un gigante dai piedi d’argilla che si specchia sul lungomare, perché quel mostro senza vita resta la sola certezza della mia vita.
La mia generazione è nata con i finti tramonti dell’acciaieria, dispensati a ogni ora del giorno, ben dopo il crepuscolo, persino a notte fonda. Avevamo tutto da vincere e tutto da perdere, non immaginavamo che fosse possibile sbagliare quel che abbiamo sbagliato. Ma gli errori sono la vita, in fondo. E una vita senza errori è l’errore più grande. Abbiamo vissuto convinti che fosse così ovunque, un’infinita varietà di tramonti sui quali sognare a ogni ora del giorno, farsi riscaldare il cuore nei momenti di solitudine, perdersi cullando nenie di dolce abbandono. Il tramonto rosso sul mare e i tramonti della colata continua dell’Acciaieria, quel residuo ferroso maleodorante, ebbro di fascino antico, profumo di lavoro, sudore, lotte operaie, sentore di contestazioni e scioperi, licenziamenti ingiusti, fatica per andare avanti e sognare. Un sole rosso notturno che poteva persino commuovere, incomprensibile per una fredda borghesia vacanziera a caccia di ombrelloni e per il commesso viaggiatore in transito, mentre per noi era un momento fondamentale della vita, uno scadenzario del tempo, un simbolo delle ore che passavano lente. Tramonto e odore penetrante, frutto di braccia operaie, sudore di gente afferrata agli scogli che degradano al mare, prezzo da pagare per veri tramonti marini e paranze in canale a caccia di totani, nelle sere di bonaccia. Era un mondo compenetrato di mare e fumi, di acciaio e dolci sere d’autunno segnate dal maestrale, di libecciate impetuose e di scorie di ferro che volano nel vento, di sogni nati e sfumati con il triste scirocco, di maleodoranti mattine con il gusto amaro della fabbrica nelle narici. E c’era quel mare compagno delle nostre vite che ci ripagava di quel che mancava. Non avremmo mai cambiato i nostri tramonti, veri e irreali, con freddi lidi distanti dai nostri cuori.