Spell (Dolce mattatoio) (1976): vizi e virtù di un mondo piccolo

Articolo di Gordiano Lupi

Regia, Soggetto, Sceneggiatura, Montaggio: Alberto Cavallone. Fotografia: Giovanni Bonicelli (Eastmancolor). Scenografie: Joseph Teichner. Direttore di Produzione: Giuseppe Scavuzzo. Produzione: Nicolò Pomilia per Stefano Film. Distribuzione: Stefano Film. Musica: Claudio Tallino (Edizioni Musicali Aris). Aiuto Regista: Fabio Spaltro. Interni: Studi De Paolis. Durata: 103’. Interpreti: Jane Avril (Maria Pia Luzi), Martial Boschero, Angela Doria, Emanuele Guarino, Macha Magall, Aldo Massasso, Antonio Rea, Corrado Merani, Agostino Pilastri, Fabio Spaltro, Stefania Spugnini, Josiane Tanzilli, Monika Zanchi, Paola Montenero, Luigia Giuri, Nino Col, Mario Pasquarelli, Giulio Sepioni, Domenico Rizzo.

Spell (Dolce mattatoio) è stato rieditatocon il pirandelliano titolo de L’uomo, la donna e la bestia, ma resta un buon film con protagonista la provincia italiana, vizi e virtù di un mondo piccolo. Alberto Cavallone lo gira a casa propria – Castelnuovo di Porto – tra processioni, sagre di paese, bambini che giocano, inserti documentaristici e parti di pura fiction per raccontare il degrado della provincia. Un vagabondo arriva in paese e semina scompiglio – come il ragazzo del pasoliniano Teorema (1968) – tra situazioni marginali che vedono protagonisti molti abitanti e che sono lo specchio della realtà. Vediamo Monica Zanchi (ragazza del mese su Playboy 1976) nel ruolo di una giovane prostituta che se la fa con un integerrimo carabiniere ed è al centro dei sogni erotici di tutto il paese. Un perverso macellaio spia le ragazzine, si masturba con i quarti di bue, sogna di giocare a biliardo con la vulva della Zanchi, si chiude nella cella frigorifera con Jasmine Tanzilli che fugge via e pone un occhio animalesco nella vagina.

La sequenza che vede la Zanchi a vulva aperta sul tavolo da biliardo è stata realizzata in un vero bar, molto controvoglia; l’attrice pretese la presenza del solo attore maschio e di un operatore. Un intellettuale marxista (Pilastri) vive con la moglie pazza (Paola Montenero) che mangia nel bagno, beve l’acqua del water, scopa con il vagabondo e finisce per defecargli in bocca prima di massacrarlo a forbiciate. Si tratta della sequenza più estrema del film, ripresa in primo piano, ma il regista giura di averla realizzata con cioccolata e polenta. Ancora una volta si notano echi di Pasolini, del recente Salò (1975), opera postuma estrema e trasgressiva. La critica politica non può mancare: un giornale titola “Mao è morto” e il protagonista si rende conto che non è più tempo di credere al partito. Molte scene riprendono la vita di provincia, vera protagonista in negativo, tra osterie, parrocchie, Luna Park, bambini che giocano con la fionda e con il pallone nei campetti dell’oratorio.

Rapporto moglie – marito anni Settanta, quasi da padre padrone, tradimenti immaginati, masturbazioni nascoste, preti che nutrono sogni carnali, carabinieri corrotti che recitano da perfetti padri di famiglia. Il film è girato bene, ricco di particolari, a base di movimenti di macchina convulsi, anche se i dialoghi sono modesti e artefatti. L’atmosfera è torbida, sottolineata da un buon commento musicale e da affermazioni come “La realtà è l’unica medicina per andare avanti. Sognare non serve a niente”. Abbiamo una figlia messa incinta dal padre che vorrebbe scappare con lui ma finisce per restare in paese con i genitori d’accordo a organizzare un matrimonio con il primo che capita. Vizio, depravazione, immoralità, tra musica da balera e sensazioni forti, ubriachi che parlano di politica e follia individuale. Il dolce mattatoio è la provincia, l’inferno quotidiano dove quel che conta è sopravvivere, tra parti oniriche che ritraggono sogni libidinosi inconfessabili come far l’amore con il prete che si toglie la tonaca o con un ragazzino di passaggio.

Il regista a un certo punto comunica un suo pensiero tramite un personaggio: “Non ho ancora capito se il mio è un lavoro serio. Forse bisognerebbe pensare solo alla realtà. Sono stanco di ricevere bidoni al posto della realtà. Ne ho abbastanza dei preservativi sulle idee”. Un erotismo malsano la fa da padrone tra echi surrealisti, dipinti con la testa di Lenin sulla vulva femminile, corpi nudi che si riflettono sugli specchi, un gallo che canta e scandisce il passare del tempo.

Jane Avril esce sconvolta dall’interpretazione di Spell, va in crisi per una lunga scena erotica – non prevista in sceneggiatura – con Martial Boschero, discute con il marito-regista per mezza giornata, poi la interpreta, ma come reazione non farà più cinema. Maria Pia Luzi si dedica a pittura e scrittura, rifiuta offerte successive di ruoli erotici, esce in maniera improvvisa – al massimo del successo e della bellezza – dal mondo della celluloide.

Un film che non consente mezze misure: si ama o si odia. Manlio Gomarasca scrive su Nocturno: “Cavallone cuoce un sublime piatto di lucida follia in cui si fondono insieme Bataille e merda, falsa ideologia comunista e la lingua serpeggiante di Monika Zanchi, la vagina occhiuta di Jasmine Tanzilli, con i quarti di manzo scopati dal macellaio”. Per Delirium è a livelli sublimi, un’opera maestra come Viva la muerte di Fernando Arrabal o La morte ha fatto l’uovo di Giulio Questi. A nostro avviso un lavoro pirandelliano, una commedia di maschere, ma anche guareschiano, con la figure del prete che convince i ragazzini a vendere i biglietti della lotteria e i comunisti con L’Unità piegata sotto un braccio.

Impossibile non citare Pasolini per i molti riferimenti, dal vagabondo che sconvolge la quiete del paese alla merda ingurgitata dal ragazzo prima dell’eccidio. Fellini fa capolino nel finale, quando il ragazzino abbandona il paese di notte e si ferma con lo sguardo fisso nella macchina da presa. Come non ricordare le ultime sequenze de I vitelloni (1953) quando Franco Interleghi-Moraldo, alter ego del regista – abbandona in treno la sua città di provincia? Autobiografia del regista che lascia il paese per tentare l’avventura intellettuale. Bataille con la Storia dell’occhio e De Sade con le mille perversioni tratte dai suoi libri, ma soprattutto da Le 120 giornate di Sodoma, sono fonti di sicura ispirazione, così come la rilettura del poeta maledetto francese Lautréamont.

Paolo Mereghetti concede tre stelle: “Probabilmente il film più riuscito e originale del regista-sceneggiatore milanese che mette in scena una violenza visiva inusitata, in cui la placida provincia viene fatta interagire con un surrealismo e un erotismo che all’epoca non facevano parte dell’immaginario dei mass media. Il discorso è alogico, ma inquietante e disturbante: un viaggio nel’inconscio e nei lati più oscuri che non ha uguali nel cinema italiano. Malsano, sincero e senza catarsi”. Sequestrato e poi dissequestrato con 12 metri di tagli nella lunga scena con Paola Montenero in piena performance erotica.

Alberto Cavallone confida a Nocturno Cinema, nel corso del documentario Surrealismo o estremismo (2007), confezionato da Pulici e Gomarasca: “Vivevo a castelnuovo di porto da sei anni e avevo visto tutte le feste paesane e le processioni. Mi rendevo conto che la grande festa annuale era lo scopo di tutto ed era un po’ come il carnevale medievale: tutto sembrava permesso. Feci un film partendo da questa idea. Inoltre spiegavo la provincia e infatti e piaciuto soprattutto in provincia, perché la gente si è riconosciuta, ha trovato un po’ della sua vita. In città, invece, non è stato capito e l’hanno visto in pochi. Ho girato un scena tratta da un funerale vero e molte sequenze in presa diretta.

Ero terrorizzato all’idea che gli abitanti di Castelnuovo vedessero il film e s’infuriassero. Invece la presero bene. Tutti, tranne il prete che non digerì il fatto di aver dovuto fermare il funerale per consentirmi di eseguire una ripresa migliore. Spell è cinema surrealista al cento per cento. Per una mia precisa scelta”. Maria Pia Luzi (Jane Avril) aggiunge: “Conobbi Alberto girando un Carosello della San Pellegrino. Fu un grande amore. Ci sposammo dopo cinque mesi di fidanzamento e dopo poco nacque un figlio: Giulio.

Io abbandonai i progetti che avevo con altri registi per interpretare diversi personaggi nei suoi film. Non è vero che Alberto fosse un autore estremo, aveva solo dei punti fermi, voleva girare film di denuncia sul modo di vivere nel mondo contemporaneo. Spell nasce dal fatto che Alberto conobbe a fondo la comunità di un piccolo paese, con tutti i pregi e i difetti, perché andammo a vivere a Castelnuovo di Porto. Spell è un film di denuncia intervallato da visioni oniriche che provenivano dal suo mondo immaginifico. Alberto mette il perbenismo alla berlina, sviscera nei particolari il rapporto coniugale, estremizzando il nostro rapporto quotidiano, le liti di tutti i giorni. Alberto amava prendere spunti dalla vita reale. Il mio ruolo in Spell è quello di una moglie apparentemente tranquilla, ma in realtà insoddisfatta, non realizzata. Ricordo un litigio durante una cena mentre prendo un pollo e lo squarto ma sembra che voglia scannare mio marito. Alla fine volavano piatti e c’erano scene d’isterismo.

In tutti i film di Alberto c’era sempre un’alternanza di serenità e tranquillità, violenza e crudezza. In fondo, rappresentavano la vita. Martial Boschero (il marito della Avril nel film, nda) era un professionista, una persona molto affabile. Lui soffriva perché tutti lo chiamavano il fratello di Dominique, di fatto attrice molto più famosa. Voleva bene alla sorella, ma avrebbe voluto essere stimato come doppiatore, attore (era tra gli interpreti preferiti di Alberto) e anche produttore. Un personaggio femminile con cui sono andata molto d’accordo era Macha Magall, meno con le altre, perché Monika Zanchi aveva tanti ammiratori e se ne stava sulle sue, mentre la Tanzilli era un tipino tutto pepe (simpatica), molto esibizionista, come Paola Montenero.

Ricordo la scena nel bar girata tra spettatori stralunati (Cavallone afferma che la Zanchi volle girarla alla presenza di un solo operatore, nda) e anche la parte finale con la Montenero mi ha scioccato parecchio. Alberto convinceva tutti a fare quel che voleva lui, anche le scene più difficili, convinse persino la Montenero a recitare la parte coprofaga. Io non volevo fare la scena a letto con Martial, perché era troppo spinta, ma mi convinse.

Quella scena mi ha fatto entrare in crisi con il cinema, al punto di smettere per interessarmi di pittura e scrittura. Mi dette fastidio averla fata su richiesta di mio marito e insieme a un amico come Martial. Non mi sentivo libera sul set con Alberto, perché non potevo discutere le sue scelte di fronte agli altri componenti della troupe. Finiva che – per non metterlo in cattiva luce – tacevo e accettavo le sue decisioni. Penso che Alberto fosse un genio, una persona molto preparata, all’avanguardia rispetto ai tempi, un grande contestatore di tutto ciò che non riteneva giusto. Non accettava tagli su parti politico – religiose. Era un ottimo regista”.

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