La vita è fatta di ricordi, di attimi che – pur essendo lontani e che si allontano per l’inesorabile passare del tempo – sembrano passati da poco. Ricordi che possono essere anche traumatizzanti, spiazzanti. La Strage di Capaci, dove morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo ed Antonio Montinaro è uno di questi.
Il 23 maggio del 1992 avevo 14 anni, ero prossimo ai 15. Mi si perdoni la prima persona – contraria agli insegnamenti ed ai dettami giornalistici ma ricordare le sensazioni di un quasi quindicenne in modo formale non mi sembra adeguato. Come molti miei coetanei avevo a che fare con le prime (dolorosissime cotte), la pochissima voglia di studiare (come dicono gli aulici non ne volevo “manco n’to bruaru”) e le mie passioni, lo sport ed i videogiochi.
Era sabato ed era sicuramente una bella giornata dal punto di vista meteorologico. Ci si preparava all’estate. Quel pomeriggio, quasi assonnato, era come tutti gli altri, guardavo la tv, mio padre (buon’anima) a fare i conti, mia madre in cucina, mia sorella a preparare un esame all’università. Quella che studiava era lei.
Poco dopo le 18 arrivarono le prime frammentarie notizie del fatto che avrebbe sconvolto molti di noi, una città, una nazione intera e, probabilmente, il mondo. Facendo zapping mi imbattei in Tgs che interruppe la pubblicità per un’edizione straordinaria. Un fatto veramente strano. C’era Angelo Morello in studio che ero abituato a sentire parlare del Palermo che era in viaggio per Avellino dove il giorno successivo avrebbe giocato e perso la sfida con gli irpini.
Era molto serio Morello, più del solito e con una serietà che va al di là della professionalità. C’era seria preoccupazione. Ed era insolito che un’emittente privata facesse una edizione straordinaria. Le prime informazioni frammentarie parlavano – ricordo quasi testualmente – di qualcosa di grave accaduto nei pressi delle Cementerie Siciliane. Chi è della zona sa che è un punto di riferimento e che è prossimo all’aeroporto (all’epoca si chiamava solamente Punta Raisi) e le brevi gallerie che poi portano in città. Si sapeva così poco che si parlava addirittura, presumibilmente, di colpi di bazooka.
Una cosa sconcertante. Mio padre mi invitò a girare fra i canali perché sicuramente era una cosa seria. Andammo su Rai3 anche perché pian piano era quasi l’orario del TG regionale. Ma cominciarono anche le edizioni straordinarie nazionali.
Rimanemmo di stucco: avevano colpito Falcone distruggendo, letteralmente, un pezzo di autostrada (la A29). Vedevo anche tanta confusione perché le notizie arrivavano in continuazione, sempre più dettagliate, sempre più tragiche. Difficile stargli dietro.
Non è facile per un giornalista rimanere asettici in questi momenti ed infatti nessuno, nessuno, riuscì ad esserlo. Del resto era umano. Era un colpo a tutti perché fino a quel momento credevamo che almeno Falcone fosse “intoccabile”. Era ben protetto. Ma evidentemente non fu così. Mio padre fece la domanda retorica “Chi lo ha tradito?”.
Da quasi 15enne venni travolto anche dal bombardamento di dettagli, di notizie. Vivendo a Palermo non era la prima volta perché, purtroppo, si erano verificati omicidi eccellenti ed eclatanti. Uno mi toccò (perché avvenne vicinissimo a dove abito) e fu quello dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo: sentimmo (in lontananza) i colpi di mitra. E ricordo il terrore di mio padre che chiuse tutte le finestre. All’epoca avevo 5 anni ma lo rammendo perfettamente. Ma non ricordai il dopo. Troppo piccolo.
Per Falcone la cosa fu attutita dal fragore mediatico, dal bombardamento di notizie e dettagli che scandivano l’evolversi degli eventi. Una cronologia terribile, quasi da bollettino di guerra. Riflettendoci fu un’operazione di guerra.
Le prime immagini arrivate poco dopo furono devastanti: l’autostrada non c’era più e le macchine erano ridotte ad un ammasso informe di lamiera. Come potevano sopravvivere? Ed a questa domanda che ci ponemmo, arrivarono in risposta i bollettini sulle condizioni di Francesca Morvillo che in serata morì.
Fu davvero un bollettino di guerra. E l’unica cosa che feci fu quella di informarmi come potevo. Ora con internet è facilissimo, ma in quel 1992 (che era appena cominciato sotto determinati aspetti) davvero caldo, tv, televideo (per chi aveva la TV con la funzione) e, nei giorni dopo, i giornali erano gli unici mezzi.
Affioravano a quel punto – tra i dettagli più o meno tragici di quel racconto – anche i frammenti personali delle vittime. Da questi venne fuori il rapporto familiare tra Falcone ed i suoi uomini di scorta. Si, perché era umano. Mi colpì perché a 14 anni non vedi, generalmente, che un giudice o dei poliziotti siano anche uomini, o donne, come tutti noi. Tolta la toga, la divisa, ognuno aveva la propria vita. Dedita allo Stato innanzitutto ma anche alla quotidianità. Vito Schifani amava l’atletica ed era specialista nei 400 metri piani. Nel 2007 gli fu intitolato lo Stadio delle Palme che venne anche ristrutturato in quel periodo per ospitare la finale oro dei campionati societari di atletica.
Anche con i miei compagni dell’epoca parlammo parecchio dell’episodio. Ricordo un altro dettaglio, ma successivo agli attimi concitati. Il fragore non era ancora passato e si celebrarono i funerali delle vittime. Mai avevo visto una Palermo così arrabbiata (e poche settimane dopo sarebbe stato ancora peggio). Le parole di Rosaria Costa, la vedova di Vito Schifani, non le dimenticherò mai. Distrutta, sconvolta, arrabbiata ed in piedi solo per disperazione e sorretta da Don Cesare (che rividi dopo 4 anni, fu lui a darmi la prima comunione) che provava a consolarla. “Io vi perdono ma voi dovete mettervi in ginocchio se avete il coraggio di cambiare… ma loro non cambiano”. Allora non piansi… ora si.