Ero li. Il chilometro che mi separava dal luogo dove avevo lasciato l’auto le feci tutto di corsa. Ero il primo fotografo ad arrivare sul luogo di quella strage. E traguardavo attraverso il mirino della mia fotocamera. Sapevo già cose era accaduto e l’adrenalina non mi faceva sentire la fatica e mi controllava le emozioni. Ero abituato a scene raccapriccianti e sapevo come fare per mantenere il sangue freddo e la mente lucida, quello fu uno dei miei primi scatti. Lo vidi, lui era li. Si allontanava dal luogo dell’esplosione.
Era un capitano dei Carabinieri che conoscevo bene. Giovanni Arcangioli si chiamava. Ci conoscevamo perché spesso ci vedevamo nei luoghi dei tanti omicidi di mafia che in quegli anni insanguinavano le strade di Palermo. Mi favoriva, ci rispettavamo, ognuno per i suoi ruoli. Mi colpì quel “fratino” (una specie di giubbino smanicato) azzurro. Un colore troppo sgargiante e troppo delicato in quella scena di guerra, Si di guerra, perché sembrava di essere in Libano, dove in quegli anni le auto bomba erano la norma.
Scattai quella foto, perché dopo, a cose fatte volevo fargliela avere per poterlo un po’ prendere in giro e dirgli: “perché indossavi quel fratino di quello strano colore così fuori contesto?” Passai avanti, e avanti vidi l’inferno. Camminavo su pezzi di carne e non me ne rendevo conto. Sulle narici tanfo pungente di bruciato, di gasolio e di morte. Mi scordai di quel capitano e mi gettai in apnea in quello che doveva essere un servizio fotografico molto professionale da offrire alle redazioni dei giornali.
Quello feci, e lo feci meccanicamente ma lucidamente. Fotografare, registrare e documentare quell’orrore. Il resto è quello che immaginate faccia un fotoreporter: va in agenzia, sviluppa i rullini, stampa le foto e le porta in redazione. Furono giornate intense passate tra Palermo e Milano, a vendere fotografie. Poi i funerali, altro capitolo doloroso, poi le varie passerelle dei potenti, poi il silenzio. Un silenzio durato anni, decenni. Tutto archiviato, passato, fagocitato da altri avvenimenti non meno importanti.
La rivalsa dello Stato contro i mafiosi. Che ci fu, caspita se non ci fu! Poi vennero gli anni duemila, cominciava a prendere piede la rivoluzione digitale. Si cominciava a scannerizzare tutti gli avvenimenti importanti degli anni precedenti. E toccò anche ai fotogrammi più interessanti della strage di via d’Amelio. Con il lentino di ingrandimento guardavo quei vecchi fotogrammi, e lo vidi, anzi lo rividi quel capitano con quel fratino azzurro.
Ma che cosa stringe sulla mano sinistra? Una borsa? Come una borsa? Tutti in quegli anni cercavano l’agenda rossa che quella borsa che avrebbe contenuto. Ed io avevo davanti un fotogramma che mi diceva chiaramente chi aveva preso quella borsa. “Arcangioli!” mi dissi. Lui prese la borsa. Bingo! Avevo uno scoop. Feci vedere quello scatto al mio socio, Michele Naccari, che rimase esterrefatto! “Arcangioli aveva preso la borsa di Borsellino?” Vendiamoci la foto, e a caro prezzo! Tramite colleghi fidati contattammo varie redazioni e proponemmo quello scoop.
Eravamo in trattative sia con l’Espresso che con Panorama. Fino a quando un collega giornalista ci vendette. A chi? Ma alla procura della Repubblica! Raccontò al Procuratore che c’era un fotografo che aveva uno scatto importante per risalire all’agenda rossa. Lo seppi perché in piena trattativa con quei rotocalchi cinque agenti della Direzione investigativa antimafia bussarono alla porta di Studio Camera, la mia agenzia di fotogiornalismo.
“Buongiorno Franco – mi conoscevano, e io li conoscevo – tu hai una foto che ci interessa“. Mi arresi subito e annuii: “si, so di cosa parlate”. Gli consegnai lo scatto in questione. Da li partì tutto. Tutta la fase istruttoria che portò all’incriminazione di quel capitano, ormai divenuto colonnello, e che comunque, mistero, non portò a nulla. Arcangioli fu assolto in tutti i gradi di giudizio perché il fatto non sussiste, e dell’agenda rossa, come sappiamo nessuna traccia. Attendo ancora di poter regalare a quell’ufficiale dei carabinieri quello scatto, e di consigliargli la prossima volta che deve andare per servizio sul luogo di una strage, di vestire in maniera più consona e discreta. Chissà, forse un giorno…