Il doveroso ricordo del Giudice Borsellino e la mutazione antropologica del mafioso

Articolo di Francesco Pira

Ogni anno ci ritroviamo a commemorare, il 19 luglio, l’anniversario della strage di via D’Amelio nella quale persero la vita il Giudice Paolo Borsellino e i poliziotti della sua scorta. Lo scenario quest’anno sarà senz’altro diverso a causa dell’emergenza Covid 19. Non serve una piazza materiale per ricordare quei momenti, ma basta la piazza virtuale – quella dei Social network- a raccontare cosa accadde quel giorno.

Più volte ho ricordato, anche durante interventi in convegni o conferenze, sia in Sicilia che in altre parti d’Italia, che ho avuto il privilegio di intervistare il giudice Paolo Borsellino per un quotidiano regionale agli inizi degli anni ‘90. Dalla Procura di Marsala stava per tornare a Palermo. Quel tono pacato con cui riusciva a pronunciare piccole e grandi verità. E’ un episodio che mi ha segnato perché ci è capitato tante volte di avere paura ma è difficile immaginare che un uomo come Paolo Borsellino, nonostante la paura continuasse la sua battaglia contro il male. La paura forse per Paolo Borsellino era anche la quasi certezza che l’avrebbero eliminato: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.

Ancora oggi si ha la sensazione di vivere agli inizi degli anni ’80. Le mafie che tessono reti, uccidono, cospirano, cercano accordi con la politica e le imprese, vivono cercando disponibilità preziose per continuare la loro opera distruttrice della società. Magistrati e giudici che hanno cercato di operare, ma sono rimasti soli e sono stati uccisi.

Oggi è vero, duri colpi sono stati inferti alle mafie, in quegli anni ’80 e il Parlamento votò la modifica del codice penale introducendo il reato di associazione mafiosa, ma è lo stesso Parlamento che ha impiegato più di un ventennio per introdurre il reato di scambio politico mafioso, di legiferare sulle confische dei beni. Sono stati presi tutti i grandi latitanti, eccetto uno, Matteo Messina Denaro e nel frattempo le mafie hanno proliferato e cambiato pelle, niente più coppole e lupare, ma nuovi sistemi di comunicazione.

La narrazione di Cosa Nostra non sempre riflette i dati reali sulla malavita e si cristallizza intorno alla costruzione di un “romanzo criminale”, privilegiando i reati comuni che generano una percezione di paura e insicurezza, a fronte di dati che mostrano invece una flessione di questo tipo di reati, mentre appare sempre più debole la percezione dei rischi connessi alla criminalità organizzata e alla mafia. Per rendere ancora più esplicite le conseguenze della bassa percezione della pericolosità della mafia, la relazione della D.I.A. sottolinea come nonostante la forte azione repressiva dello Stato le mafie continuano ad esercitare un grande potere di attrazione, non solo sulle fasce deboli della popolazione, ma anche su imprenditori e liberi professionisti e, dato ancora più allarmante, sui giovani: negli ultimi cinque anni non solo si sono registrati casi di “mafiosi” con un’età tra i 14 e i 18 anni, ma gli appartenenti alle cosche tra i 18 e i 40 anni hanno raggiunto numeri quasi uguali a quelli della fascia tra i 40 e i 65 anni.

Si sta delineando una nuova dimensione della criminalità organizzata, capace di definire strategie finanziarie a livello globale, di mantenere il controllo del territorio e, dato più rilevante, di utilizzare i nuovi canali di comunicazione sfruttando i linguaggi giovanili o asservendoli ai propri fini. Le nuove leve mafiose salgono sempre più spesso alla ribalta della cronaca e soprattutto non temono di utilizzare i canali social.

Oggi è in atto una vera e propria mutazione antropologica del mafioso, l’invisibilità, la segretezza si combinano con l’esibizione sui social dove la vita criminale diventa uno show e i criminali dei social influencer, con profili connessi con migliaia di amicizie e dei post che generano un fortissimo engagement. Una contaminazione che crea confusione, che mette insieme aspetti diversi non sempre collegabili e che induce ad una visione dove l’elemento mafioso, rappresentato attraverso i social assume dei contorni sfuocati che agevolano una percezione distorta e inducono a comportamenti e azioni che alimentano le organizzazioni mafiose.

E la nuova criminalità organizzata che non ha paura della ribalta, che si esibisce sui social e trova uno spazio nel quale confondere la linea di confine tra lecito e illecito. Anche il sistema mediatico è sotto accusa. Infotainment e serie tv invece di veicolare una rappresentazione in grado di far crescere un’adeguata coscienza civica, lasciano che l’opacità e un linguaggio distorsivo trovino spazio. Ciò rappresenta con tutta evidenza una grande criticità in grado di modificare in profondo la società. Una mafia pronta anche ad imparare i processi di comunicazione per far vincere il male sul bene.

Cosa nostra è cambiata, non ha vinto ma non è stata sconfitta. Eppure come in quegli anni ’80 si diceva che la mafia non esisteva, oggi ci sentiamo dire che è sconfitta. Pochi quelli che parlano della nuova mafia, tanti quelli che ancora dicono che Cosa nostra esiste solo nella fantasia di qualcuno che fa antimafia per far carriera, per avere successo, e dicendo così si confonde la gente. In questa nostra società è difficile trovare esempi di responsabilità, di etica e di morale. Cosa ben più grave difficile avere percezione della verità.

Questa data non deve essere soltanto un ricordo ma anche noi facciamo ricerca o scriviamo di mafia dobbiamo riprendere a raccontare, a dire cosa c’è scritto nelle misure cautelari, nelle indagini e nelle sentenze, ma anche scavare attorno alle notizie. Le notizie non sono solo quelle dei comunicati stampa e non solo quelle che circolano sul web, ma sono “le carte” dei processi a raccontare il vero. Perché Cosa Nostra usa come strategia di comunicazione anche le fake news.

Le vittime della strage di via D’Amelio, così come quella di Capaci, sono ancora qui tra noi a chiederci Giustizia. Anni di silenzio e ancora silenzio, tanto silenzio. Proprio su questo silenzio mi porto dentro un’altra intervista quella fatta al giudice Antonino Caponnetto Capo del Pool Antimafia. Sulla tragica uccisione del giudice Borsellino aveva fatto dichiarazioni molto precise. Cercato risposte che non sono arrivate: “Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze”.

Ebbene, non ci sarà più questa pseudo “quiete” quando la retorica abbandonerà la scena e a quel punto ascolteremo raccontate le verità. Forse, o almeno si spera tra una fiction e un po’ di infotainment. Ma Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e tutti gli eroi caduti per mano della mafia sono e rimangono immortali, nelle nostre menti e nei nostri cuori. Nessuno potrà mai cancellarli.

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