“Suditudine”, un libro intenso e profondo di Letizia Papi

Articolo di Gordiano Lupi

Letizia Papi si libera delle sue inquietudini grazie alla poesia, strumento principe del pensiero solitario, coltiva le sue madeleines meridionali, al punto che la raccolta prende il titolo da una delle liriche più riuscite – Suditudine – componendo un mix risolto e compiuto di nostalgia e rimpianto. Un libro intenso, profondo, ricco di memoria del passato (senza commemorazioni), diviso in quattro tempi – Braci, Mediterranea, Ritratti, Polifonia – collegati tra loro, uniti dal vento meridionale che spira dal Sud, reca profumo di zagare e gelsi, sentore di fichi d’india, ebbrezza d’amore che avvelena come un mazzo d’ortiche. Il poeta scrive per dimenticare, è una danza la scrittura, addirizza la stortura, rende lieve la memoria, fa sorridere la storia. Quando si scrive per dimenticare, forse è lecito bere per ricordare, danzare un tango col passato, dribblando ostacoli inattesi; persino cantare Bella Ciao a Montecalvi, dalle parti di Campiglia, in piena Maremma (un tempo) mineraria, rende il cuor contento. Suditudine è un concerto per voce e vento, rammenda stracci di passato col filo forte e una buona scorta di pazienza, ricuce l’appartenenza al tempo perduto – in senso proustiano – dei malintesi del vissuto. Poesia del ricordo e lirica d’amore, un viaggio alla ricerca di se stessi, forse inutile, per nascondere il desiderio d’un ritorno, la voglia di scoprire un’illusione tra i ricordi, come un oracolo inascoltato, come un bacio d’amore perduto, come gli occhi dell’amato dispersi in un campo di grano. Stanotte mi sentivo albero / e i tuoi baci erano foglie, scrive il poeta abbandonandosi ai ricordi d’un cuore sgrammaticato che si perde nel passato. Una raccolta di liriche appassionate, pervase di vento meridionale, ebbre di sapore antico, intense come effluvi di petrolio che ricordano l’asfalto d’agosto, tra lenzuola sudate e spifferi di maestrale che cedono il passo allo scirocco. Tra tutte le poesie della raccolta ho scelto di farvi leggere la più complessa, quella che dà il titolo al libro.

Suditudine

Suditudine
da quando non ci siamo
più presi per la mano
camminando sulle eterne ore
come quando eravamo
insieme

gregge e pastore
sull’erba bagnata del tratturo.
Suditudine
da quando non abbiamo
più ascoltato
appoggiati
con le spalle al muro
la voce dei paesi solitari
nella terra che resiste
e solo per gli sciocchi
non esiste.

Suditudine
perché non ci siamo più
affacciati
ai litorali
d’inverno abbandonati
nelle tenere giornate ioniche
con la malinconia
quando eravamo noi, soli
sotto il canto della pioggia
in litania.

Suditudine
da quando non abbiamo
più assaggiato
la delizia dei gelsi e dei limoni
dei pistacchi, testimoni
dei giorni meridiani.
E il pasticciotto con la crema!
E le polpette?
Così buone, maledette.

Suditudine seduti al tavolino ci rivedo
sotto lo sguardo
del Pio padre al muro
finto distratto
che pareva divorare il piatto.

Suditudine
da quando non so quando
ti chiedevo, dove siamo?
E non era importante la risposta
perché mi fidavo e basta.
Ti ricordi il randagio di Sicilia?
Ci portò alla Madonna
era scarno e solitario
dell’anno nuovo era vigilia.

Come lui mi cibo
del ricordo del cibo
del silenzio
mi alimento
perché il tuo vocabolario
è spento.

Suditudine
da quando mi osservi
con lo sguardo vispo e zitto
di traverso
senza proferire un verso
mi tiene compagnia la Suditudine.

È quasi tempo di processione
ci si incammina sul lastricato manto:
resurrezione?
Speriamo…
che non si perda per la strada il santo.

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