Quando questa brutta storia finirà mi ricorderò per sempre, credo, le facce dei miei alunni durante la didattica a distanza: chi al tavolo della cucina, chi in salotto o nella sua cameretta. Mi hanno fatto e mi fanno ancora una grande tenerezza, con quel loro “buongiorno prof” e io lì a confortarli e rassicurarli, prima di fare lezione. Me le ricorderò a lungo, ma di due cose sono certo. La prima è che non vorrò più vederle così, quelle facce, non vorrò più vederle dietro uno schermo. La seconda è che chi dice che la didattica on line è una buona soluzione non conosce e non ama la Scuola. E siccome qualcuno lo dice, come docente e come genitore la cosa mi preoccupa, e molto. Soprattutto quando tali affermazioni arrivano non solo dagli ambienti ministeriali, che purtroppo ci hanno abituato da anni a politiche quantomeno discutibili per la Scuola, ma anche tra alcuni colleghi, e nemmeno pochi.
Occorre invece assolutamente riportare l’attività scolastica in una dimensione il più possibile vicina alla ‘normalità’. Sì, lo so che quella che si era chiusa il 7 marzo 2020 non era una bella Scuola. Aveva mille problemi, non uno. Ma era sicuramente meglio di quella che abbiamo vissuto da allora in poi. Molti ragazzi hanno sofferto. Abbiamo chiesto loro un sacrificio enorme, affrontato dalla maggior parte di essi in modo esemplare. Ma con sofferenza. Sofferenza attutita talora dal vivere in contesti famigliari virtuosi, talaltra dalla presenza di docenti che sono riusciti a svolgere un ruolo educativo anche dietro uno schermo, ma comunque una grande sofferenza. E anche chi non ha sofferto – o, ha avuto tale percezione – è stato ed è deprivato di diritti fondamentali per la sua crescita culturale e personale, che ne sia cosciente o meno. È una cosa che non dovremmo permettere più, in nessun caso. E non perché, semplicemente, non lo vogliamo (e già sarebbe comunque qualcosa) ma perché esistono evidenze scientifiche che dimostrano, in primo luogo, quali sono i danni in termini psicologici, sociologici e pedagogici della didattica on line e di una scuola che non torni ad essere il motore di un armonico sviluppo degli alunni, e, in secondo luogo, la sostanziale, scarsa pericolosità del contagio tra le mura scolastiche.
Lo dicono tante, tantissime voci autorevoli. Senza ovviamente la pretesa di essere esaustivo, mi limito ad alcuni, significativi esempi. E lo faccio in modo non cronologico. Su “Repubblica” del 19 giugno, ad esempio, Massimo Recalcati sottolinea che […] la relazione non è qualcosa che si aggiunge alla didattica come una sua appendice esterna, ma è la condizione di ogni didattica. Dunque non esiste didattica a distanza. La tecnologia non può supplire alla vita comunitaria della scuola. Bisogna ricordarlo: la scuola non ha come obiettivo la difesa della sicurezza dei suoi protagonisti, ma la difesa della condizione di civiltà di un Paese. Per questo la sua competenza non è settoriale ma investe la nostra comunità, la sua stessa identità. Il dibattito sulla scuola non può restare ostaggio del virus e del problema della sicurezza […]. È necessario uno sforzo politico e culturale di immaginazione e di pensiero. Meglio se collettivo, meglio se capace di coinvolgere gli insegnanti e le loro associazioni. In ogni caso libero, laico, vivo, insomma non pietrificato dallo sguardo di Medusa del virus.
Uno ‘sguardo di Medusa’ che continua purtroppo a pietrificare gli ambienti ministeriali e scolastici, soggiogati spesso da infodemia e terrorismo mediatico e spalmati acriticamente su una Scienza di stampo positivistico. È infatti inaccettabile che un Paese venga consegnato a specialisti di un ambito medico – in questo caso prevalentemente virologi, dal momento che un certo specialismo scientista permea ancora buona parte del mondo medico, a livello nazionale (soprattutto) e internazionale. Uno specialismo che con una prevalente se non esclusiva visione parcellizzata di ciò che ha davanti occulta la variegata complessità del reale e di tutti quei contesti – sociali, economici, psicologici, antropologici – duramente colpiti da decisioni aventi come unico ed esclusivo orizzonte di senso il contenimento di un virus. Sono state fatte – lo abbiamo visto – molte riflessioni, in merito, la gran parte delle quali, se non tutte, inascoltate. A titolo esemplificativo, ecco quanto scrive Carmelo Palma: Il “metodo scientifico” di fronte a problemi complessi imporrebbe, in primo luogo, di evitare approcci riduzionistici […]. Invece in Italia è diventato paradossalmente “scientifico” il ricorso al principio di autorità – ipse dixit – per non giustificare razionalmente il contenuto di una decisione.
Mi piace chiamare in causa anche Giorgio Agamben, uno dei più rappresentativi tra coloro che hanno mantenuto lucidamente la barra dritta, denunciando chiaramente i rischi insiti in tutta la fenomenologia legata al virus, non ultimi quelli riguardanti la didattica on line. Parlando ad esempio delle università, Agamben afferma: Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la cosiddetta pandemia sarebbe stata usata come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato. Fa parte della barbarie tecnologica che stiamo vivendo la cancellazione dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello sguardo, durevolmente imprigionato in uno schermo spettrale.
Per fortuna, però, dicevo, le voci di allarme provenienti dagli ambienti giusti sono arrivate. Per esempio dalla psichiatria. Basti pensare a quella di Paolo Crepet, il quale, ai primi di maggio 2020, già tuonava contro la possibilità di una didattica ‘mista’, metà in presenza e metà on line: Mi fa orrore che il Ministro mandi metà dei bambini a diventare degli autistici digitali.
Per non parlare dell’appello lanciato da settecento tra psicologi e psichiatri, nello stesso mese di maggio. Un appello rivolto a salvaguardare la salute psichica di tutti, per la verità, non solo della popolazione studentesca, ma che, ovviamente, lancia numerosi campanelli d’allarme che è possibile prendere ovviamente in considerazione per gli studenti. Nell’appello, ad esempio, si scrive che La limitazione della libertà, la paura e la preoccupazione per il futuro hanno dato l’avvio a risposte disforiche con aumentata propensione al danneggiamento di altri e di se stessi. La violenza domestica è aumentata, così come episodi di aggressione verbale e fisica tra individui familiari o non familiari. La sospettosità paranoide nei confronti degli altri, come “portatori di malattie” e untori, è ormai l’oggetto principale della disgregazione della comunità.
Un aspetto sul quale, invece, rappresentanti del governo e stampa mainstream hanno continuato ad insistere quotidianamente, alimentando uno stato di cose che va proprio nella pericolosa deriva segnalata dall’appello. Inoltre, l’appello prosegue: La natura umana è intrinsecamente relazionale e il nostro cervello si sviluppa solo grazie a relazioni di una certa natura. Le relazioni familiari quanto quelle sociali, per potersi strutturare ed evolvere, hanno bisogno di potersi appoggiare continuativamente ad una presenza fisica e di poter essere vissute con fiducia, e non con sospetto o paura. Ogni surrogato tecnologico in tal senso, sarà sempre deficitario. Instillare nelle persone, e ancora di più nei bambini, il timore di un “nemico invisibile” di cui il prossimo può essere portatore, equivale ad impoverire od annichilire ogni possibilità di crescita, scambio, arricchimento; equivale in sostanza a cancellare ogni possibilità di vita intensa e felice.
In una direzione analoga, ma decisamente e programmaticamente orientata verso la Scuola, va anche un manifesto divulgato in rete dall’Area Perinatale del SIPRe (Società Italiana di psicanalisi per la Relazione) di Milano. Il manifesto sottolinea, in apertura, che l’apprendimento […] non è solo un processo lineare di trasmissione dal maestro al discente ma si svolge all’interno della relazione unica tra quell’alunno e quel maestro; non è neppure solo un processo verticale ma anche e soprattutto orizzontale, tendiamo a sottovalutare quanto i bambini imparano osservando i lori compagni e vivendo la quotidianità con loro. La scuola per i bambini è anche scuola di vita, di interazione tra pari, di incontro e scontro, dove imparare a relazionarsi non solo con un adulto che insegna loro a leggere e a scrivere, ma anche con altri bambini, con cui giocare e confrontarsi.
Un altro appello molto significativo è venuto da un gruppo di circa trenta donne scienziate italiane, impegnate nella ricerca e nella didattica. Esso si apre con alcune considerazione che riprendono quanto già ripetuto in tutti i modi da altre autorevoli fonti: La chiusura della scuola (luogo insostituibile per la crescita sociale, culturale ed emotiva di bambini e ragazzi) e il confinamento domestico (sia per effetto diretto del lockdown che per il riflesso delle condizioni familiari contingenti) hanno avuto conseguenze negative gravi e presumibilmente di lunga durata sulla salute fisica e psicologica dei più giovani. Le maggiori riviste scientifiche e associazioni internazionali pediatriche continuano a ribadire che il rischio di compromissione di aspetti cognitivi, emotivi e relazionali conseguenti alla prolungata chiusura delle scuole è molto alto.
L’appello, inoltre, riporta i riscontri di numerose evidenze scientifiche che testimoniano come scarsa sia la diffusione del virus a scuola e come molto bassa la possibilità di trasmissione da giovani ad adulti e, conseguentemente, lancia un’accusa precisa: Sulle base di queste evidenze è altamente improbabile che gli insegnanti o il personale scolastico contraggano l’infezione dagli alunni. La refrattarietà dei bambini ad ammalarsi e la conseguente ridotta capacità di contagiare è confermata da recenti osservazioni che i bambini hanno un numero di recettori cellulari che permettono l’infezione del SARS-Cov-2 molto più basso degli adulti. Perché nessuno parla di questi dati, già pubblicati e anche ripresi dagli organi governativi dei vari paesi? Forse perché si utilizza il principio di precauzione per non assumersi rischi e responsabilità di eventuali focolai epidemici. Ma chi si assume la responsabilità dell’aumento delle diseguaglianze sociali che avverranno soprattutto a spese dei bambini e ragazzi più disagiati? E delle ridotte future competenze professionali quando gli studenti di oggi entreranno nel mondo del lavoro?
A parte questo aspetto comunque molto importante, però, quello che va sottolineato è che, come in molti temevamo, la didattica a distanza veniva fortemente consigliata anche in assenza di situazioni emergenziali e fortemente caldeggiata come misura complementare alla didattica in presenza.
Il Miur ha approntato anche le “Linee guida per la didattica digitale integrata”, un documento di 10 pagine in cui la DAD viene addirittura lodata come modalità che capovolge finalmente (sic) la stantia lezione in presenza. Non ci credete? Ecco il testo: La lezione in videoconferenza agevola il ricorso a metodologie didattiche più centrate sul protagonismo degli alunni, consente la costruzione di percorsi interdisciplinari nonché di capovolgere la struttura della lezione, da momento di semplice trasmissione dei contenuti ad agorà di confronto, di rielaborazione condivisa e di costruzione collettiva della conoscenza.
Avete letto bene: la didattica on line trasforma la sterile lezione in presenza – che sarebbe semplice trasmissione di contenuti – in un momento nel quale l’alunno diventa protagonista in un’agorà di confronto…
Ulteriori commenti penso siano superflui. La DAD, quindi, ci sarebbe stata nelle scuole superiori, pur se in via complementare e non esclusiva – anche in situazioni di ‘normalità’ (presumibilmente per non uscirne più); in caso di nuovo lockdown, però, essa sarebbe stata estesa a tutti gli ordini, scuola dell’infanzia compresa. Il che, come sappiamo, è puntualmente e tristemente avvenuto.
Ma torniamo al contenuto degli appelli citati in precedenza. Si tratta – come credo sia evidente – di richiami chiari, netti, scientificamente fondati, inequivocabili. Appare davvero sconfortante come essi siano in larga parte rimasti inascoltati e come continuino ad esserlo anche tra numerosi operatori della Scuola, i quali dimostrano così, evidentemente, una sostanziale inadeguatezza a lavorare nelle strutture scolastiche e a vestire correttamente i panni di professionisti dell’educazione. Così come inadeguati sono coloro che non hanno compreso, appunto, quanto, in generale, le misure di restrizione per la pandemia possono incidere sulle persone in fase di sviluppo. Potremmo fare migliaia di esempi, citare centinaia di studi ed evidenze scientifiche. Ma, francamente, non dovrebbe essere nemmeno necessario, almeno in linea teorica, per chi occupa una cattedra. Diversamente, lo ripeto ancora, la occupa indegnamente ed è fuori posto. A titolo esemplificativo, comunque, riporto ciò che scriveva a fine agosto lo psicologo, psicoterapeuta e docente universitario Umbero Nizzoli sulla pagina facebook “Pillole di ottimismo”.
Le micro-espressioni del volto sono la misura delle reazioni viscerali alle idee e alle proposte che si stanno confrontando. Nonostante l’affinamento evolutivo, l’essere umano conserva 200+ muscoli “inutili”: localizzati nel volto, i muscoli “inutili” in realtà realizzano l’espressione e il suo significato. In conclusione, e semplificando, il nostro comportamento, la nostra personalità, la nostra intelligenza sono direttamente definiti dalle nostre esperienze. Il continuo superare soglie, sfide, limiti avviene a partire dal coordinamento tra figli e genitori e poi amici, amori eccetera, dando luogo a un processo di sincronizzazione sociale alla base del quale si forma il legame di attaccamento madre figlio, fatto di contatti, sguardi, odori e ritmi. Ciò serve a garantire protezione e, soddisfacimento dei bisogni emotivi più basilari: come il sentirsi protetto, sicuro, accettato, amato e accompagnato.
Dovrebbe apparire evidente, insomma, che L’assunzione di una prospettiva sociale-relazionale è la base dello sviluppo di una delle funzioni cognitive più straordinarie del cervello umano: la capacità di capire e di prevedere il comportamento, le conoscenze, le intenzioni e le credenze delle altre persone. Solo la capacità di mentalizzazione delle esperienze, degli altri comportamenti individuali o gruppali e infine dell’ambiente, consente all’individuo di vivere calmo e sicuro, in una condizione di “salute” intesa secondo la definizione dell’OMS, cioè: “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale [che] non consiste solo in un’assenza di malattia o infermità”.
Nelle condizioni attuali, invece, rischiamo di costruire una popolazione maggiormente insicura, malata, meno performante e meno intelligente. Ma anche – se non soprattutto – aggiungo io, dei futuri adulti ai quali avremo insegnato, implicitamente, ad avere paura dell’altro, a distanziarsi, ad essere poco empatico, e così via.
E sempre in tema di appelli, è opportuno ricordare quello pervenuto da scienziati di varia estrazione (tra cui pedagogisti e virologi) ai primi di ottobre e diventata poi una petizione sottoscritta da decine di migliaia di firme, in cui si sottolinea […] che le misure adottate comportano per una intera generazione inevitabili effetti “collaterali” seri e indiscutibili […] con privazioni di ordine psicologico, sociale, cognitivo, didattico, fisico, alimentare, riteniamo che il “principio di massima precauzione” sin qui adottato vada aggiornato e rapportato alle evidenze scientifiche, poiché la rincorsa del rischio zero e di una epidemiologia difensiva comporta altrettanti rischi per la società intera.
Ora, qualcuno potrebbe dire: va bene, avremo dei danni per i nostri studenti e le future generazioni ma non possiamo farci nulla, è inevitabile, perché il virus è altamente nocivo, soprattutto nelle scuole e queste, conseguentemente, devono restare chiuse. A prescindere dalla contestabilità di una posizione siffatta, però, anche alla luce di quanto detto sino ad ora, le cose non stanno così. Gli studi scientifici sulla presunta pericolosità delle scuole aperte per la diffusione del virus anzi, come già testimoniato da alcuni dei contributi citati sopra, sono quasi tutti concordi nell’affermare esattamente il contrario.
Per illustrarla mi piace partire da quanto espone sinteticamente e con la consueta chiarezza Sergio Conti Nibali. Relativamente agli studi che analizzano la curva dei contagi nella popolazione infantile, ad esempio, il pediatra messinese scrive che, per quanto i risultati delle ricerche, allo stato attuale, non possano dirsi definitivi, essi sembrano indicare chiaramente che il ruolo dei più piccoli nella trasmissione della malattia e nel contagio nei confronti degli adulti è decisamente limitato.
Una recente revisione sistematica della letteratura mostra che molto di rado il contagio parte dai bambini: gli autori ipotizzano che poiché essi, rispetto agli adulti, presentano meno sintomi da COVID-19 (come tosse e starnuti), anche la trasmissibilità dell’infezione sarebbe inferiore. Secondo gli autori è dunque improbabile che l’apertura delle scuole e degli asili porti a un incremento significativo della mortalità.
Conseguentemente, tutti questi studi, le cui conclusioni vanno nella stessa direzione, supportano l’ipotesi che, anche se ci sono bambini asintomatici che frequentano le scuole, è improbabile che diffondano il contagio. Si tratta di osservazioni che mettono in seria discussione l’efficacia della chiusura degli istituti scolastici come misura per ridurre la mortalità dell’epidemia.
Questo, sia chiaro, non significa andare a scuola come se nulla fosse. Occorrono misure precauzionali, ovviamente, ma ispirate all’ottimismo della scienza e al buon senso.
Sono numerosi i contributi che vanno nella stessa direzione. Ad esempio i risultati di un sondaggio lanciato dal Dipartimento di Salute Pubblica dell’Istituto Mario Negri IRCCS. L’indagine, ha visto come protagonisti gli alunni, costretti a fare video-lezioni, e i loro genitori, che hanno dovuto accompagnarli in questa avventura, conciliando l’impegno imprevisto, spesso con lo smart-working. L’indagine nazionale, diffusa nella settimana tra l’8 e il 15 maggio 2020 era rivolta alle mamme di ragazzi che frequentano la scuola primaria e secondaria di primo grado. Dalle 1601 risposte è emerso che per alcuni è stato complicato utilizzare la DaD, anche perché in alcuni casi c’era la necessità di condividere spazi, strumenti e tempi con fratelli e sorelle; un terzo dei bambini ha avuto difficoltà con le tecnologie e con la programmazione/gestione delle lezioni; un terzo degli alunni delle elementari non riusciva a rimanere concentrato davanti allo schermo per più di 20 minuti, generando quindi agitazione e impetuosità nei più piccoli mentre ansia negli alunni delle medie; gli alunni più fragili sono stati trascurati.
Risultati, dunque, sostanzialmente negativi. Specie se messi in relazione con alcune situazioni particolari. Lo studio, infatti, ha riguardato in maniera più approfondita anche gli studenti disattenti e iperattivi assistiti dal Centro Regionale ADHD dell’Ospedale Santi Paolo e Carlo di Milano. Gli alunni di cui si parla sono quelli che già durante le normali attività in classe mostrano difficoltà ad adattarsi ai ritmi scolastici. La ricerca ha preso in esame un campione di 92 bambini con ADHD confrontati con bambini senza tale disturbo. Anche in questo caso, i risultati del sondaggio hanno evidenziato gli svantaggi della DAD, ovvero: […] perdita del contesto spaziale, sociale e temporale; distanza fisica dagli insegnanti; l’assenza di feedback non verbali (sguardo, contatto fisico); la distrazione generata dallo strumento didattico; la scarsa attrazione di interesse degli strumenti e modalità d’uso del materiale didattico. Quattro le conclusioni tratte da tutte le informazioni raccolte: i bambini delle scuole elementari sono stati quelli che hanno incontrato più difficoltà; la DAD poteva essere organizzata meglio riguardo alla gestione e alle proposte educative/formative; i genitori sono stati troppo coinvolti; gli alunni più fragili con ADHD sono purtroppo stati i più esclusi.
Ma in tutto questo, si dirà, cosa ha fatto il corpo docente, nel suo complesso? La risposta deve essere chiara: poco. Anzi, molto poco. Se è vero che il virus ci ha costretti all’uso della mascherina ma ci ha nel contempo costretti a metterne da parte molte altre di tipo relazionale, mostrandoci a noi stessi e agli altri per quello che siamo, con le nostre virtù, da un lato, ma, soprattutto, con i nostri lati più oscuri; se è vero questo, dicevo, è altrettanto vero nella classe docente è emersa una diffusa inadeguatezza al ruolo. Certo, numerosi insegnanti hanno da subito percepito la gravità della situazione educativa determinata da restrizioni, didattica a distanza, digitalizzazione forzata e linee guida talora deliranti, ma una parte largamente consistente dei loro colleghi ha imboccato decisamente un’altra strada. Una strada, a parere di chi scrive, nauseante. Si sono firmate petizioni per non tornare a scuola, in estate, e per tenere le scuole chiuse, oggi; gruppi facebook di docenti terrorizzati che difendono a spada tratta la didattica a distanza, gente che insultava i colleghi che gioiavano alla possibilità di rivedere i propri studenti in presenza, agli esami di stato, accusandoli di essere degli incoscienti e dei propagatori del virus. Io stesso, quando ho espresso pubblicamente le mie opinioni sulla scuola in presenza sono stato spesso attaccato duramente da molti colleghi con frasi ed epiteti dai contorni tragicomici. “Ma che sei un santo? Tieni di più ai tupi studenti che ai tuoi figli? Sei un medico o cosa?”
Certo, attenzione: nel patetico gioco alla criminalizzare delle categorie cui abbiamo assistito da marzo (i runners, le mamme col bambino, i giovani della movida, ecc.) in una certa fase è toccato anche agli insegnanti. E, in proposito, occorre ricordare che ogni generalizzazione riduzionistica è sempre pericolosa (la Storia ci insegna che quando l’uomo semplifica e categorizza fa sempre danni).
Ora, nella fattispecie, esistono docenti splendidi, che hanno dato e danno l’anima per i propri studenti, nell’emergenza e fuori da essa. Ve ne sono altri però altri, purtroppo, che sono al posto sbagliato, inadatti al ruolo e che vanno in una direzione sbagliata. È così in ogni contesto, credo, professionale e non. A ciò aggiungete che il virus, come dicevo, ci ha denudati. Ha fatto emergere, cioè, quello che forse è più vicino alla nostra essenza. Non tutto, certo, ma molto sì. Sono venute fuori le nostre nevrosi, le fobie, le paure, la considerazione che abbiamo dell’Altro.
Concludendo, credo si possa affermare che la scuola – e sento ancora una volta di scrivere un’ovvietà, appunto – esiste solo nella dimensione della relazione viva e concreta tra tutti i suoi attori: alunni, docenti, dirigenti, segreteria, personale ATA. E tale relazione può avvenire solo in presenza. Diversamente, non è scuola. Se ne facciano una ragione smartworkisti, teorici dell’emergenza ad oltranza, colleghi crocifissi dalla paura, ipocondriaci della prima e dell’ultima ora. La didattica a distanza è stata una misura emergenziale straordinaria e tale deve restare. Ci ha consentito di affrontare in qualche modo una situazione per la quale nessuno era preparato, okay. Ma non deve essere considerata la prima soluzione utile ed efficace, come invece, si continua a fare, per tappare altre falle e altre lacune. E dal momento che la Storia, drammaticamente, ci insegna che le misure prese nelle fasi emergenziali tendono a restare in atto anche ad emergenza conclusa, il mondo della Scuola deve farsi sentire e anche tanto. La scuola è una comunità educante che, dal nido all’università, esiste solo ed esclusivamente in presenza. Ogni altra soluzione deve essere rigettata fermamente. Il contenimento dei rischi epidemiologici, ovviamente, è opportuno. Tuttavia, deve essere chiaro che in nome di tale obiettivo non si devono sacrificare altri aspetti altrettanto fondamentali, quali una sana relazionalità e la cura nei confronti dei bisogni che vanno oltre quello del semplice ‘restare in vita’. Diversamente, ripeto, corriamo il rischio di superare l’emergenza ma di creare problemi che sopravviveranno ben oltre la fine della stessa. La salvaguardia da questo o da altri virus che verranno non può e non deve incidere, più di quanto ha già fatto in pochi mesi, sul rapporto di fiducia che l’essere umano deve avere nei confronti del suo prossimo. Specie in una fase delicata come quella dell’età dello sviluppo. Diversamente, ci saranno conseguenze che rasenteranno quelle di un vero e proprio mutamento antropologico e verso il quale bisogna guardare con terrore. La Scuola prepara gli uomini di domani. Sta a noi decidere quale umanità consegnare ai nostri figli e ai nostri nipoti.
Foto: tuttoscuola.com