Tagli, censure e pellicole al rogo

Articolo di Gordiano Lupi

Lo strumento della censura cinematografica in Italia entra in vigore dal 13 maggio del 1914 con la finalità istituzionale di eliminare tutte le scene ritenute spinte o non appropriate e di abbreviarne altre. Ancora oggi il fenomeno della censura si presenta spesso, pure se in forma più celata, se non addirittura di autocensura, rispetto agli anni passati. C’è stato infatti un periodo storico (anni Settanta – Ottanta) che ha visto la forbice dei censori agitarsi e danneggiare irrimediabilmente ottimi prodotti cinematografici in nome di una non sempre condivisibile morale da difendere. In realtà il ruolo del censore è molto delicato e dovrebbe essere affidato solo a persone ben preparate in materia di cinema. L’esistenza di una Commissione di revisione è perciò un elemento positivo, visto che si tratta di una commissione competente e non di magistrati. L’ultima parola spetta sempre all’autore che può rifiutare i tagli voluti dalla Commissione di revisione, ma se li rifiuta deve accettare sia il divieto ai minori, che limita il film a un pubblico più ristretto, sia la trasmissione in tv in seconda serata. Di solito l’autore accetta le modifiche in nome della legge del mercato.

Il Referendum Popolare del 1993 ha abolito il Ministero del Turismo e dello Spettacolo e le sue competenze sono passate al Dipartimento Spettacolo – Presidenza del Consiglio dei Ministri. La Commissione di censura ha il nome ben più appropriato di Commissione di revisione cinematografica ed è composta da un magistrato, un professore di pedagogia, un professore di diritto, un rappresentante dell’industria cinematografica, un regista di cinema e un critico cinematografico. La Commissione deve vedere in media settecento film all’anno, compresi spot e documentari, e per questo è composta da otto sezioni con differenti membri. Il gettone di presenza è modesto e le proiezioni avvengono una volta a settimana negli scantinati dell’ex ministero. Il Presidente della Commissione adesso è un docente di diritto e non più un magistrato, accanto a lui c’è un docente di psicologia dell’età evolutiva, un docente di pedagogia, due esperti di cinema e quattro rappresentanti dei genitori. Se il film prevede scene con animali c’è anche un esperto del settore a tutela degli animali (1).

2. Neorealismo, Totò e Lattuada

Per fare una breve storia della censura cinematografica dobbiamo partire dal periodo del Neorealismo che consegna al cinema italiano alcune opere fondamentali, ma che comincia a far scagliare i censori contro prodotti ritenuti ideologicamente pericolosi. Basta ricordare il giovane sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti e la sua battaglia contro capolavori come Ladri di biciclette (1948) e Umberto D (1952), entrambi diretti da Vittorio De Sica e scritti insieme al grande Cesare Zavattini. Ladri di biciclette racconta l’epopea della povera gente personificata in un padre al quale rubano la bicicletta ed è costretto a rubarne un’altra per poter lavorare. Una stupenda scena con le lacrime del figlio che salvano l’uomo dal linciaggio della folla inferocita conclude il film. Una storia che descrive con lucidità le condizioni dei lavoratori nel primo dopo guerra, la miseria, la fame, la difficoltà di trovare un lavoro. Tutto questo non piace per niente ai benpensanti, ma ancor meno viene accettato Umberto D, parabola su vecchiaia e solitudine di sconvolgente bellezza recitata da attori non professionisti. Umberto D è la storia di un uomo solo assillato dai debiti che non ce la fa a mantenere se stesso e il suo cagnolino con la magra pensione di Stato e allora decide di uccidersi buttandosi sotto un treno, ma non ci riesce perché il cane scappa via e lui istintivamente lo segue. Ciò che infastidisce i benpensanti e i politici democristiani del tempo è proprio la realizzazione sobria e disadorna, quasi a livello di documentario e quel modo di raccontare la realtà senza fronzoli o retorica. Giulio Andreotti afferma: “I panni sporchi si lavano incasa” edEttore Scola nel film C’eravamo tanto amati (1974) stigmatizza molto bene questo episodio. Quello che non va giù ai censori è il socialismo di fondo presente nelle opere del Neorealismo che racconta storie di uomini umiliati da una società sempre più dura, sebbene in via di ricostruzione.

La critica del tempo è di matrice cattolica ed è infastidita pure dai film comici di Totò che riescono a far ridere l’Italia di se stessa, ma nonostante la contrarietà di fondo degli intellettuali di regime Totò resta campione d’incassi ai botteghini. Critica e censura puntano gli occhi addosso al comico come se fosse una mina vagante del cinema italiano. Vengono imposti tagli e modifiche a Guardie e ladri (1951) e Totò e i re di Roma (1952), entrambi di Steno e Mario Monicelli, colpevoli di aver disegnato uno spaccato troppo vero di un’Italia da ricostruire. Soprattutto Guardie e ladri scatena le ire dei censori che mal sopportano di veder descritta al cinema l’amicizia tra un truffatore e un brigadiere dei carabinieri. Totò e Aldo Fabrizi consegnano alla storia del cinema due interpretazioni eccellenti e i registi disegnano uno spaccato di un’Italia dove la gente si arrangia come può. Un film dove troviamo tra gli sceneggiatori autori come Ennio Flaiano, Vitaliano Brancati e per la fotografia il grande Mario Bava, che vince giustamente il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes nel 1952. Totò è Nastro d’argento e Palma d’oro a Cannes. Le distanze tra “uomini e caporali” vengono troppo accorciate per la censura e la complicità tra un tutore dell’ordine e un truffatore non è cosa da far vedere al cinema. Totò e i re di Roma racconta la storia di un impiegato statale con moglie e cinque figli a carico che viene licenziato dal lavoro perché non possiede la licenza elementare e non sa come fare per mantenere la famiglia. L’impiegato decide di morire per comunicare dall’aldilà alla moglie un terno secco da giocare al lotto e risolvere così tutti i loro problemi. Un film geniale costruito su due racconti di Čhecov come La morte di un impiegato ed Esami di promozione fusi in un’unica eccellente sceneggiatura. Totò viene utilizzato come attore e mostra tutta la sua genialità dando vita  a una satira feroce della burocrazia ricca di momenti di commovente umanità. Da citare la parte tragicomica che vede Totò impegnato a cercare di prendere il sospirato titolo di licenza elementare, ma alla fine non ci riesce perché non sa neppure qual è l’ultimo re di Roma. Notevole anche la sequenza che mostra il funerale dell’impiegato che si svolge senza carro funebre per risparmiare. La censura si infuria parecchio davanti al tormentone di volersi “buttare a sinistra”,  recitato dall’attore per tutto il film come reazione alle ingiustizie patite. Ma la pellicola più tartassata dalla censura di tutta la storia del cinema italiano è senza dubbio Totò e Carolina, diretto da Monicelli su soggetto di Ennio Flaiano nel 1955. Il film racconta le vicissitudini di Antonio Caccavallo (Totò) agente di P.S. che durante una retata arresta la giovane Carolina (Anna Maria Ferrero), scambiandola per una prostituta, mentre è solo scappata di casa perché incinta. L’agente viene incaricato di riportarla al suo paese ma qui non trova nessuno disposto a riprenderla e alla fine decide di adottarla lui stesso. Un film notevole che non è solo comico ma anche umano e riesce a descrivere bene l’amore tra Totò e Carolina fatto di sguardi e timide considerazioni. Il film non è compreso dalla censura e soprattutto dal governo democristiano del tempo. Il ministro Scelba lo fa sequestrare con l’accusa di vilipendio alle forze dell’ordine e il mondo cattolico lo giudica immorale perché manca una forte condanna del tentato suicidio di Carolina. Totò e Carolina viene sequestrato nel 1953 e distribuito nelle sale solo due anni dopo con oltre ottanta tagli e interventi censori e con la scritta sovrimpressa sulle prime scene: “Il fatto stesso che sia interpretato da Totò trasporta il film su un piano particolare…”. Una serie di battute vengono eliminate e altre invise alla chiesa cattolica sfumate dalla colonna sonora. Tra tutte si ricorda quella sul suicidio: “Il suicidio è un lusso, i poveri non hanno neanche la libertà di uccidersi”.  Viene modificata radicalmente anche la scena in cui Totò grida a un camion pieno di comunisti e bandiere rosse che deve sorpassare: “Buttatevi a destra!”. La canzone Bandiera Rossa viene sostituita dal canto patriottico Di qua e di là dal Piave e i comunisti vengono trasformati in alpini.

Sempre nel 1953 fa discutere La spiaggia di Alberto Lattuada, un film sceneggiato da Luigi Malerba, Rodolfo Sonego e Charles Spaak che anticipa la futura commedia all’italiana. La storia racconta le vicende di una prostituta che in vacanza con la figlia si finge vedova per sfuggire ai pettegolezzi. La donna diventa amica di tutti, pure del sindaco comunista del paese, fino a quando qualcuno non divulga la verità. Tutto si risolve nel finale quando la donna accetta la protezione dell’uomo più ricco del paese e allora il disprezzo si trasforma ancora una volta considerazione. Ai censori dà fastidio soprattutto la polemica antiborghese e la simpatia per gli emarginati, ma la scusa per tagliare e per polemizzare la fornisce una scena erotica giudicata inutile e fastidiosa. Quando il film esce provoca addirittura un’interrogazione parlamentare democristiana per la scena di una giovanissima Valeria Moriconi in due pezzi sotto la doccia. Qualcuno ha sostenuto che nel film si legge un riferimento allo scandalo Montesi ed è solo quello il motivo di tanto accanimento censoreo.

Nel corso degli anni Cinquanta un’attrice molto sforbiciata nelle scene erotiche è la bella Eleonora Rossi Drago, giudicata dai critici beghini e dai miopi censori di una sensualità eccessivamente morbosa. Negli anni Cinquanta il sesso e ogni sua rappresentazione viene vissuto come simbolo del peccato, pure se poi le ostentate pubbliche virtù spesso si trasformano in assurdi vizi privati. Resta famosa la caricatura tratteggiata da Alberto Sordi ne Ilmoralista di Giorgio Bianchi(1959), dove un funzionario democristiano che nella vita pubblica è un integerrimo censore, in realtà si scopre a capo di un’organizzazione che sfrutta ballerine di night. Il suo potere è tale che anche dopo essere stato scoperto resta un intoccabile perché ha raccolto un dossier sui potenti tale che può ricattare tutti. Il moralista è una sorta di film vendetta del cinema italiano nei confronti della censura democristiana e soprattutto verso l’assessore DC al comune di Roma Agostino Greggi che per creare ostacoli mette su persino una fantomatica “Associazione dei padri di famiglia” (2).

3. Fellini, Pasolini, Visconti e Ferreri

Negli anni Sessantaesordiscono quasi tutti i futuri grandi maestri del cinema e il primo di loro è Federico Fellini che realizza un’opera indimenticabile come La dolce vita (1960), mitizzando con l’aiuto di Ennio Flaiano, Brunello Rondi e Tullio Pinelli, la Roma di quei tempi e soprattutto la vita che scorreva attorno alla luminosa via Veneto. Il film è un quadro composito di una vita notturna priva di punti di riferimento, un viaggio nella notte durante il sonno della ragione, in una civiltà corrotta e senza modelli da seguire. Tutti gridano allo scandalo, sin dalla prima proiezione in pubblico a Milano, dove il povero Federico Fellini è aggredito da sputi e insulti di ogni genere. L’Osservatore Romano, organo ufficiale del Vaticano, scende in campo contro Fellini con un articolo intitolato Basta! e successivamente con un altro dove ribattezza il film La sconcia vita. Spero solo che non risponda a verità il fatto che questi due articoli su L’Osservatore Romano li abbia scritti l’integerrimo ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. I missini, i democristiani e i nobili disprezzano un film coraggioso che invece viene giustamente premiato a Cannes con la Palma d’Oro e prende un Oscar per i costumi (Piero Gherardi). La ricostruzione spietata e senza valori della dolce vita romana infastidisce molto i protagonisti delle imprese e i personaggi reali del bel mondo rappresentato sulla scena. Marcello Mastroianni è memorabile nella parte del giornalista superficiale e insoddisfatto che si muove tra le attrattive illusorie di via Veneto. Alain Cuny è ottimo a interpretare lo scrittore fallito che si suicida. Amita Ekberg è memorabile come diva americana che fa il bagno nella fontana di Trevi in una scena di culto che fa inviperire i benpensanti. Ma i nobili romani non apprezzano per niente il ritratto che viene fuori del bel mondo e il festino a base di sesso organizzato proprio da un nobile. Valeria Ciangottini rappresenta invece la speranza con i suoi occhi innocenti che scrutano il mare da una spiaggia deserta e notturna.

Un anno dopo Federico Fellini si fa beffe dei censori e chiama Peppino de Filippo a interpretare il ruolo del dottor Antonio Mazzuolo ne Le tentazioni del Dottor Antonio, episodio di Boccaccio ‘70 (1961). Il protagonista viene travolto da incubi notturni che riproducono l’ossessiva immagine di Anita Ekberg presente in un cartellone pubblicitario. Il dottor Mazzuolo è un moralista intransigente e organizza una battaglia personale contro il manifesto di Anita Ekberg che pubblicizza le qualità del latte. L’episodio è molto riuscito ed è una satira feroce al moralismo e al perbenismo imperante, ma soprattutto pare che nasca da una personale volontà di rivalsa del regista nei confronti di Oscar Luigi Scalfaro. Il dottor Antonio del film rivive lo stesso episodio reale che porta Scalfaro a coprire la scollatura troppo audace di una signora. Fellini si vendica contro l’anonimo estensore delle ridicole stroncature de La dolce vita su L’Osservatore Romano.

Nel 1960 tocca al grande Luchino Visconti fare da bersaglio per i censori al Festival Cinematografico di Venezia e il film contestato è niente meno che Rocco e i suoi fratelli, che vede oscurata la scena in cui Renato Salvatori violenta la prostituta Annie Giradot sotto lo sguardo disperato e implorante del fratello, un giovanissimo Alain Delon. La scena dello stupro annerita è solo una scusa per attaccare un film che dà fastidio per il suo messaggio politico. Come bene asserisce Paolo Mereghetti “Il film mette a confronto una storia di miseria con la civiltà industriale del Nord vista nei suoi due aspetti più forti: fabbrica e la coscienza proletaria per alcuni, marginalità e autodistruzione per altri. Il regista milanese racconta la sua città con gli occhi degli emigrati (gelida, ostile, respingente) e ne fa il teatro di passioni irrefrenabili e arcaiche…”. Il tema di fondo di Visconti è sempre quello della disgregazione della famiglia ed è un argomento poco digeribile per i palati assuefatti al moralismo benpensante e cattolico. Un capolavoro del cinema di cui dobbiamo andare fieri, purtroppo sforbiciato da una censura miope e bigotta.

Nel 1960 fa il suo ingresso nel mondo del cinema anche Pier Paolo Pasolini, nato poeta e narratore a metà degli anni Cinquanta e che già aveva consegnato alla storia della letteratura due romanzi sconvolgenti come Ragazzi di vita e Una vita violenta. Pasolini era stato anche sceneggiatore per Fellini e Bolognini, basta ricordare un’opera intensa come La notte brava interpretata da un giovanissimo Tomas Milian. Il poeta friulano decide di trasferire i suoi racconti sullo schermo, affascinato da quella che egli stesso definisce “un’altra lingua”. Il cinema diventerà la sua lingua preferita perché non si può negare che il mezzo di espressione con cui Pasolini ha raggiunto i più alti risultati artistici sia proprio il cinema. Nell’estate del 1961 prende vita la storia di Accattone, ambientata interamente tra le borgate romane, popolate soprattutto da gente che vive ai margini della società, tra furti e prostituzione. Il film sconvolge i benpensanti al punto che, in occasione dell’uscita del film, l’allora ministro Folchi riforma il divieto riguardante la maggiore età, facendolo aumentare dai sedici ai diciotto anni, perché  a suo dire il linguaggio è talmente crudo da ritenersi pornografico. Il film racconta in modo secco e senza retorica un’estate di Franco Citti, un borgataro mantenuto dalla prostituta Silvana Corsini. La descrizione di Pasolini del sottoproletariato romano non è realista ma scava in un’angoscia esistenziale presente nelle situazioni che fanno da scenografia all’eccezionale affresco. La censura ostacola l’uscita del film e la distribuzione che deve tardare dopo la presentazione alla Mostra di Venezia. Nel 1962 anche lo stupendo Mamma Roma, con un’eccellente Anna Magnani nei panni di un’ex-prostituta intenta a redimere il figlio, segue la stessa falsariga e ha identici problemi con la censura. Una sorta di Accattone al femminile che descrive ancora il mondo delle borgate romane visto con gli occhi di una donna che vuole riscattare la sua vita.

Una vera vicenda giudiziaria fu vissuta da Pasolini per La ricotta, episodio di Ro.Go.Pa.G. (1963), con immediato sequestro del film per vilipendio alla religione dopo sei giorni dall’uscita. Si tratta della storia di Stracci, un sottoproletario perennemente affamato che interpreta il ladrone buono in un film sulla Passione di Cristo girato da un regista marxista ortodosso. Quando la povera e numerosa famiglia va a far visita a Stracci sul set, l’attore dona loro il cestino del pranzo e permette che consumino un pasto sul prato. Stracci invece approfitta del caos, si traveste da donna e ottiene un nuovo cestino dalla produzione. Si accinge a mangiarlo, nascosto in una piccola grotta poco lontano dal set, ma subito arriva l’ordine di presentarsi in scena, e Stracci è costretto ad abbandonare il cestino dietro un sasso. Quando torna si accorge che il cagnolino della prima attrice si è divorato tutto il contenuto. Stracci piange come un bambino e accusa il cane di voler essere meglio di lui perché è “il cane de ‘na miliardara”. Nel frattempo sul set giunge un giornalista di “Teglie sera” per intervistare il regista che risponde alle domande retoriche con feroce ironia. Il cronista non comprende lo sfottò e ascolta attonito il regista mentre recita una poesia e gli spiega perché, secondo la sua ottica “marxista”, lui “non esiste”. Il giornalista se ne va e incontra Stracci nei pressi della grotta, si ferma ad accarezzare il cane e alla fine lo acquista da lui per mille lire. Stracci si vendica del maltolto e si libera del fastidioso cane della prima attrice, quindi col ricavato compra un gigantesco pezzo di ricotta. Ma proprio mentre sta per mangiarsi la ricotta viene richiamato sul set dal megafono e deve di nuovo lasciare il cibo nella sua grotta. Stracci viene legato sulla croce dove assiste allo strip-tease di un’attrice vestita da santa, mentre viene stuzzicato dai membri della troupe. Quando tutto è pronto, la prima attrice pretende di girare subito la sua scena, e la scenografia viene di nuovo smontata, per lasciare spazio alle interminabili riprese di un tableau vivant che riproduce la Deposizione del Pontormo. Stracci torna nella grotta dove mangia la sua ricotta, mentre comparse e tecnici, divertiti dallo spettacolo della sua fame incredibile, lo fanno cibare dei resti della scena dell’ultima cena, ormai già girata. Stracci mangia di tutto con avidità. Nel frattempo arriva il produttore con la stampa specialistica e vuole assistere alle riprese della crocifissione e della morte di Cristo, dove Stracci deve dire: “Quando sarai nel regno dei cieli, ricordati di me”. Al grido di “azione!” del regista la scena non parte. Stracci è morto di indigestione sulla croce. Il regista, senza ombra di commozione, commenta: “Povero Stracci. Crepare… non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo…” (3).

Pier Paolo Pasolini difende il film dalle dure critiche con queste parole: “Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sentiranno colpiti cercheranno di far credere che l’oggetto della mia polemica sono la storia e quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e che i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti”.

È il terzo film di Pasolini e pure qui il regista privilegia una storia che fa capo agli strati più umili ed emarginati della società. Le comparse, i generici, i figuranti del “film nel film” la cui storia viene narrata (e che rappresenta la Passione di Cristo) sono dei sottoproletari, dei “morti di fame”, come ci dirà lo stesso Pasolini attraverso la mangiata di ricotta a conclusione del film e della vita di Stracci. Ma compare anche la borghesia, nei panni rozzi e volgari del produttore e del suo entourage. E viene anche messa in scena l’integrazione sociale cui sembra essere pervenuto il regista marxista.

La pellicola viene sequestrata con l’imputazione di vilipendio alla religione di Stato e durante il processo il Procuratore della Repubblica Di Gennaro presentò ai cattolici benpensanti il film come “il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio”. Sull’onda delle vicissitudini giudiziarie, al film vengono apportati alcuni tagli: prima di tutto le tre ripetizioni de “la corona!”, lo spogliarello della generica Maddalena e la risata del generico Cristo. Poi si sostituisce l’ordine “via i crocifissi!” con “fare l’altra scena!”, l’espressione “cornuti” con “che peccato”, la frase finale “povero Stracci… crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” con “povero Stracci… crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”. Nel maggio 1964, la Corte d’appello di Roma rende giustizia a Pasolini e lo assolve perché “il fatto non costituisce reato”. Le critiche e le motivazioni della persecuzione giudiziaria sono solo dettate dalla malafede. Pasolini ha diretto un attacco frontale nei confronti della borghesia e questo è il motivo vero che scatena la rivolta nei suoi confronti. Il senso di questo attacco è contenuto nelle parole pronunciate dal regista Orson Welles e dirette al giornalista che gli chiede un’intervista:  “Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”. “Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo”. “Che cosa ne pensa della società italiana?” “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”. “Che cosa ne pensa della morte?” “Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione”. Il regista Orson Welles, dopo aver letto una poesia (“Io sono una forza del passato…”), tenendo tra le mani il libro Mamma Roma, dice infine al giornalista (mentre quest’ultimo ride): “Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste… Il capitale non considera esistente la manodopera, se non quando serve la produzione… e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale… Addio” (4).

Nel 1963 si conferma il talento del giovane Marco Ferreri, regista dalla visione anarchica e iconoclasta del mondo. Il suo L’ape regina con la coppia Ugo Tognazzi e Marina Vlady, è massacrato di tagli, imponendo oltretutto di modificare il titolo in Una storia moderna: l’ape regina, tendendo a sottolineare la ritenuta improbabilità del racconto. Marina Vlady è una donna mantide che dopo aver sposato Ugo Toganazzi lo consuma giorno dopo giorno fino alla nascita di un figlio. Il film viene bocciato in primo appello dalla commissione di censura e può uscire solo dopo molti tagli e modifiche nei dialoghi. Marco Ferreri non è un regista che amo molto, lo comprendo poco in certe sue esternazioni filmiche e molto spesso non condivido il modo intellettuale con cui sviluppa le sue storie, però riconosco che è persona sensibile e colta e che la sua visione del mondo è frutto di un’intelligenza lucida e fuori dal comune. La critica borghese e benpensante lo ha sempre attaccato e la censura si è sfogata sulle sue opere con tagli selvaggi e ignobili che gridano ancora vendetta. L’ape regina può uscire solo dopo che il regista dichiara di rispettare “i solidi e immutabili principi della morale e della religione”. Il film attacca l’istituto del matrimonio in modo feroce, lo descrive come una gabbia dal quale non se ne esce vivi, l’umorismo nero e il senso del grottesco rendono la storia ancora più conturbante e inaccettabile per il moralismo cattolico. L’ape regina si basa su un bel soggetto dello scrittore Goffredo Parise che collabora con Pasquale Festa Campanile, Diego Fabbri e Massimo Franciosa. Nonostante tutto la pellicola si aggiudica la Palma d’oro a Cannes per la perfetta interpretazione di Martina Vlady.

Marco Ferreri nel 1964 gira La donna scimmia e questa volta si vede addirittura amputare il finale, dove Tognazzi esce in lacrime da una stanza d’ospedale in cui la Girardot di lì a poco avrebbe dato alla luce un piccolo mostro. Nella scena successiva l’attore si reca in un museo antropologico al quale ha venduto le mummie dei due fenomeni. La storia di Ferreri come sempre si sviluppa tra il grottesco e il surreale e racconta le vicissitudini di Ugo Tognazzi che strappa con qualche soldo a un convento di suore una donna pelosa per farla diventare sua moglie e soprattutto un fenomeno da baraccone. La moglie muore dopo un parto sconsigliato da tutti ma che il marito esige per avere anche un figlio scimmia. Alla morte di moglie e figlio Tognazzi si contenta di esibire i corpi imbalsamati dei due esseri orripilanti. Il film è sgradevole e punta il dito sulla immoralità di certe situazioni di sfruttamento. Un’accusa alle convenzioni sociali e ancora una volta all’istituto borghese del matrimonio che scandalizza la chiesa e la critica bigotta. La censura obbliga a modificare il finale per l’uscita in Francia e la nuova versione del film vede la donna che durante la gravidanza perde i peli, il figlio nasce normale e Antonio si mette a lavorare. L’intervento censoreo modifica il senso di quello che il regista ha voluto dire.

4. Cinema, politica ed erotismo

A metà degli anni Sessanta il connubio tra cinema e politica si fa stretto e si avvertono i sintomi dell’imminente rivoluzione culturale. Resta memorabile il film I pugni in tasca (1965), opera prima di Marco Belloccchio, pellicola di stile originale e forte matrice anarchica, esemplare nel descrivere la morbosa dissolutezza della famiglia borghese, destinata alla distruzione. Il film sconvolge per la sua forza dissacrante e non lascia indifferenti neppure adesso con un Lou Castel bravissimo nella parte del feroce giustiziere omicida. La censura tenta di affievolirne la forza distruttrice senza riuscirvi più di tanto. Elio Petri è un altro regista che fa del connubio tra cinema e politica un’espressione di stile e di conseguenza la censura gli rende la vita difficile. Emblematico resta il caso di A ciascuno il suo (1967), tratto dall’omonimo romanzo di Sciascia, dove si giunge addirittura a boicottare il manifesto di Simeoni, non potendo recriminare niente alla coerenza del film. La pellicola descrive la vita siciliana con lucida complessità narrativa e lancia un atto d’accusa verso mafia, omertà e connivenze con il potere. I governi democristiani degli anni Sessanta non amano certo registi come Elio Petri e scrittori impegnati come Leonardo Sciascia, soprattutto perché le loro verità fanno male e scavano nelle ferite aperte. Pure le prime commedie all’italiana cominciano a presentare situazioni pepate e tendenze politicizzanti.
Un caso è La matriarca di Pasquale Festa Campanile (1968), dove iniziano ad apparire i primi nudi, e in cui Catherine Spaak, nel finale del film passeggiando per casa a cavalcioni di un uomo lancia esplicite frecciate femministe. A scandalizzare sono sia il femminismo della pellicola che i primi generosi nudi di una disinibita Spaak non ancora usuali per le sale italiane. Cominciano anche ad apparire i primi film erotici il cui prototipo possiamo considerare Grazie zia di Salvatore Samperi (1968) con Lou Castel e Lisa Gastoni. Il cinema erotico domina gli anni Settanta nelle sue diverse sfaccettature e su questo genere di film si appunta l’attenzione dei censori che paiono adesso scandalizzati più dalla esibizione di centimetri di carne piuttosto che da contestazioni politiche. La bella Lisa Gastoni diventa l’icona di una generazione e la sua parte di zia perversa che insegna a un ingenuo nipote alle gioie del sesso resta impressa nell’immaginario collettivo. Il film fa anche un discorso politico impersonato dal nipote che per protesta contro la società si finge paralizzato. Il filone che discende da questa prima pellicola è quello erotico – intellettuale – melodrammatico che scandalizza al punto giusto.

Gli anni Settanta dovevano essere la stagione della avvenuta liberalizzazione dei costumi sessuali e invece è forse il periodo più sofferto per il cinema italiano. Pier Paolo Pasolini è l’autore che più spesso troviamo al centro di contestazioni di taglio moralistico e censoreo. Il poeta friulano è il primo ad avere il coraggio di esibire sul grande schermo una piena fisicità dei corpi nella sua memorabile Trilogia della vita. Pasolini sceneggia per il cinema Il Decameron (1971) e ambienta le novelle di Giovanni Boccaccio nella Napoli trecentesca. L’idea è quella di descrivere la vitalità dei personaggi attraverso una rappresentazione naturalistica delle loro normali pulsioni (sopravvivenza, astuzia, amore e soprattutto sesso).
Al primo film seguono I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974), che come Il Decameron vengono più volte processati, sequestrati e dissequestrati, rei di aver mostrato esplicitamente scene di accoppiamento sessuale tra uomini e donne.
Come se ciò non bastasse, la scelta diPasolini, unita all’ottimo esito commerciale dei film, causa la nascita di un filone così detto decamerotico che ha come film simbolo il divertente Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda di Mariano Laurenti (1972) con Edwige Fenech e Pippo Franco.Il Decameron di Pasolini è il modello colto di riferimento cui si ispirano tanti registi di questo periodo che si dedicano al sottogenere, tanto che solo nel 1972 uscirono trentadue film decamerotici. La moda si affievolisce presto e dura solo tre anni, alla fine del 1975 già non si parla più di decamerotico. Altri generi popolari come lo spaghetti-western e il poliziottesco durarono molto di più, ma quello che affretta la fine del decamerotico è la nascita della commedia sexy e scollacciata ambientata in  tempi moderni.

5. Lando Buzzanca e lo scandaloso onorevole Puppis

L’avventura di All’onorevole piacciono le donne (1971) prodotto da Edmondo Amati e diretto da Lucio Fulci è davvero incredibile. Il film viene bocciato in prima istanza dalla censura con la motivazione di “ostentata oscenità e licenziosità del linguaggio”. Il ruolo principale nella pellicola è ricoperto da Lando Buzzanca che interpreta l’onorevole Puppis, un politico democristiano nella spirale del sesso. La censura preventiva scatta quando il direttivo democristiano si rende conto che il film è una satira feroce del governo e del sottogoverno, ma pure di polizia e carabinieri. Qualcuno suppone di riconoscere nella storia raccontata per immagini almeno due esponenti democristiani: l’onorevole Emilio Colombo e l’onorevole Arnaldo Forlani. La pizza del film viene fata uscire dal Ministero del turismo e  dello spettacolo per essere proiettata davanti ai più alti esponenti di partito. Pare che la vedano nel coro di una prima assoluta e privatissima: Andreotti, Colombo, Evangelisti e  Forlani, che, secondo quanto riferito da Lucio Fulci, si fanno pure della grasse risate. Si tratta di una palese violazione del dettato normativo, visto che prima del giudizio di appello la pellicola non potrebbe essere toccata da nessuno. Lando Buzzanca è truccato così bene che somiglia davvero all’onorevole Colombo, e interpreta un presidente del consiglio che ha avuto un brutto trauma infantile ed è considerato da tutti sessualmente freddo. Non è proprio così perché l’onorevole Puppis viene colto da improvvisi raptus erotici e non può fare a meno di toccare il primo sedere di una donna che gli si presenta (è proprio il caso di dirlo) a portata di mano. L’onorevole concorre alla più alta carica dello Stato e questo suo vizio inconfessabile non lo facilita certo nella scalata al potere. La satira è un po’ sboccata ma molto divertente e non risparmia neppure le alte gerarchie ecclesiastiche e i generali golpisti alla De Lorenzo. Il film viene interpretato dai politici democristiani come un attacco alle istituzioni e la sua presunta oscenità e licenziosità del linguaggio è solo una scusa per bloccarne l’uscita. Subito si scatena una violenta polemica sulla mancanza di libertà in Italia. “Il film  è contro il governo, il sottogoverno, gli intrallazzi, le pastette… riporta solo la situazione italiana. Niente di più”, sostiene Lucio Fulci (5). “Vilipendio alle istituzioni”, rispondono i politici democristiani che le studiano di tutte pur di non far uscire il film. Si sparge la voce che qualcuno avrebbe offerto molti soldi per il ritiro della pellicola dalla circolazione. Non ci crediamo, anche perché si doveva pagare un po’ troppa gente per bloccare definitivamente la pellicola. Alla fine il film esce lo stesso e tutta la polemica intorno alla sua presunta oscenità contribuisce solo al successo commerciale. Lina Coletti su L’Europeo scrive che All’onorevole piacciono le donne è “un film stupido e innocuo” (6) e noi non condividiamo per niente questo giudizio settario e intellettualistico. La pellicola si guarda ancora oggi con piacere, nonostante siano passati più di trent’anni dalla sua prima uscita. All’onorevole piacciono le donne è stato mutilato dalla commissione di censura dalle sue scene più forti, ma restano alcune situazioni che possono essere accusate di vilipendio ai più alti poteri dello Stato e della religione. Di sicuro però non è un film osceno ed è lampante che la sola cosa che non piace alla nomenklatura della Democrazia Cristiana è il bersaglio politico. Dopo le limitazioni ad Alighiero Noschese in televisione tocca a Lando Buzzanca subire gli strali della censura.

Lando Buzzanca è uno dei nostri attori più popolari e in voga nella commedia sexy, uno che si ritaglia uno spazio così importante da dare vita a un vero e proprio sottogenere: i Lando Buzzanca movies. Escono in edicola persino due fumetti sexy come Lando e Il Montatore che ricalcano le fattezze dei loro protagonisti sull’aspetto del comico siciliano e questa cosa non piace per niente all’attore. Lando Buzzanca farà causa ai produttori dei fumetti adducendo un evidente danno all’immagine. I suoi film subiscono ancora tagli censorei ma sono quasi tutte per via delle esplicite parti erotiche. La carriera di Buzzanca subisce uno stop improvviso nel 1976, quando nei pressi di Latina la macchina guidata da suo figlio Mario che viaggia verso Roma per sostenere gli esami di maturità, viene investita da una Volkswagen straniera che procede a velocità folle. L’auto tedesca scoppia e i due turisti muiono carbonizzati, il giovane Buzzanca è ridotto in fin di vita ma dopo una lunga degenza ospedaliera si salva. Il referto parla di trauma cranico, caviglie spezzate, mascella e denti fracassati, lui resta semiparalizzato e cade più volte in coma. Mesi di operazioni lo salvano, pure se le speranze di farcela non erano molte. Lando Buzzanca vive un anno da incubo e per almeno sei mesi non riesce a lavorare, vede il figlio rimesso in sesto pezzo per pezzo, finge di essere sereno, ma dentro di sé cova un dolore sordo e una grande preoccupazione. Un periodo difficile per un attore comico che deve far ridere gli altri con la morte nel cuore. Alla guarigione del ragazzo si aggiungono i guai giudiziari per la famiglia Buzzanca, perché il figlio dell’attore deve rispondere di duplice omicidio colposo. Mario non ricorda niente della tragedia che non ha avuto testimoni e il processo si conclude con la sua assoluzione (7).

6. Il sequestro dell’opera sino alla sentenza definitiva

Nel 1973 una sentenza della  Corte di Cassazione relativa a I racconti di Canterbury di Pier Paolo Pasolini afferma che il film, pur assolto in primo grado dal tribunale di Benevento dall’accusa di oscenità, deve restare sotto sequestro fino alla sentenza definitiva. Si preparano tempi duri per registi, sceneggiatori, scrittori e pittori che vedono rientrare dalla finestra la vecchia censura cacciata dalla porta. Adesso è sufficiente una denuncia di un comune cittadino per bloccare una creazione dell’ingegno ritenuta oscena. Di solito i più bersagliati sono i film ad alto contenuto sociale, basti pensare alla storia di Rocco e i suoi fratelli, tartassato dai censori per ben otto anni. In tempi più recenti abbiamo Ultimo tango a Parigi, assolto in primo grado a Bologna, che resta sospeso a divinis per effetto della nuova pronuncia della Corte Costituzionale. Tenere un film congelato per anni e riproporlo in un periodo successivo non fa certo il bene del cinema che dovrebbe fotografare e analizzare il momento storico. Il problema di sempre è quello di stabilire il metro con cui si giudica se un’opera è sana o meno. Per esempio un film come In capo al mondo, noto anche come Chi lavora è perduto, girato da Tinto Brass nel 1963, viene bocciato dalla Commissione di revisione con questo giudizio: “offensivo del buon costume morale e sociale perché pare un film distruttore di tutti i valori morali e spirituali, oltre a essere antisociale e scurrile nel linguaggio”. Il pericolo di simili giudizi è quello di voler imbavagliare la cultura italiana in seguito a un’ondata di moralismo che travolge tutto e colpisce soprattutto i giovani registi. Resta un fatto che i censori toccano il meno possibile l’erotismo volgare prodotto solo per far soldi, secondo loro non è quella la produzione da combattere. I film più colpiti sono vere e proprie opere dell’ingegno che utilizzano il sesso come parte di una storia che vuole fare un discorso sociale e politico. Il sesso ha di per sé una funzione evolutiva, di rottura, e non c’è niente di contrario al buon costume nell’evoluzione dei tempi, dato che reprimere in nome del pudore vuol dire non accettare la realtà e reagire in modo bigotto e confessionale. Il sequestro dell’opera fino alla sentenza definitiva è un vero e proprio bavaglio alla libertà di espressione artistica. Una ventata moralistica spinge la magistratura in un vicolo cieco che apre un periodo buio per il cinema italiano.

7. I guai giudiziari di Lea Massari

Anna Maria Massatani in Bianchini, detta Lea Massari, nasce nel 1934 ed è una delle nostre migliori attrici degli anni Sessanta – Settanta. Esordisce appena ventenne in Proibito di Mario Monicelli (1954) e impone la sua bellezza misteriosa nel successivo I sogni nel cassetto di Renato Castellani (1957). Alterna con la stessa bravura ruoli drammatici a brillanti che sa rendere bene per via della sua grande presenza scenica. La ricordiamo ne L’avventura di Michelangelo Antonioni (1960) dove interpreta Anna, una ragazza nevrotica che scompare nell’isoletta Lisca Bianca. Recita con i migliori registi italiani e i suoi film più riusciti sono: La giornata balorda di Mauro Bolognini (1960), Una vita difficile di Dino Risi (1961) e Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy (1962). Lea Massari, però, non riesce mai ad avere un buon rapporto con il cinema italiano e, in un certo periodo della sua carriera, è forse più popolare in Francia che in Italia. Nei primi anni Settanta recita con Claude Sautet ne L’amante (1970) e con Louis Malle nel discusso Soffio al cuore (1971). Lea Massari termina la sua carriera nel 1974 con l’importante Allonsanfan, diretto dai fratelli Taviani, pure se la rivediamo per l’ultima volta nel 1991 in Viaggio d’amore di Ottavio Fabbri.

Alla fine del 1971, Oreste Del Buono definisce Lea Massari “la mia attrice dell’anno” e la intervista per il popolare settimanale L’Europeo sulla sua carriera cinematografica (8). Il giornalista non ha tutti i torti, visto che nel decennio 1960 – 1970 Lea Massari fa molta buona televisione e ottimo cinema. Il suo destino però è quello di essere discussa in patria e apprezzata in Francia, dove è quasi costretta a emigrare per continuare a lavorare. È dopo il suo secondo film francese, Soffio al cuore di Louis Malle, che i problemi di Lea Massari diventano giudiziari e passano per le aule dei tribunali. Il contestatissimo film è ambientato nella Francia degli anni Cinquanta e racconta l’iniziazione sessuale di un giovane (Benoît Ferreux) che culmina nell’incesto con la madre italiana (Lea Massari). Sono proprio le piccanti scene di sesso tra madre e figlio che scandalizzano la bigotta magistratura italiana. In realtà Malle vuole soltanto demistificare un tabù, così come ne Les amants era stato uno dei primi registi francesi a mostrare scene di sesso esplicito. Tutto questo in Italia non viene capito. Lea Massari si sente perseguitata in patria e confessa a Oreste Del Buono che, dopo questo film, ogni volta che torna a Roma non vede l’ora di ripartire per Parigi. L’avvocato Massaro la difende dalle ingiuste accuse che le piovono addosso e cerca di convincere i giudici sul valore artistico di Soffio al cuore.  È il marito Carlo, pilota Alitalia, ad avvisare Lea che Soffio al cuore è stato sequestrato in Italia con l’imputazione di “atti osceni in luogo pubblico” e addirittura per “corruzione di minorenne”, a causa delle scene incestuose. L’attrice sulle prime ha una reazione sconcertata ma non dà molta importanza al fatto, ci ride sopra, le pare tutto uno scherzo. Lea non ha figli, solo un marito pilota che sta studiando per comandare i voli internazionali, due pappagalli, due canine pechinesi e uno spinone da caccia. L’attrice è una perfetta donna borghese che ha raggiunto il successo e lo vive con serenità, rassicurata da un uomo innamorato e dalle sue grandi passioni come la pesca e la musica brasiliana. Lea Massari ha pure un domestico di nome Tzounga che si è portato in Italia dopo un viaggio in Madagascar, dove è stata in vacanza con il marito. Tzounga è il cameriere durante la vacanza della coppia e quando loro tornano in Italia li supplica di portarlo a Roma per sottrarlo a un padrone dispotico. Tzounga si licenzia, fa una sorta di sciopero della fame e attende di essere chiamato, al punto che Lea ne ha compassione e decide di farlo venire a servizio in Italia, Tutto questo per dire che l’attrice non ha figli, ma è una donna dal cuore d’oro, che ama gli animali e non può veder soffrire il prossimo. L’incesto è la cosa più assurda di cui più essere imputata e l’accusa di corruzione di minori è davvero folle, visto che il minore in questione è l’attore maggiorenne Benoît Ferreux. Così come è assurda l’imputazione di “atti osceni in luogo pubblico”, dato che la storia raccontata nel film ha un valore simbolico e demistificante, ma non è certo vera. Lea Massari è sconvolta dalle accuse, prova a scherzarci sopra, ma alla fine si rende conto che c’è poco da ridere. I giudici italiani, quando si tratta di “atti osceni”, fanno sul serio e il marito è preoccupato per il grande accanimento processuale (9).

Lea Massari ha un precedente giudiziario simile che risale al 1966 ed è relativo allo spettacolo teatrale Emmetì, scritto e diretto da Squarzina. La scena incriminata vede la Massari ubriaca davanti al suo amante mentre le grida tutto il suo disprezzo. L’attrice si spoglia e provoca l’amante e la sua futura moglie mettendo in mezzo anche la sua fede cattolica. A questo punto l’uomo si toglie la cinghia dei pantaloni per colpire e i due terminano sul letto con la Massari che confessa il suo amore. Per questa scena Lea Massari è accusata dal magistrato di “atti osceni in pubblico” e “vilipendio della religione cattolica”. Infatti l’attrice grida: “Portala pure a messa la tua futura moglie!”. Per risposta lui si sfila la cinghia. In ogni caso il finale della commedia è rassicurante perché i due si sposano e la lite resta come breve parentesi negativa. Pare evidente che l’accusa di “vilipendio della religione” è forzata ed è la prima a cadere senza troppi problemi. Per gli “atti osceni” la battaglia giudiziaria è più dura, ma è facile dimostrare che Lea Massari resta in sottabito nero (per niente trasparente) lungo sino a metà gamba. Il magistrato insiste sulla lubricità insita nel particolare della cinghia sfilata, ma la Massari ribatte: “Crede davvero che per calarsi i pantaloni e fare l’amore ci sia bisogno di sfilarsi la cinghia?”. Il processo finisce bene proprio per la prontezza di Lea Massari che interroga il giudice come uomo (10).

In ogni caso il vero problema giudiziario di Lea Massari resta la relazione incestuosa tratteggiata in Soffio al cuore e al proposito pare illuminante una dichiarazione dell’attrice: “È difficile spiegare a uno che non è dell’ambiente quanto sia lontana dalla lubricità e dall’erotismo, l’esecuzione della scena di un film. Prendiamo la scena tra me e Ferreux, una scena quasi tutta primi piani, ogni primo piano staccato dall’altro, girata tra una quantità di persone, una quantità di volte… E gira la testa, tira su il naso, scuoti i capelli, muoviti a destra, muoviti a sinistra, ripetiamo ancora, eccetera…  Difficile spiegare a uno che non è dell’ambiente, che non solo la storia di un film non è mai realtà, è sempre finzione, ma che anche nella finzione la storia non si svolge compattamente dall’inizio alla fine, piuttosto è franta, rifranta, scucita, cucita, sottratta, addizionata di vari momenti indipendenti, anzi delle varie immagini e dei vari suoni indipendenti, di vari momenti indipendenti…” (11).

Lea Massari si sente straniera in patria, soprattutto snobbata dal cinema italiano che finisce con l’interessarsi a lei solo per lo scandalo provocato da Soffio al cuore.  In questo periodo infatti si fanno avanti molti produttori che non vogliono scritturare l’attrice Lea Massari, ma l’imputata di atti osceni che può far cassetta nel suo prossimo film se conterrà ancora scene piccanti. Lea Massari rimpiange di aver sempre mancato la grande occasione per affermarsi nel cinema italiano quando Federico Fellini la scarta dopo un provino per La dolce vita. L’attrice si presenta per il ruolo di Anouk Aimée, ma il regista non la prende perché cerca una magra nervosa e lei si mostra in vesti da maggiorata. Lea Massari non ha mai avuto un buon rapporto con il cinema italiano ed è lei stessa a confessare: “Mi chiamavano solo se Tina Pica era occupata”. Ed è così che preferisce fare Caroselli pubblicitari e televisione piuttosto che pessimi film, fino alla grande occasione che però passa per la Francia e per i guai giudiziari che l’attendono dopo l’uscita di Soffio al cuore.

8. Ultimo tango a Parigi

Un film che provoca grande scandalo e che ricordiamo per l’accanimento dei censori è senza dubbio Ultimo tango a Parigidi Bernardo Bertolucci (1972), poetico e cupo dramma che descrive la solitudine di un uomo e una donna (Marlon Brando e Maria Schneider) che comunicano solo attraverso il sesso all’interno di un appartamento deserto, senza sapere niente l’uno dell’altra, neppure i nomi. I dialoghi sono forti e dissacranti, ma soprattutto ciò che scandalizza i censori è la sequenza in cui Brando sodomizza la Schneider con l’aiuto di un panetto di burro. Il film viene subito sequestrato sotto l’impulso moralizzatore dei critici bigotti e reazionari, mentre la critica di sinistra grida allo scandalo. La cosa assurda è che quattro anni dopo il film è addirittura condannato al rogo, in un clima da caccia alle streghe e da tribunale inquisitorio. Marlon Brando è Paul, uno straniero a Parigi sconvolto dall’improvvisa morte della moglie, che nelle prime sequenze del film vediamo camminare da solo per strada. Marlon Brando veste con un cappotto marrone e sotto indossa solo una maglietta nera, la sua caratterizzazione del personaggio squallido e disperato è a dir poco perfetta. Viene raggiunto e notato dalla giovane Jeanne, interpretata da una convincente Maria Schneider. Per caso i due si ritrovano in un appartamento vuoto da affittare e lì dentro comincia un lungo viaggio predestinato tra maestro e discepolo. Nell’appartamento, che alcuni critici hanno paragonato a un tempio per la sacralità dell’iniziazione erotica che vi si consuma, si celebrano riti di amore e di libertà. Il Maestro però, dopo aver visitato per l’ultima volta la camera ardente della moglie Rosa, porta a termine il suo tragico viaggio dopo aver ballato l’ultimo tango con Jeanne. Il film si aggiudica il Prix Raoul Lévy a Parigi, il Nastro d’argento 1973 per la migliore regia, la Grolla d’oro 1973 e ottiene alcune nominations agli Oscar 1974 per la migliore regia e il migliore attore protagonista. Da citare la stupenda musica di Gato Barbieri che sottolinea la drammaticità della trama.  Il film è il vero capolavoro di Bertolucci che resta nella storia del cinema grazie a questa opera fondamentale che censori ottusi e incolti hanno limitato a una scena di sodomizzazione. Marlon Brando è fantastico nei panni del protagonista che rende perfetto e credibile. Maria Schneider invece resta vittima del suo personaggio e non ne uscirà più nei film successivi, al punto che la stampa si accanirà su di lei scavando sulla sua vita privata. Maria Schneider è una ragazza inquieta, figlia illegittima dell’attore Daniel Gélin, nata da una sua relazione extraconiugale al tempo in cui l’attore si drogava. Maria è un’attrice che si impone all’attenzione del pubblico con la famosa scena di sodomia, ma dopo Ultimo tango non gira molti film.  I registi la cercano ma lei litiga prima con Brass per un Caligola troppo spinto, poi con Buñuel sul set di Questo oscuro oggetto del desiderio. Nel caso di Buñuel c’è chi sostiene che sia stato il regista spagnolo a estrometterla dal film dopo aver visto le sue scarse capacità artistiche. Le cronache si occupano a lungo di lei e del suo amore omosessuale per Jean Patrice Townsend che nel settembre 1976 frutta alle due donne a una condanna per atti osceni in luogo pubblico. Un’insolita love story porta la Schneider e la Townsend al ricovero nell’Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma. La Townsend viene ricoverata in stato confusionale dopo una lite di gelosia con l’amica, però Maria non vuole lasciarla sola e chiede di dividere con lei il ricovero ospedaliero. Secondo le testimonianze degli infermieri le due ragazze durante il ricovero si lasciano andare a effusioni molto evidenti che mettono in imbarazzo il personale sanitario. Le due ragazze fanno l’amore dove capita, sia sul letto della stanza che dividono che nella vasca da bagno, scandalizzando chi deve assisterle. I giornali intervistano le suore dell’ospedale che si dicono sconvolte dalle “languide carezze” e dai “baci appassionati” che le due internate si scambiano. Ne viene fuori uno scandalo giudiziario che coinvolge il personale medico dell’Ospedale, reo di aver acconsentito al ricovero di Maria su sua semplice richiesta. Si prospetta il reato di abuso di atti d’ufficio per aver ammesso in ospedale un soggetto sano senza aver accertato il suo stato di salute.  Pochi giorni dopo lo scandalo si affievolisce perché Joan viene dimessa con la diagnosi di subeccitazione e Maria esce con lei. La coppia continua a scandalizzare con la pretesa di voler adottare un bambino oppure di volerlo “fabbricare con il concorso occasionale di un uomo” (sono parole loro) (12). Forse sono scandali costruiti ad arte per restare al centro dell’attenzione e per fare notizia, però Maria esce ugualmente di scena se ci ricordiamo ancora di lei è solo per merito del film di Bertolucci. Ultimo tango si conquista la fama di film maledetto anche per queste piccole cose e perché Marlon Brando dichiara che il film lo lascia svuotato e devastato e che mai più si farà coinvolgere emozionalmente in un modo così distruttivo. Ultimo tango è un’opera d’arte perfetta e irripetibile, tutte le sue componenti (la fotografia di Storaro, la musica di Gato Barbieri, il montaggio di Franco Arcalli) confluiscono in un lavoro ben diretto dal regista. Nell’estate del 1972 Bertolucci presenta a Venezia, durante le Giornate del Cinema Italiano, due sole sequenze del suo film: l’incontro tra i due amanti nell’appartamento vuoto da affittare e lo straziante e disperato monologo di Brando davanti al cadavere della moglie. La proiezione desta subito scalpore e contrasti. Ultimo tango viene proiettato integralmente, in anteprima mondiale, la sera del 14 ottobre 1972 a New York durante il Film Festival. È uno strepitoso successo. Pauline Kael, critica cinematografica del settimanale New Yorker, scrive: “Questo è un film del quale la gente discuterà fino a quando ci saranno dei film”. In Italia Ultimo tango viene bocciato dalla Commissione Ministeriale. In appello la censura italiana concede il nulla osta al film, in cambio di otto secondi di tagli. Nel dicembre del 1972, a Parigi, avviene la prima europea in versione integrale e il 15 c’è la prima proiezione italiana al festival di Porretta Terme. Fra il 16 e il 20 il film esce a Roma e Milano registrando incassi record. Il 21 il PM romano Niccolò Amato ordina il sequestro con l’accusa di “esasperato pansessualismo fine a se stesso” e va notato che lo stesso giorno, a Parigi, il film riceve il premio Raoul Lévy. Una nuova denuncia per oscenità viene presentata da uno spettatore di Porretta Terme e il processo è trasferito al tribunale di Bologna. Comincia per il film e il regista, un lunghissimo iter giudiziario che si celebra in un clima da caccia alle streghe.Infatti, nel gennaio del 1976 si arriva alla assurda condanna definitiva che prevede il rogo di tutte le pellicole. Dice Bertolucci: “Mi sentivo malissimo e siccome non riuscivo a accettare la punizione che arrivava dalla Cassazione, scrissi una lettera al Presidente della Repubblica Giovanni Leone, chiedendo la grazia, come si fa con i condannati a morte. Mi rispose con una lettera molto tecnica, da esperto di diritto. In sostanza mi diceva che non era possibile concedere la grazia, però era lecito salvare due o tre copie del film, come si conservano i corpi di reato nei musei criminali” (13). Per fortuna tre copie di Ultimo tango vengono salvate dal rogo e conservate alla Cineteca Nazionale, di modo tale che oggi il film si può ancora vedere in tutta la sua sconvolgente bellezza. La cosa assurda è che Bertolucci viene condannato a due mesi più la condizionale per aver girato un’opera d’arte. Per la sentenza, il regista è colpevole di avere offeso il comune senso del pudore e ne consegue che viene privato dei diritti civili e per ben cinque anni non può votare. La vicenda ha dell’incredibile e adesso possiamo solo constatare che, passata l’ondata moralistica e cambiati i tempi, per fortuna abbiamo potuto apprezzare senza troppi tagli il film di Bertolucci. Le peripezie del film vengono spiegate in modo originale nel libro di Gabriella Pozzato intitolato Ultimo tango: il mistero svelato (Cucinema.com, Milano 2004). Nel libro si percorre un viaggio iniziatico dentro al film. Dietro l’intenso Marlon Brando, lo straniero a Parigi, sembra nascondersi un personaggio scomodo e rivoluzionario, portatore di un nuovo linguaggio (14).

9. I messaggi trasgressivi di Non si sevizia un Paperino

Questo thriller a tinte cupe e dai risvolti macabri ambientato in un paesino del sud Italia, quasi certamente delle Puglie perché nel film si nominano Alberobello e Pugnochiuso, è una delle cose migliori realizzate da Lucio Fulci. Thriller insolito per un’epoca moralista e bacchettona come quella dei primi anni Settanta che vede la Democrazia Cristiana alla guida dell’Italia e uno stuolo di giudici pruriginosi asserviti a un potere che asseconda la volontà della Chiesa. Il film parla di bambini strangolati, affogati e barbaramente uccisi e l’indagine condotta dalla polizia porta a sospettare prima dello scemo del paese, poi di una maciara (una specie di strega) e infine di Patrizia, una ragazza bella e ricca con problemi di droga. Alla fine si scopre che l’assassino è il prete, reso folle dal suo credo religioso portato alle estreme conseguenze. Lui non vuole che i ragazzi crescano e che si corrompano con il sesso e con la vita, vuole che rimangano puri come da bambini a giocare a calcio sul sagrato della chiesa. L’ambientazione della pellicola è a dir poco perfetta. Pare di assaporarne gli odori e di toccarlo con mano questo estremo sud depresso e in preda a superstizioni e diffidenze. Il film comincia con una donna che scava i poveri resti d’un bambino seppellito al bordo d’una strada. Si scoprirà solo dopo che è suo figlio e che lei è considerata da tutti una maciara, una sorta di strega. Tre bambini del paese hanno profanato la tomba del figlio. Subito dopo una Fiat Cinquecento (simbolo di un’epoca) arranca per una salita, scendono due uomini e due donne (di sicuro prostitute) che entrano in una casa di legno per fare l’amore. Intorno alla casa ci sono i bambini del paese che cercano di spiare il convegno amoroso e lo scemo del paese fa altrettanto. I bambini lo deridono e cominciano a cantare: “Lo scemo si fa le seghe…”. La camera si sposta di nuovo sulla maciara che sta facendo una specie di rituale vudù con bambolotti e spilloni. Altro cambio di scena e si passa alla sequenza incriminata del film, quella che tutti noi ragazzi degli anni Settanta ricordiamo con un misto di passione e di nostalgia: Barbara Bouchet (la ricca Patrizia) completamente nuda sdraiata su di un divano e un bambino che le serve la colazione. La sequenza è l’unica parte del film che contiene un alto grado di erotismo malsano. La donna incita il bambino più volte a guardarla, gli chiede quante ragazze ha avuto, domanda se gli piace il suo corpo, lo provoca. Barbara Bouchet è sensuale e maliziosa in questa scena che causò il sequestro del film. C’è chi dice che la produzione volle inserire la sequenza proprio per scatenare un caso e far salire l’interesse intorno alla pellicola, anche perché in sede di giudizio venne dimostrato che non era un bambino quello che recitava insieme alla Bouchet, ma un nano. Si trattava di Domenico Semeraro, “il nano della Stazione Termini”, che faceva spesso il caratterista cinematografico e che venne ucciso negli anni Ottanta in un tragico fatto di cronaca (15). In realtà quello del bambino fu solo un pretesto per sequestrare un film che i cattolici vedevano come il fumo negli occhi per via del messaggio che trasmetteva.

La pellicola in questa prima parte pare confusa ma non lo è, ogni scena ha la sua importanza e getta i fili di sospetti e sottotrame che si ricollegheranno successivamente fino al sorprendente finale. Fulci descrive pure la vita quotidiana del pese con pennellate da vero maestro. Tutto questo sino al primo delitto di un bambino che viene trovato strangolato nel bosco.  Quando suo padre riceve una ridicola richiesta di riscatto di soli sei milioni il primo a sospettare che hanno a che fare con un mitomane è un giornalista (un irriconoscibile Tomas Milian senza barba e privo del suo aspetto da trucido). In breve si arriva all’arresto dello scemo del paese che viene tradotto in carcere mentre grida che il bambino era già morto e che non è stato lui a ucciderlo. Prima la folla aveva tentato di linciarlo. Fulci a questo punto ci fa conoscere don Alberto Mallone, il prete del paese interpretato da un giovanissimo Marc Porel, intento a pregare sulla tomba del bambino ucciso. Si scopre che lo scemo è innocente quando viene rinvenuto in un lavatoio il corpo strangolato di un secondo bambino che come il primo non presenta tracce di sevizie. Di nuovo la camera di Fulci insiste sulla maciara e sui malefici riti con i bambolotti e gli spilloni. Il parroco confessa al giornalista che lui conosce bene tutti i bambini del paese, gioca persino a calcio con loro sul campetto dietro la chiesa. Si lascia andare a una critica dei tempi moderni così tristi e senza morale, con la gente che va al cinema, guarda la televisione e compra giornali osceni. La figura di questo prete retrogrado e moralista è un segno dei tempi e Fulci critica con un personaggio quasi caricaturale un certo modo di intendere religione e morale. Il prete aggiunge pure che grazie a lui e al suo amico edicolante “certe riviste” non arrivano in paese. Quando passa Patrizia che indossa una sgargiante minigonna rossa il prete è in forte imbarazzo, il giornalista ironizza che con lei in paese la morale è in pericolo e la ragazza si prende gioco di don Alberto chiedendo quando è che i preti potranno sposarsi. Barbara Bouchet interpreta il personaggio di Patrizia, la ragazza di buona famiglia, ricca ma viziosa, presa in certi giri di droga e che il padre ha spedito al paesello per tenere sotto controllo. Certo che la sua presenza moderna e provocante contrasta in modo palese con lo stile di vita degli abitanti del posto. Patrizia diventa amica del giornalista e si confida con lui, ma quando muore strangolato nel bosco un terzo bambino la polizia comincia a sospettare di lei che non ha un alibi per la notte dell’omicidio. Tra l’altro il bambino che muore è proprio quello che l’ha vista nuda e il giorno prima aveva fatto un disegno che ritraeva le forme di una ragazza. Le indagini subiscono una svolta improvvisa dopo il funerale del terzo bambino, quando una telecamera riprende la maciara mentre entra in chiesa dopo tutti e ne esce quando una donna del pubblico grida che l’assassino è tra di loro. Poi un mago locale che tutti chiamano zio Francesco conferma che la donna è una maciara, una che fa strani riti e stregonerie. Durante l’interrogatorio la maciara confessa di essere l’assassina e di aver mandato la morte sui tre bambini colpevoli di aver profanato la tomba del figlio. Però aggiunge che non ha strangolato nessuno, lei ha chiesto a zio Francesco come si faceva e ha inviato una maledizione sui ragazzi. Stupenda interpretazione di Florinda Bolkan, che tra l’altro recita una scena di epilessia da manuale e dopo racconta la sua fattura di morte a base di spilloni e pupazzi. Procuratore e maresciallo comprendono che hanno a che fare con una pazza invasata e che non è lei l’assassina. La maciara viene liberata ma la superstizione popolare l’ha già condannata e subito dopo quattro uomini la massacrano a colpi di bastone e di catene di ferro. La scena dell’omicidio della maciara è una delle più violente e ben girate del film, cruda al punto giusto, realistica, credibile. Si intravede la bravura di un regista che in seguito sarà capace di realizzare capolavori di splatter e di gore. La donna muore nel cimitero del paese sotto i colpi violenti che la sfigurano e che le lacerano le carni mentre per contrasto una radio a tutto volume diffonde la voce di Ornella Vanoni mentre canta la romantica “Quei giorni insieme a te” di Riz Ortolani. Notevole pure la scena che riprende la maciara mentre si spinge a fatica fuori dal cimitero e va a  morire sulla tomba del figlio. Il giudizio del procuratore è la dura accusa lanciata da Fulci: “Abbiamo costruito le autostrade ma non abbiamo sconfitto la superstizione”. A questo punto i sospetti si appuntano su Patrizia e il regista è bravo a farlo credere sino in fondo, inquadrando la Bouchet prima mentre compra una bambola alla sorellina sordomuta del prete e poi mentre a bordo della sua auto sportiva si fa aiutare nel bosco da un bambino a cambiare una gomma. Nel frattempo don Alberto sta cercando lo stesso bambino nel bosco, lui sa che è andato a spiare le prostitute che fanno l’amore (“Così giovane e già così corrotto” mormora). Il giorno dopo quel bambino viene trovato affogato nel fiume e sul luogo del delitto il giornalista recupera l’accendino d’oro di Patrizia (è un Cartier e soltanto lei in paese se lo potrebbe permettere). Pare che tutto sia contro la donna, persino l’amicizia che ha con zio Francesco, la sua passione per la magia nera e il brutto vizio di fumare marijuana. Però la svolta decisiva alle indagini è la testa di un Paperino ritrovata sul luogo del delitto, una testa di Paperino che Fulci utilizzerà ancora a mo’ di omaggio al suo film più famoso nel successivo Lo squartatore di NewYork. Il Paperino è un pupazzo della sorella sordomuta del prete, una bambina di sei anni che ha visto l’assassino uccidere e quindi ha imitato la stretta al collo sul bambolotto facendone cadere la testa. Donna Aurelia (un’Irene Papas sotto utilizzata), la madre del prete, ha paura e scappa sulle montagne per portare via la bambina da casa. Lei sa che suo figlio è pazzo e che la ucciderebbe di sicuro. Don Alberto insegue la mamma e le strappa la figlia per cercare di gettarla nel dirupo. Il finale è drammatico. Patrizia e il giornalista arrivano in tempo per fermare il prete al culmine della sua follia religiosa. “Non posso lasciare che mi fermino, io li amo come fratelli e non abbandonerò i miei fratelli” dice mentre la bambina è nel vuoto. Il giornalista gli toglie la bambina dalle mani e dopo una scazzottata finale che coinvolge pure Patrizia è il prete che ha la peggio e precipita nel vuoto. Il folle don Alberto voleva impedire ai bambini di crescere e di avere una loro vita da adulti, il suo senso del peccato era così forte da sfociare in una follia omicida.

Secondo noi un film notevole, sia per la forza e per la violenza esplicita di alcune scene (il massacro della Bolkan, i bambini uccisi…), sia per il messaggio critico verso una società provinciale e bigotta come quella italiana degli anni Settanta. Da non dimenticare una perfetta ambientazione in un realistico Sud Italia e una costruzione senza sbavature da thriller orrorifico che fa conoscere l’identità dell’assassino solo nelle ultime sequenze. Riporto per intero il giudizio di Paolo Mereghetti: “Un film importante per la genesi del thriller italiano, in cui Fulci dimostra di conoscere perfettamente i meccanismi della paura; con in più il merito di discostarsi dai canovacci del cinema alla Argento, all’epoca già inflazionati, puntando invece sull’ambientazione insolita (con gli omicidi compiuti alla luce del sole) e su un’atmosfera morbosa tra sacro e peccato originale” (16). A Marco Giusti invece il film è piaciuto meno, forse perché come spesso gli capita non lo ha visto, infatti su “Stracult” scrive che la Bouchet interpreta una certa Barbara che non esiste (è Patrizia), poi si lascia andare alla definizione di “thrillerone meridionalista ultragore su un serial killer di bambini nel profondo sud” che non si può condividere. Giusti insiste dicendo che la Bolkan viene “lapidata dai suoi compaesani” e pure questo non è vero perché la maciara è uccisa con bastoni e catene da quattro persone e non con lancio di pietre nella pubblica piazza. Si va avanti con altre prelibatezze come quelle del prete “pedofilissimo”, mentre la pedofilia ci sta come il cavolo a merenda in una pellicola anni Settanta che non poteva occuparsi di un fenomeno al tempo sconosciuto. Ancora: “Fulci si scatena nella crudeltà e nell’eccesso” e pure questo non è vero (17). Il film presenta alcune scene violente ma del tutto funzionali e necessarie allo sviluppo della storia. L’unica cosa che concordiamo con Giusti è sulla necessità di procurarsi una VHS uncut per godere tutta la bellezza del film, dato che in televisione passa da anni una versione tagliatissima ai limiti dell’inguardabile. Il film viene stroncato pure da Manolo Morandini che bolla Fulci di “disonestà intellettuale nell’impiego della suspense, abuso di particolari orripilanti, sadomasochismo a piene mani, recitazione a ruota libera, disprezzo della logica” (18). Ovvio che non condividiamo e che preferiamo la tesi di Antonio Tentori che definisce il film come “un racconto nero di uccisioni di adolescenti e di follia ossessiva”. Per Tentori “Fulci costruisce un giallo sui generis, inedito nel modo in cui affronta le tematiche della suspense e della paura”. Il critico romano conclude che è “geniale l’idea del peccato e della pena del contrappasso per l’adolescente colpevole di comportarsi come un adulto, così come è notevole la figura del prete assassino che uccide perché vuole conservare la purezza dei suoi bambini” (19).

10. La commedia erotica

Negli anni Settanta dalle ceneri del decamerotico e dalla commedia all’italiana nasce e si sviluppa anche la moderna commedia erotica che ha come capostipite Malizia di Salvatore Samperi (1973). Laura Antonelli diventa il sex symbol per eccellenza e dà il via a un gruppo di attrici come Gloria Guida ed Edwige Fenech che costituiscono l’ideale femminile dei maschi italiani dopo la politicizzazione estrema. Il successo di Malizia detta le regole per la confezione del nuovo filone: un ambiente di provincia, nel quale il pubblico medio si riconosce, un titolo ammiccante e un bel manifesto che che suggerisce una situazione erotica, l’attrice giusta che deve essere bella, provocante, ma anche non troppo famosa per esprimere una sessualità alla portata di tutti. La struttura delle trame deriva dalla commedia all’italiana ma anche dal feuilleton e dallo stile fotoromanzo che al tempo conta cinque milioni di lettori. La famiglia è il luogo privilegiato per il rapporto sessuale proibito, giocato sulla falsariga della trasgressione continua, ma anche la scuola e gli ambienti di lavoro (soprattutto ospedali e caserme) sono molto gettonati. Questi film subiscono tutti una censura preventiva con regolare divieto ai minori, pure se l’argomento è quasi sempre scherzoso e divertente e non sconfina mai nel morboso. Il successo di Laura Antonelli e Salvatore Samperi prosegue con Peccato veniale (1974) e sulla scia di questi film si pongono anche ottimi prodotti  come Il vizio di famiglia di Mariano Laurenti (1975) con la bella Edwige Fenech e L’infermiera di Nello Rossati con protagonista Ursula Andress. L’elenco delle commedie erotiche degli anni Settanta vietate ai minori, sforbiciate dalla censura e spesso aggiunte successivamente con scene hard, sarebbe interminabile. La commedia all’italiana si va esaurendo e porta Alberto Sordi a girare un film come Il comune senso delpudore (1976) dove in quattro episodi ironizza e attacca l’Italia sessuofoba, divisa tra sprovveduti perbenisti e moralisti dalla dubbia morale.

11. Salò o Le 120 giornate di Sodoma

Il panorama del cinema italiano è ormai così a base di sesso e i corpi sono talmente mercificati che Pier Paolo Pasolini si dichiara disgustato da ciò che lui stesso per primo aveva introdotto nel cinema. Pasolini fa l’abiura dalla Trilogia della vita e se ne allontana per sempre con un film come Salò o le 120 giornate di Sodoma(1975).

Il Salò di Pasolini è un film estremo che si ispira a De Sade e rappresenta la massima provocazione del regista nei confronti del pubblico. Esce nelle sale quando Pasolini è già morto e sconcerta un po’ tutti, benpensanti e moralisti in testa. Con l’aiuto del Castoro realizzato da Mauri proviamo a  commentare il film più discusso e controverso di Pasolini. La storia racconta di quattro Signori, rappresentanti di tutti i Poteri, il Duca (nobiliare), il Monsignore (ecclesiastico), Sua Eccellenza il Presidente della corte d’Appello (giudiziario) e il Presidente Durcet (economico), che si riuniscono in una villa assieme a quattro Megere, ex meretrici, e a una schiera di giovani ragazzi e ragazze, catturati tra i figli dei partigiani, o partigiani essi stessi. Repubblichini e soldati delle SS sorvegliano la villa isolata dal mondo dove per centoventi giorni vige un regolamento sottoscritto dai quattro Signori, che possono disporre della vita delle loro vittime tenute alla totale obbedienza. Le giornate si svolgono attraverso una struttura infernale dantesca, che corrisponde alle quattro parti (un Antinferno e tre Gironi), in cui è diviso il film. Le tre Megere raccontano le proprie perversioni sessuali nella cosiddetta Sala delle Orge, per eccitare i Signori ed educare i ragazzi alla soddisfazione dei loro appetiti sessuali. Il primo girone è quello delle Manie e i Signori esercitano una serie di sevizie sui corpi nudi o vestiti degli adolescenti, aiutati e rinforzati dai fedeli repubblichini. Tra le molte sevizie, primeggia quella di farli mangiare a quattro zampe, nudi, latranti come dei cani, degli scampoli di cibo gettati in terra o nelle ciotole, quando alcuni di questi bocconi di cibo sono riempiti, a sorpresa, di chiodi. Il Girone della Merda si svolge tutto all’insegna dell’analità e dopo le chiacchiere erudite dei signori, che citano Baudelaire, Proust e Nietzsche, abbiamo l’obbligo di cibarsi della propria merda. Il Girone del Sangue è il più efferato e si va verso un’orgia progressiva di torture, amputazioni, e varie uccisioni rituali con i Signori che si prodigano in balletti isterici e atti sessuali necrofili sulle vittime. L’epilogo del film è imprevisto perché nel bel mezzo della carneficina due giovani collaborazionisti cambiano canale alla radio d’epoca che trasmette i Carmina Burana di Orff, e improvvisano sulla canzonetta degli anni Quaranta Son tanto triste, motivo conduttore del film, qualche passo di valzer, pronunciando questo dialogo: “Sai ballare?” “No”. “Dai, proviamo. Proviamo un po’…” “Come si chiama la tua ragazza?” “Margherita”.

Un film imbarazzante che scatena un mare di critiche soprattutto per le scene di violenza estrema e gratuita, per la volgarità e il disgusto di numerose sequenze (vedi il Girone della Merda), per la gratuità della storia. Pasolini muore prima della fine del montaggio e non può difendersi, manca l’interlocutore alle polemiche anche se lui ha lasciato qualcosa di scritto sul film. Pasolini non riesce a realizzare i suoi progetti su San Paolo (Bestemmia) e sull’Ideologia (Porno-Teo-Kolossal) con Eduardo De Filippo. Porta a compimento invece l’idea di Sergio Citti che voleva produrre una sceneggiatura dalle Centoventi giornate di Sodoma di De Sade. Pasolini fa suo il progetto e sviluppa l’idea del “piacere” della violenza, delle sevizie e della perversione sessuale. L’ambientazione settecentesca viene trasferita nella Repubblica di Salò del 1944 perché lui è interessato a “vedere come agisce il potere dissociandosi dall’umanità e trasformandola in oggetto”.  Pasolini spiega Salò con queste parole: “Il sesso in Salò è una rappresentazione, o metafora, di questa situazione: questa che viviamo in questi anni: il sesso come obbligo e bruttezza. […]
Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto) che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c’è in Salò (e ce n’è in quantità enorme) è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione (magari onirica) di quella che Marx chiama la mercificazione dell’uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento). Dunque il sesso è chiamato a svolgere nel mio film un ruolo metaforico orribile. […] [Le mie Centoventi giornate di Sodoma si svolgono a Salò nel 1944], e a Marzabotto. Ho preso a simbolo di quel potere che trasforma gli individui in oggetti […] il potere fascista e nella fattispecie il potere repubblichino. Ma, appunto, si tratta di un simbolo. […] In realtà lascio a tutto il film un ampio margine bianco, che dilata quel potere arcaico, preso a simbolo di tutto il potere, e abbordabili alla immaginazione tutte le sue possibili forme. […] Nel potere – in qualsiasi potere, legislativo e esecutivo – c’è qualcosa di belluino. Nel suo codice e nella sua prassi, infatti, altro non si fa che sancire e rendere attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, diciamolo ancora una volta, degli sfruttatori contro gli sfruttati. […] I potenti di De Sade non fanno altro che scrivere Regolamenti e regolarmente applicarli” (20).

Enzo Siciliano scrive nel bel libro Vita di Pasolini edito da Giunti nel 1995: “Salò o le centoventi giornate di Sodoma è una sorta di saggio critico per immagini. Tema del saggio, nel quale il romanzo postumo di Sade viene assunto come provocazione intellettuale, è la mentalità concentrazionaria nazifascista, istigatrice di violenza. Ma i suoi temi sono anche la trasgressione e la morte. […] Sade mette in bocca ai propri personaggi discorsi di incontinente verbosità e narrazioni di una programmatica astrattezza. Ebbene, tanto spreco di parole e discorsi ha un fine preciso: ridurre l’azione romanzesca a rito e a emblema.
In Salò, ritualismo e emblematicità sadiani filtrano interi. I personaggi di Les 120 journées de Sodome interpretano, sulla pagina scritta, le proprie azioni al modo degli attori, non coincidendo mai con esse. Si verifica così un calcolato scollamento fra ciò che dicono e ciò che fanno. Pasolini punta deliberatamente a questo scollamento, a questa estraneazione teatrale, di cui Brecht è stato il teorico.
Salò, film brechtiano, film critico, film ritualistico, si apre con immagini di campagna padana: i nazifascisti vi compiono razzia di giovani. […] la cerimonia avrà inizio una volta che la razzia è accuratamente ultimata. […] Il potere è anarchia, dice Pasolini: il potere vuole abolire la storia e sopraffare la natura. Storia e natura possono essere abolite e sopraffatte attraverso il sesso.
La cronaca dei fatti umani suggerisce che durante la repubblica di Salò, col dominio dei nazisti, una tale sopraffazione, radicale e totale, avrebbe potuto compiersi. Ecco, quindi, nel film sotto il suggerimento di Sade, rendersi esplicita la metafora di quella apocalisse” (21).

Il film viene girato con difficoltà, tra le frequenti ribellioni degli attori, che cercano di rifiutarsi di eseguire i gesti osceni e di pronunciare le battute in maniera così cruda ed esplicita come li ha immaginati il regista. Pasolini insiste e obbliga con decisione a recitare secondo la sua volontà, ma purtroppo non fa in tempo a vedere, completo di montaggio, il suo film contro l’arroganza del potere. Quando Salò o le centoventi giornate di Sodoma viene proiettato in anteprima al Festival di Parigi, il 22 novembre del 1975, il regista è morto da tre settimane. Molti interpretano la sua morte per assassinio come una sorta di suicidio per procura, un gesto volutamente provocato da un uomo stanco di vivere, che cercava il pericolo e l’autoannullamento. Altri, rifacendosi alla violenta escalation della sua polemica politica degli ultimi mesi (era giunto a sostenere che occorreva una nuova Norimberga per la Dc), hanno adombrato il sospetto di una morte voluta da qualcuno, senza credere all’autonomia della colpevolezza di Giuseppe Pelosi, il ladruncolo minorenne che lo aveva ucciso.

Salò fu soggetto a traversie giudiziarie che vanno dall’imputazione per oscenità a quella di corruzione di minori, durate a fasi alterne fino al 1978. Tutto molto prevedibile e sia il regista che il produttore Alberto Grimaldi lo hanno messo in conto. Le reazioni dell’opinione pubblica non possono essere indifferenti, ma tutto sommato Pasolini vuole proprio ottenere questo risultato con il suo cinema di poesia portato alle estreme conseguenze. Salò è sottoposto a numerosi sequestri che ne fanno slittare l’uscita nelle sale di alcuni anni, tanto che Pasolini subisce un processo da imputato anche dopo morto. Il produttore Grimaldi viene prosciolto solo in appello dalle accuse di commercio di pubblicazioni oscene. Salò è un film che inquieta anche per la sua preveggenza e a differenza delle pellicole precedenti non lascia alcuna speranza. Può sembrare un testamento spirituale, un estremo tentativo di denuncia della trasformazione antropologica italiana e degli abusi, giudiziari e morali, che il regista subisce fino alla sua morte.

Il film di Pasolini conferma ed esaspera il discorso già cominciato da altri autori di film sequestrati e sforbiciati dalla censura come Marco Ferreri con La grande abbuffata (1973), un feroce atto d’accusa nei confronti di una società in via di autodistruzione. Il film continua a fare scandalo per gli eccessi di cui è portatore e viene fischiato al Festival di Cannes, pure se poi è premiato da un grande successo di pubblico. Difficile ancora oggi vederlo in versione integrale, pure se pare ne sia passata una tempo fa su Sky. Il portiere di notte di Liliana Cavani (1974) è un altro film scandalo che descrive il rapporto morboso di subordinazione tra Dik Bagarde e Charlotte Rampling, un ex ufficiale delle SS (adesso portiere di notte) e la sua vittima preferita (ora collaborazionista). Charlotte Rampling vestita con un cappello e il seno nudo coperto da un paio di bretelle è la scena che resta nell’immaginario collettivo. Nessuno di noi ha mai visto il film in versione integrale perché i sequestri sono stati innumerevoli e i tagli sproporzionati alla reale portata trasgressiva della pellicola. Sulla scia de Il portiere di notte Tinto Brass realizza nel 1975 un film come Salon Kitty, un erotico d’autore ambientato nel mondo dei nazisti che viene sforbiciato a dovere dalla censura. Il film viene più volte sequestrato e insieme al film della Cavani dà inizio al filone nazi-porno o nazi-erotico che dura alcuni anni.

12. Carmen Villani e la censura nella commedia sexy

La commedia sexy si fa beffe dei suoi censori (che sono molto inflessibili) con La pretora di Lucio Fulci (1976), un doppio ruolo molto spinto di Edwige Fenech che nel film fa da giudice e da porno star. La commedia sexy domina gli anni Settanta e con i suoi ultimi colpi di coda raggiunge la metà degli anni Ottanta. Il genere mostra ancora oggi tutta la sua freschezza e si vedono con piacere film con protagonisti Bombolo, Cannavale, Montagnani, D’Angelo che inventano gradevoli e pungenti spunti di satira sociale condita in salsa piccante. Le presenze femminili sono notevoli e tra attrici più amate dal pubblico ricordiamo Edwige Fenech, Gloria Guida, Femi Benussi, Nadia Cassini e Orchidea De Santis. Ma l’elenco sarebbe interminabile. La commedia scollacciata presta il fianco a vigili censori che spesso tagliano scene e fissano sconcertanti limiti ai minori per film tutto sommato innocui e divertenti. Un esempio eclatante di attrice sforbiciata dalla censura sono i film interpretati da Carmen Villani che incontrano ostacoli quasi a ogni loro uscita. La bionda attrice modenese comincia come cantante e conquista grande notorietà per le sue doti canore ma anche per la sua sensualità e il carattere disinibito. Il suo primo successo musicale si chiama “Bada Caterina” e la porta subito in vetta alla Hit Parade italiana. In televisione lavora come conduttrice di numerosi varietà dell’epoca insieme al duo comico Ric e Gian e in coppia con Pippo Baudo porta avanti il varietà della domenica pomeriggio di Rai Uno “Domenica con noi”. A partire dal 1975 il suo successo televisivo registra un declino e contribuisce alla decisione della Villani di sfruttare la sua notorietà interpretando diverse pellicole che restano pietre miliari della commedia sexy italiana. La Villani trova un posto nel genere interpretando una supplente, nel film omonimo e nel sequel apocrifo, sempre alle prese con adolescenti e spasimanti vari. Carmen Villani è moglie del regista Mauro Ivaldi (vero nome Mauro Orecchia) e questa cosa favorisce il suo passaggio al mondo del cinema, tanto che molti suoi film vengono girati dal marito. L’amica di mia madre (1975) è l’esordio sexy di Carmen Villani che recita a fianco di Barbara Bouchet ed è la bella e disinibita Andrea che fa innamorare Roberto Cenci sempre indeciso se farsi lei o la Bouchet. Cenci (che adesso fa il regista per Mediaset) è una costante di questo tipo di pellicola e anche quando lui manca fisicamente torna il suo personaggio del ragazzino imbranato a caccia di avventure e di iniziazioni sessuali. Il film è girato in Columbia e ha una bella location esotica, pure se non è certo un capolavoro, né come storia né come umorismo. Tra l’altro promette molto di più di quanto mantiene perché sia la Bouchet che la Villani mostrano poco o niente. Il personaggio di Carmen Villani è quello di una donna libera che si comporta da maschiaccio ma che sprizza sensualità da tutti i pori. La Villani lo rende a dovere per mezzo di una recitazione sopra le righe e fa di Roberto Cenci il capro espiatorio di tutte le sue esagerazioni. Barbara Bouchet interpreta l’amica parigina che svezza il ragazzo e poi se ne torna in Francia lasciandolo di nuovo nelle mani di Andrea. Nonostante questo il film ha seri guai con la Commissione di censura ministeriale che nel gennaio 1975 lo boccia in prima istanza a causa di alcune sequenze giudicate troppo audaci. Ivaldi si difende così: “Le scene incriminate raffigurano solo le emozioni e le reazioni, sia di carattere psicologico che erotico, vissute dal protagonista, un ragazzo di sedici anni che viene continuamente provocato dalla vicinanza di belle donne” (22). La pellicola ottiene il nulla osta per la programmazione solo il 28 febbraio del 1975 e il sequestro provoca molta pubblicità al film, tanto che al botteghino incassa oltre un miliardo di lire. Ecco linguad’argento(1976) è un sequel leggermente più spinto de L’amica dimia madre ed è sempre diretto da Ivaldi. Gli interpreti sono quasi gli stessi del film precedente, con la Villani nei panni di Andrea e Roberto Cenci (il suo vero nome è Pace) che interpreta Billy, solo che al posto della Bouchet troviamo Nadia Cassini (la bionda psicanalista Emmanuelle) in uno dei suoi primi  film erotici. Da segnalare pure la presenza di Gianfranco D’Angelo ed Enzo Andronico. Marco Giusti su Stracult lo definisce un turistico – esotico e in parte è vero per una ben riuscita ambientazione tunisina (si vuol far credere che siamo in Colombia), ma in realtà si tratta del solito film erotico all’italiana neppure troppo divertente. Carmen Villani è la fidanzata di Roberto Cenci che se la fa con Nadia Cassini, lei diventa gelosa e torna a riprendersi il ragazzo. Niente di speciale, davvero. Il cult sta solo nella presenza di due donne splendide come la Villani e la Cassini (in un’inedita veste bionda). Il film però scandalizza i censori e il pubblico benpensante più per quel che promette che per il suo reale contenuto. Il titolo è ammiccante al punto giusto e incuriosisce, poi c’è una sequenza onirica con la Villani vestita da kapò tedesco che fuma il sigaro e se ne sta seduta a gambe larghe in una posa abbastanza spinta. L’unica scena davvero erotica è la prima sequenza del film con la Villani che guarda intensamente la macchina da presa e chiede di inquadrarle il volto invece delle gambe. Per tutto il resto della pellicola invece ci sono solo innocenti scene comico – erotiche. Nonostante tutto viene bocciato due volte dalla censura e pensare che visto oggi pare un film per ragazzini. Il titolo gioca sull’ambiguità erotica ma ufficialmente si riferisce al difetto di pronuncia del protagonista Roberto Cenci. La sesta Commissione di censura ministeriale lo ferma in prima istanza nel marzo 1976 e verso la fine dello stesso mese la settima e l’ottava Commissione lo cassano definitivamente. Lingua d’argento può solo sperare in un nuovo appello ma dopo aver cambiato il titolo e aver fatto un nuovo montaggio. L’ultima decisione è molto combattuta e la votazione vede cinque membri a favore e sei contro, tanto che la Villani è scandalizzata: “Hanno parlato di oscenità e di atti di libidine, ma io sono una persona sana. Non mi sento una vittima perseguitata dalla censura. Il mio film non è offensivo della morale: è una  favola estetica del tutto corretta che non cerca l’alibi politico o falsamente impegnato per contrabbandare scene erotiche gratuite” (23). Adriano Bolzoni, rappresentante degli autori all’interno della commissione, si dimette indignato perché i censori non prendono in considerazione le offerte di alleggerimento erotico da parte del regista. Il film viene ribattezzato Ecco lingua d’argento e, amputato delle sequenze più spinte, ottiene il nulla osta della censura il 29 aprile 1976, ma il successo non è pari al precedente film. Un anno prima la Villani interpretaLa supplente(1975), diretta da Guido Leoni. Il film non è molto spinto, soprattutto la Villani si spoglia davvero poco e lascia il compito alle più disinibite Dayle Haddon, Ilona Staller e Gloria Pindemonte. La storia è abbastanza semplice e vede la giovane supplente Carmen Villani prendere il posto della vecchia professoressa Scipioni e attizzare l’interesse erotico di professori e studenti. Inutile dire che questo ruolo di supplente super sexy è costruito su Carmen Villani a imitazione de L’insegnate di Nando Cicero (1975) con Edwige Fenech ed è pure debitrice degli intrighi erotici de La liceale di Michele Massimo Tarantini (1975) con Gloria Guida. La presenza di Carlo Giuffrè rende la commedia a tratti piacevole e divertente, il bravo comico napoletano è un aitante professore di ginnastica che se la fa con la supplente ma poi cede il passo di fronte al più giovane Stefano (Eligio Zamara). Dayle Haddon nei panni della sorella della supplente va oltre i limiti del consentito e fa vedere tutto quello che la Villani tiene nascosto. Il film è un successo, pure perché la commedia erotica di ambientazione scolastica va alla grande. La storia non ha niente di porno e infatti la censura concede il nulla osta il 10 ottobre 1975. Il film però viene sequestrato dietro ordine della magistratura romana pochi giorni dopo l’uscita ed è giudicato per competenza dalla magistratura fiorentina perché la prima uscita è avvenuta nel capoluogo toscano. Nel gennaio 1976, il film di Leoni è assolto dall’accusa di offesa al comune senso del pudore e di spettacolo cinematografico osceno. La supplente torna in circolazione e ottiene incassi notevoli, a livello di film interpretati da attrici già note al grande pubblico come Laura Antonelli e Gloria Guida. Nel 1976 la Villani interpreta Lettomania, un pessimo film di Vincenzo Rigo, regista dimenticato della storia del cinema, un documentarista che ha diretto solo tre film a soggetto e ben due vedono protagonista Carmen  Villani. Carmen Villani recita accanto a Harry Reems che veniva dall’hard d’autore e aveva interpretato niente meno che Gola profonda e Il diavolo in Miss Jones. Il film non decolla mai e rimane né carne e né pesce, la fotografia fa pensare a un hard che non è mai tale, ci sono scene di sesso abbastanza spinte soprattutto nel finale e pare che in alcune abbiano inserito una controfigura al posto della Villani. Tra l’altro la Villani pensava che il film si intitolasse Lei e non Lettomania e che avrebbe dovuto limitarsi a girare qualche scena nei panni della moglie di uno scrittore. Questa volta è la Villani a intentare una lite giudiziaria per chiedere il sequestro della pellicola che utilizza una controfigura nei dettagli erotici più pesanti. La bella attrice modenese non vede soddisfatta la sua richiesta, ma in compenso la magistratura fiorentina nel processo di appello la condanna a quattro mesi di reclusione con la condizionale e quarantamila lire di multa per La supplente (24). Nel 1978 la Villani è la protagonista di Grazie tante e arrivederci, nuova commedia erotica girata dal marito, nella quale fa innamorare il seminarista Mario Scarpetta che per lei abbandona i voti. Il film viene alleggerito dal visto censura del 13 ottobre 1977 della sequenza in cui i marinai, dopo essersi denudati, pongono in evidenza gli organi sessuali. Carmen Villani saluta il mondo del cinema con La supplente va in città (1980)diVittorio De Sisti che tenta la carta del finto sequel de La supplente. Lo spettatore si sente preso in giro perché il titolo non c’entra niente con la storia e serve soltanto a evocare nell’immaginario collettivo il vecchio film di Guido Leoni che andò molto bene. Non per niente gli spagnoli lo intitolarono De craida a señora che era più pertinente, pure perché la storia è tratta dalla commedia Da serva a padrona. La Villani arriva a Roma e si vendica con il fidanzato che l’ha violentata, poi si fa assumere come cameriera in una famiglia e si impone soprattutto come amante di tutti. Alla fine diventa la padrona di casa. Il film è scadente ma ha il pregio di non essere ostacolato da nessuna forbice dei censori. Non è assolutamente vero come pensano molti che la filmografia della Villani si distingue dalla produzione di genere dell’epoca perché l’erotismo è molto meno blando rispetto alle pellicole girate dalla Fenech, dalla Guida e dalle altre attrici della commedia sexy. Sono soltanto i titoli e le leggende messe in giro ad arte che lo fanno pensare, pure se è vero che le sue pellicole hanno più problemi di altre con la censura. Ma in realtà viste con l’occhio dello spettatore di oggi sono pellicole innocue. Carmen Villani è di sicuro l’attrice più ruspante del filone, la meno costruita e non è vero che la sua recitazione è inespressiva come dicono i detrattori. La Villani incarna il modello perfetto della ragazza schietta, frizzante, genuina e ironica che non si scandalizza di nessuna situazione erotica o morbosa (25).

13. Le disavventure di Franca Gonella

Un episodio minore di censura, ma se vogliamo emblematico di come andavano certe cose negli anni Settanta, è dato dalle disavventure censoree di Franca Gonella. Alfredo Rizzo (1902 – 1991), dopo un’onesta carriera come attore di varietà e caratterista, nei primi anni Settanta comincia a girare modesti film erotici. Nel 1975, su soggetto dell’infaticabile Piero Regnoli, dirige La bolognese e nel 1976 il poco atteso sequel Sorbole… che romagnola!, un dittico emiliano romagnolo che scatena le ire dei censori e vede Franca Gonella interprete solo del primo film. La bolognese mostra le grazie della bella starlet in primissimo piano e a farle spalla ci pensano la più navigata Ria De Simone e la felliniana Cinzia Romanazzi. La bolognese viene sequestrata dopo soli due mesi dalla sua uscita e il fatto passa un po’ sotto silenzio perché l’opinione pubblica è distolta da querelle più prestigiose che riguardano pellicole d’autore come Ultimo tango a Parigi e Salò. Il tribunale di Latina è competente per il processo per oscenità intentato contro Alfredo Rizzo, nella duplice veste di regista e produttore, e contro gli attori (Franca Gonella in testa). Rizzo si scaglia contro la magistratura, a suo dire colpevole di accanirsi solo contro i produttori indipendenti e di favorire le grandi produzioni. Un articolo de Il Borghese del 13 giugno 1976 intitolato “Difendo nessuno” e firmato da Claudio Quarantotto riporta le invettive del regista: “La magistratura italiana si dà subito da fare per i film censurati dei grossi produttori, cioè li esamina entro breve periodo di tempo; in genere, se è il caso, li dissequestra prontamente. Invece non si interessa dei film degli indipendenti, appartenenti a piccole case di produzioni o a distributori minori, accantonandoli e abbandonandoli così per lunghi periodi. La bolognese poi non ha niente di osceno: si tratta di una commedia divertente, di gusto popolare, con qualche spunto piccante, ma niente di più” (26). Il Borghese difende l’opera di Rizzo con argomenti ironici e soprattutto molto di destra, poco condivisibili perché mette capolavori come Ultimo tango e Salò sullo stesso piano de La bolognese. L’operazione di Quattrocchi è politica e pretestuosa e la sua difesa conclude: “Alfredo Rizzo ha il merito di non infilare a letto Marx con Emaneulle e di non confondere il burro da tavola con il burro di Bertolucci” (27). La sua tesi si può sintetizzare con l’assunto che se il regista avesse messo qualche accenno politico qua e là il film non sarebbe stato sequestrato. Non mi pare che si possa seguire su questo ragionamento, mentre possiamo essere d’accordo sul fatto che una pellicola come La bolognese è talmente innocua che non merita certo un’accusa per oscenità. Il Tribunale di Latina invece in data 14 giugno 1976 condanna per oscenità a due mesi di reclusione e quarantamila lire di multa attori, regista e produzione. Franca Gonella aveva già avuto una sanzione di quattro mesi con la condizionale per il film Una vergine in famiglia di Mario Siciliano (1975) e in due anni colleziona la sua seconda condanna penale. La bolognese torna sugli schermi italiani nella primavera del 1977 e pare che a questo punto Alfredo Rizzo inserisca molti spezzoni hard-core per le versioni della pellicola destinate al mercato estero che spesso finiscono per circolare anche in Italia (28).

14. Tinto Brass

Tinto Brass è un regista che negli anni Ottanta deve vedersela spesso con le forbici dei censori per quel suo modo giocoso di mostrare il sesso sempre in primo piano. Il primo film scandalo del regista veneziano è Io Caligola (1980), prodotto da Bob Guccione, allora editore di Penthouse e altre riviste per adulti, che è bloccato dalla censura per la sua improvvisa virata verso l’hard. Io Caligola dopo il blocco della censura viene rimaneggiato dalla produzione per farlo uscire in forma del tutto modificata. A quel punto Tinto Brass disconosce la paternità del lavoro e pretende che sui titoli di testa venga scritto: “riprese di Tinto Brass”. Purtroppo non vedremo mai questo film come il suo autore lo ha pensato e realizzato, facendo ricorso a situazioni spinte ma efficaci. La storia di un imperatore folle che vive di incredibili eccessi si avvale della sceneggiatura dello scrittore americano Gore Vidal, di Masolino D’Amico e dei mezzi di una ricca produzione internazionale. Tutto questo non basta a placare le ire della censura che ne blocca l’uscita per ben due volte. Il film è tagliato, rimontato, rimaneggiato e alla fine ne viene fuori una cosa che è soltanto un’accozzaglia informe di torture, decapitazioni e follie in mezzo a qualche eccesso sessuale. La realtà storica è soltanto una scusa. Tinto Brass dispone di un bel cast: Thérèse-Ann Savoy, Malcom Mc Dowell, Adriana Asti, John Steiner. Maria Schneider abbandona il set per una paventata scena di bagno nello sperma o per il timore di dover girare vere scene hard. Non lo sappiamo. Fatto sta che Brass pare proprio al massimo del suo splendore ed è un peccato che abbia effettuato soltanto la regia delle riprese ma non il montaggio (curato da Guccione e da Giancarlo Lai). In ogni caso Io Caligola resta un film – pasticcio, distrutto dai censori. La pellicola dà il via a un vero e proprio sotto genere del cinema erotico italiano: il Caligola movie. Il fenomeno dura lo spazio di pochi anni e il film da ricordare è soprattutto quello di Joe D’Amato (Aristide Massaccesi): Caligola… la storiamai raccontata(1982). La versione di Massaccesi segue la stessa sorte della pellicola di Tinto Brass: la censura boccia Caligola per tre volte. Per questo motivo il film deve essere tagliato e rimontato, tanto che nella versione che circola in Italia mancano quasi tutte le scene hard (un quarto d’ora di riprese sono state spazzate via) e il film può essere classificato come un erotico ordinario. Basti pensare che la copia italiana è di ottantasei minuti contro i cento della versione francese. In ogni caso quel che possiamo vedere è sufficiente per apprezzare la bravura di Massaccesi nel contaminare i generi. Il regista realizza un Caligola che è una via di mezzo tra l’erotico e l’horror perverso, strizzando l’occhio all’hard. Ricordiamo nelle sequenze iniziali una scena terribile con protagonista Michele Soavi che si vede mozzare la lingua (l’attore aveva una lingua d’agnello in bocca). Talmente credibile da fare ribrezzo anche a uno stomaco forte e preparato. Sul versante erotico citiamo la scena di un cavallo masturbato in mezzo a un’orgia (una citazione della storia del cavallo senatore) e soprattutto la Gemser che si autosvergina con un pene di legno affinché il dio Anubi le renda facile l’uccisione di Caligola. Il film di Massaccesi è folle e perverso. Visionario al punto giusto. Tra il Caligola di Brass e quello di Massaccesi scegliamo l’ultimo, anche perché ha il pregio di essere meno caotico e pasticcione e soprattutto non ha pretese intellettuali. Tinto Brass continua con la sua opera di regista erotico che cerca di far superare tutti i tabù al cinema italiano, persino quello del membro maschile in primo piano (pure se spesso sono finti). Nel 1983 gira La chiave con Stefania Sandrelli rivisitando l’omonimo romanzo di Tanizaki, ed è il capolavoro che lo incorona maestro del cinema erotico nazionale. Il successo del film porta altri registi (su tutti Joe D’Amato) a tentare la strada del porno soft ma i risultati non sono mai gli stessi di Brass. Due anni dopo Tinto Brass rilancia Serena Grandi in Miranda, immagine della super maggiorata anni Cinquanta, un film che ancora oggi in televisione si vede tagliato nelle parti più spinte come una fellatio e un finto rapporto di sodomizzazione al contrario tra la Grandi e Occhipinti. La chiave e Miranda sono molto ostacolati dalla censura e per anni sono film che non possono passare in televisione neppure in seconda serata.

A metà degli ani Ottanta lo strapotere del piccolo schermo e l’impero delle televisioni private creato da Silvio Berlusconi, contribuisce all’abbandono delle sale cinematografiche e gli autori italiani finiscono con il produrre meno cinema e soprattutto più orientato verso il pubblico del piccolo schermo. La censura ha di nuovo pane per i suoi denti perché deve tutelare i minori da immagini violente o comunque lesive per la loro crescita, cosicché i film vietati ai minori di quattordici anni, possono andare in onda integralmente, ma solo in seconda serata (dopo le 22 e 30), mentre gli altri vengono massacrati di tagli, pure se trasmessi a notte fonda. Da un decennio a questa parte, sia le reti Rai che Mediaset, sono entrate direttamente nel finanziamento di film sia per le sale che fiction, aggiungendosi così in anticipo i diritti di trasmissione. Tutto questo non fa il bene del cinema perché adesso il film nasce già con la censura preventiva dell’autore che se vuole vendere il prodotto alla televisione lo deve realizzare secondo certe regole. Il recente film Malena di Giuseppe Tornatore (2000) fa molto discutere, perché pur essendo un prodotto di buona qualità espressiva contiene scene di masturbazione ossessiva e vari nudi integrali di MonicaBellucci. Si pensi che la Miramax, società statunitense coproduttrice del film, ha chiesto all’autore di tagliare proprio le sequenze sopraccitate, per l’uscita americana. Il film invece da noi non ha ottenuto nemmeno il divieto ai minori di anni quattordici. Segno di un avanzato comune senso del pudore o di pressanti interessi televisivi? Optiamo per la seconda ipotesi (29).

Note

(1) Per una completa storia della censura nel cinema italiano si veda il ben documentato sito: www.activitaly/immaginecinema/cinecensura

(2) Per approfondimenti si veda ancora il cito sopra citato

(3) Confronta S. Murri – Pier Paolo Pasolini – Il Castoro/L’Unità, 1995

(4) Vedi: www.pasolini.net/cinema_ricotta

(5) Lina Coletti “Proibito l’onorevole Buzzanca” da “L’Europeo” Novembre 1971

(6) Articolo citato sopra

(7) Tutto Cinema – I grandi libri del cinema – storia completa del cinema mondiale – Compagnia Generale per le attività Redazionali e Promozionali –  “Il dramma familiare di Lando Buzzanca: suo figlio si è salvato per miracolo” – p. 550 – Rizzoli, 1977 

(8) Oreste Del Buono “La mia attrice dell’anno” – intervista a Lea Massari – da “L’Europeo” del dicembre 1971

(9) Articolo citato sopra

(10) Articolo citato sopra

(11) Articolo citato sopra

(12) Sullo scandaloso rapporto Schneider-Townsend si veda: Tutto Cinema – I grandi libri del cinema – storia completa del cinema mondiale – Compagnia Generale per le attività Redazionali e Promozionali –  p. 547 – “Ultimo tango in manicomio fra Maria Schneider e una sua amica” – Rizzoli, 1997

(13) Duilio Pallottelli “Il mio tango” – intervista a Bernardo Bertolucci – da “L’Europeo” del 15 marzo 1973

(14) Gabriella Pozzato – Ultimo tango: il mistero svelato – Cucinema.com – Milano 2004

(15) Marco Giusti – Stracult – Sperling & kupfer – Milano, 2003

(16) Paolo Mereghetti – Il Mereghetti 2002 – Baldini & Castoldi – Milano, 2002

(17) Marco Giusti – opera citata

(18) Morando Morandini – Il Morandini 2004 – Zanichelli – Milano, 2004

(19) Antonio Tentori e Antonio Bruschini – Lucio Fulci – Profondo Rosso – Roma, 2004

(20) Intervista a Pier Paolo Pasolini da “Corriere della Sera” del 25 aprile 1975

(21) Enzo Siciliano – Vita di Pasolini – Rizzoli – Milano, 1978

(22) Dichiarazione di Mauro Ivaldi tratta da “Bocciato dalla censura L’amica di mia madre” – “Il Messaggero” del 20 gennaio 1975

(23) Dichiarazione di Carmen Villani tratta da “Non si dà per vinta Carmen Villani” – “Il Messaggero” del 2 aprile 1976

(24) Redazionale “Carmen Villani condannata a quattro mesi” da “Il Messaggero” del 13 maggio 1977

(25) Su questo argomento si veda anche Franco Grattarola “La Carmen proibita” da “Cine 70” A. 4 n. 6 – Coniglio Editore  – Roma, 2004

(26) Claudio Quarantotto “Difendo nessuno” da “Il Borghese” del 13 giugno 1976

(27) Articolo citato sopra

(28) Franco Grattarola “La Bolognese di Alfredo Rizzo” da “Cine 70” – Coniglio Editore – Anno 2 – Numero 2 – Roma, 2002

(29) Sulla censura e il cinema si vedano anche: Antonio Tentori e Antonio Bruschini – Malizie perverse – Granata Press – Roma, 2002 e Corrado Incerti “Il cinema e la censura” – da “L’Europeo” del 19 aprile 1973

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