Nella puntata conclusiva del noto varietà Tale E Quale Show, andata in onda su Rai 1 nella prima serata di Venerdì 20 novembre, l’attore e cantante spagnolo Sergio Muniz si è cimentato nell’imitazione di Ghali, l’ormai noto cantante pop di origini tunisine, destando il malcontento di quest’ultimo.
Agli occhi del rapper, diventato particolarmente famoso a livello nazional popolare grazie a brani come Cara Italia, Ninna Nanna e la più recente Good Times, gli autori della trasmissione non avrebbero dovuto “scurire” il volto di Muniz per questa esibizione, ma limitarsi a copiare il suo abbigliamento e l’acconciatura, oltre ad utilizzare l’autotune durante l’esibizione canora.
Per avvalorare la polemica, Ghali si è affidato alla storia recente dell’occidente e ha deciso di spiegare ai propri seguaci di Instagram (e non solo) il significato del blackface, controversa tecnica teatrale particolarmente in voga nel XIX secolo, sia in America che in Europa (soprattutto in Inghilterra). Questa consiste nel truccare attori dalla pelle bianca per fargli assumere i lineamenti e le sembianze, assurdamente marcate e stereotipate, delle persone di colore, al fine di parodiarne atteggiamenti e comportamenti e, molto spesso, per far inscenare a queste omicidi, stupri e atti osceni di vario tipo (come correttamente sottolineato dal musicista) con lo scopo di rafforzare preconcetti e pregiudizi contro la comunità nera, figli di una subcultura fortemente razzista. Quest’usanza ha conosciuto un notevole calo negli anni ’40, soprattutto grazie al Movimento per i diritti civili degli afroamericani, guidato da Martin Luther King, ma i suoi effetti sono stati forti ancora per molto tempo e, ahinoi, persistono ancora oggi nei pensieri e nelle ideologie di molte persone.
Tuttavia, quella sollevata da Ghali risulta essere una polemica sterile, oltre che pretestuosa, che non ha né le basi né le motivazioni di esistere. Tale E Quale Show, come dice il nome stesso della trasmissione, si prefigge lo scopo di inscenare un’imitazione il più realistica possibile di un dato personaggio, con palesi velleità di intrattenimento e di relax. I parametri di valutazione di una performance sono infatti la somiglianza vocale, la riproduzione di movenze e atteggiamenti fedeli (senza scadere nella caricatura) e, ovviamente, il confronto estetico con l’originale.
Come si può imitare personaggi di colore senza scurire la pelle di un partecipante bianco? Si dovrebbe evitare di impersonare ogni artista di origine africana (compiendo così un’evidente esclusione), a meno che fra i partecipanti dello show non ci siano persone dalla pelle scura. E in questo caso, sarebbe un problema se una di queste imitasse, che ne so, Antonello Venditti? Dovremmo vederlo come un atto di “white face”? Ovviamente no. Il blackface non c’entra nulla con quanto accaduto durante la prima serata di Rai 1.
In passato è stata fatta la stessa identica cosa per artisti come Louis Armstrong, Stevie Wonder e Rihanna e, in tutti i casi, l’imitazione è stata presa esattamente per ciò che rappresentava: un tributo, assolutamente privo di cattive intenzioni, razzismo o intenti denigratori, proposto in prima serata e in un contesto leggero e spensierato, lontano da provocazioni e intenti nocivi.
E no, l’argomento “ignoranza” che Ghali solleva, sostenendo come si possa fare un danno anche senza volerlo (seppur sia un concetto empiricamente corretto), in questo caso non ha alcun senso, proprio perché la trasmissione NON è caduta ingenuamente in stereotipi offensivi nei confronti dell’etnia di cui fa parte l’artista, o della persona stessa, ma anzi, lo ha tributato inserendolo fra le varie pop star prese a modello, al di là dei commenti evitabili sulla piacevolezza estetica del cantante da parte della giudice Loretta Goggi, che, seppur un po’ tristi, nulla hanno a che vedere con la sua provenienza.
Ovviamente, il diritto di Ghali a manifestare una perplessità su quanto accaduto è sacrosanto, ma tutto questo polemizzare senza un reale motivo che già affligge mondi come quello del cinema, dell’arte e, guarda caso, proprio della musica (specialmente di quella hip hop, tra l’altro) si riduce alla fine a uno sterile e inutile perbenismo, il quale, citando Giovanni Lindo Ferretti, “ammazza il bisogno di essere per bene”, oltre a risultare spesso un intralcio mediatico all’emergere di cause più serie.