“Taxi Monamour”, un film che racconta l’amicizia tra due ragazze

Articolo di Gordiano Lupi

Avere troppe aspettative, forse è questo il problema. Aver letto troppi giudizi positivi, troppe lodi sperticate, persino una segnalazione al Festival di Venezia, giudizi come Una commedia che si porta dietro un carico di emozioni colme di umanità. Ecco, poi guardo il film e mi prende la sindrome da Caro Diario, mi vedo nei panni di Nanni Moretti al capezzale del critico con il mal di pancia mentre chiedo: Le hai scritte tu queste cose? Ora, Taxi Monamour non è Henry pioggia di sangue, tutt’altro genere, ma non è neppure Il posto delle fragole. Est modus in rebus. Taxi Monamour è un filmetto dilettantistico – solo così possiamo accettare di vederlo – che racconta l’amicizia tra due ragazze che s’incontrano per caso a Roma e cominciano a frequentarsi. Poco altro. Parliamo di tecnica? Il regista sostiene di non tenere ben ferma la macchina da presa per conferire veridicità all’assunto, che la mancata stabilità delle immagini sarebbe uno stile. Va bene, uno stile che non amo, ma uno stile, diamogliela per buona, spero che mi sia permesso non andare pazzo per le riprese sbilenche. Aggiunge De Caro che l’aver girato due terzi del film all’interno di un’auto renderebbe la situazione ancor più vera, perché in pochi lo fanno. Lo fa Mordini in Acciaio, non è un bell’esempio da seguire, ma lo fa. Però, se i registi veri non lo fanno ci sarà un motivo? Azzardo. Forse è poco cinematografico girare tante sequenze all’interno di una Volvo. Ma è il primo film che vedo di De Caro, ci sta che sia poco preparato al nuovo che avanza, troppo avvezzo agli orpelli di significato e significante, di forma e contenuto. Il film ha qualcosa di buono anche per me, in ogni caso: due attrici molto brave, Rosa Palasciano è anche sceneggiatrice (in tali vesti diluisce un brodo molto sciapito), Yeva Sai è di origini ucraine e se la cava bene nei panni dell’amica che vuol tornare nella sua terra. Il film dura ben 110 minuti. Non voglio nemmeno sapere chi sia il responsabile del montaggio. Una storia ai minimi termini raccontata in quasi due ore di immagini. Fotografia anonima (pure qui come sopra), siamo a Roma ma non c’è una ripresa che meriti un ricordo, tutto è in primo piano, campo stretto, molto veridico, al regista interessano solo i campi e controcampi. Basta così. Vedo che la critica ha apprezzato, il pubblico meno. Io non lo consiglierei neppure al mio peggior nemico, ma conto quel che conto …

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