Spesso gli esperti di musica rock, e non solo, sono spinti da due aspetti di valore infinito: la loro passione ed il loro ego. Trascorrono un sacco di tempo analizzando migliaia di dischi alla ricerca del disco perfetto, del disco cosiddetto essenziale, oppure stroncando tutto ciò che è pop e tutti quei lavori discografici che, a parte un singolo trainante, non presentano altre tracce di rilievo. Eppure, c’è chi acquisterebbe, senza problemi, un album intero anche solo per una canzone simbolo, che magari rappresenti un determinato periodo storico e culturale.
Ovviamente, al giorno d’oggi, la fruizione della musica è stata letteralmente stravolta rispetto ai tempi pre-internet. Di conseguenza, questa premessa abbraccia, perlopiù, una fascia di irriducibili nostalgici, che molti definiscono con il termine boomer. Certo, mettersi lì a fare i soliti elenchi de “gli album che porteresti su un’isola deserta” o de “i nostri dischi essenziali” è sempre un pò da sfigati. Del resto, se facciamo le pulci alle parole, essenziale è ciò che ti serve per vivere: tipo i soldi, l’acqua, l’ossigeno, la salute. Cose semplici ed essenziali che, sovente, diamo per scontate e che, invece, riscopriamo in situazioni di emergenza e di isolamento mondiale. Insomma, ci risvegliamo dal nostro intorpidimento mentale soltanto quando abbiamo il fango intorno al collo.
Però, pragmatismo a parte, non vuol dire che tutto ciò che non sia di vitale importanza non debba essere comunque rilevante e significativo per la nostra già misera permanenza su questo pianeta. La domanda che sorge immediatamente spontanea (Lubrano docet) è la seguente: quali sono i parametri per stabilire questo tipo di elenchi o classifiche? La risposta pleonastica è che non ci sono parametri oggettivamente validi, a maggior ragione se la selezione è condizionata dal gusto personale. Chiaramente, l’importanza storica e culturale di un artista, di un gruppo o di un album, non è assolutamente in discussione.
Al tempo stesso, non si può nemmeno pretendere che i Beatles o i Kraftwerk, ad esempio, riscontrino il gradimento unanime di tutta la popolazione, ma sperare che, quantomeno, ne venga riconosciuto l’oggettivo valore artistico e sociale. Oggi, in una società multimediale ed iperconnessa che interagisce prevalentemente tramite piattaforme social, ci ritroviamo circondati e subissati da classifiche e sondaggi sul web di ogni genere, tra top five, top ten, top 100 e chi più ne ha più ne metta. Dunque, dopo questa prefazione prolissa, e probabilmente anche un po’ retorica, prenderemo in considerazione solamente 10 dischi, fondamentali o essenziali, poco importa. Una sorta di rubrica settimanale a puntate con la quale proporremo la condivisione, in ordine sparso e scevra da classifiche, di alcuni album che hanno tracciato una linea di demarcazione significativa per la storia della musica rock, ognuno dei quali verrà accompagnato da una mini recensione. Il primo appuntamento è dedicato all’esordio discografico dei britannici The Sound.
The Sound – Jeopardy (1980)
Jeopardy è il debut album dei meravigliosi e sfortunati The Sound, pubblicato nel 1980 per Korova Records. Verosimilmente, Jeopardy è stato uno dei dischi più importanti e maggiormente sottovalutati dell’intera scena new wave, difatti il suo valore verrà riconosciuto soltanto postumo. Quasi sessanta minuti scanditi da un rock acido, tagliente, cupo, decadente, resiliente ed angosciante. L’atmosfera drammatica, apocalittica, ipnotica e frenetica che scaturisce dai sintetizzatori e dalle linee di basso accompagna la poesia maledetta del compianto Adrian Borland. Eravamo a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, periodo storico buio e difficile non solo per la Gran Bretagna, ma per l’intera Europa, dal punto di vista politico, economico e soprattutto sociale. Il 1980 fu l’anno della seconda crisi energetica a causa dei conflitti tra Occidente e paesi petroliferi arabi, dopo la prima crisi petrolifera del 1973. La situazione di tensione scaturì in scontri con le forze dell’ordine e disoccupazione, il tutto a causa della rigida strategia politica ed economica che il binomio politico Margaret Thatcher/Ronald Reagan stava mettendo in atto, andando a colpire proprio le fasce sociali meno abbienti. Momenti di tensione e precarietà che ritroviamo nelle tematiche di Jeopardy, disco che si apre con la splendida ICan’t Escape Myself (manifesto di quel pensiero nichilista camusiano), con sferragliate di chitarra in pieno stile krautrock, che rimandano alle sonorità motorik di Hallogallo dei Neu. Indimenticabile il testo di I Can’t Escape Myself: il protagonista è stanco di lottare e di ragionare, vorrebbe soltanto scuotere via quella pelle e tutti i suoi problemi, ma alla fine cresce l’angoscia nella consapevolezza che non avrebbe mai potuto liberarsi di quell’ombra, che non poteva assolutamente scappare da se stesso. Decisamente profetico. In quella trappola, dove era più facile morire, era necessario tenere duro e resistere. Il paradosso è che a dirlo fu proprio Adrian Borland: si arrese alla sua sconfitta artistica, al silenzio dei suoi tempi tranquilli, al ritorno di una nuova dark age e alla sua malattia. Alla fine aveva ragione Borland: la triste verità è che nessuno può fuggire da se stesso. Probabilmente, lo stiamo scoprendo adesso. Possiamo solamente cercare di tenere acceso il desiderio, attraverso l’agrodolce dei nostri ricordi ed accettando i consigli migliori, quelli che arrivano dai luoghi più sicuri, ed averne memoria futura.