Basterebbe una pagina di Salgàri a evidenziare la strabiliante novità del panorama letterario del romanzo di avventura, che proprio nel medesimo genere condensa una completa riproposizione dello spazio fisico e umano, radunando attorno a sé una cultura nozionistica non fine a sé stessa, ma anzi traccia di un percorso culturale più ampio e in grado di offrire aderenza alla realtà.
Salgàri ha anticipato il Positivismo, bisogna avere il coraggio dirlo e uscire dal dualismo che presenta il romanziere avvinto in un moto pendolare tra il riconoscimento popolare, (concesso per via delle istituzioni monarchiche, la regina Margherita di Savoia gli conferì la benemerenza della Croce di Gran Cavaliere “perché sa istruire dilettando” nel 1897), e lo stroncamento della critica letteraria: Benedetto Croce non giudicava degno di nota il suo scriver sciatto.
In realtà, ha osservato il critico Giuseppe Polimeni, i contributi successivi hanno dimostrato che dietro la molteplicità delle componenti linguistiche e testuali si isolava in Salgàri quella personale cifra stilistica, una riconoscibilità di segno che formava una soluzione espressiva in apparenza trasandata, in grado però di ritrovare un pubblico tra quei lettori che a fine secolo si affacciano alle colonne dei giornali e che, soprattutto nelle città, apprendevano le mille possibilità del tempo libero, entro i nuovi confini, di spazio e di orario, segnati dal lavoro e dalle ormai valicate mura cittadine (in Sui flutti color dell’inchiostro, 2012). Che poi l’avventura fosse solo percepita entro lo specchio d’acqua marino, credo ne abbia dato testimonianza anche il prezioso contributo del filologo Albero Cadioli (in Il mare nel romanzo d’avventura tra Ottocento e Novecento, 2009) che, a proposito dei riferimenti geografici nelle opere salgariane, annota che essi “rimandavano soprattutto a terre lontane, sullo sfondo delle quali ogni vicenda era l’occasione per un’avventura, a volte in situazioni difficili, che potevano far finire in dramma il confronto con una natura sconosciuta. In questa direzione il mare aveva un posto del tutto particolare, poiché, quasi sempre, gli eventi drammatici erano collocati nel contesto della navigazione”.
Pertanto, il positivismo salgariano affonda le sue radici nella concezione dell’opera come ombra rivelatrice di una realtà coeva, collocata in un determinato spazio geografico e costruita secondo criteri rigorosi che dipendono esclusivamente da una consultazione metodica e pedissequa di molte opere scientifiche o di contribuiti di vario tipo in grado di rappresentare la testimonianza più autentica e non la più prossima in ordine di luogo o di tempo.
L’impronta che non tanto può confortare chi ne discute, ma convincere chi si accosta alla lettura delle opere salgariane è la prosa nella sua variegata totalità; una prosa indubbiamente ricca di rimandi scientifici che attingerebbero a due immensi fiumi cartacei: il primo è l’opera monumentale di Giulio Ferrario, che comprendeva addirittura ventisei volumi, intitolata Il costume antico e moderno di tutti i popoli del 1829, stampata per Alessandro Fontana; e ancora più significativo è il secondo L’India – Viaggio nell’India centrale e nel Bengala di Louis Rousselet, stampato da Treves nel 1877, della quale è possibile scovare numerosi riferimenti, poi utilizzati nei romanzi ambientati in India. A queste è probabile abbia aggiunto la consultazione frequente delle opere di Odoardo Beccari, botanico fiorentino, vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, che aveva pubblicato le sue copiose indagini naturalistiche in Malesia e in Borneo a seguito di continue spedizioni verso l’estremo Oriente; figura anche tra queste letture la documentazione redatta dal cartografo nautico d’origine piemontese, al secolo Giacomo Bove, esploratore di lungo corso e navigatore che aveva viaggiato per il mondo intero. In questa preziosa rete di rimandi, il bazar salgariano baratta conoscenze con altre, mette in comunicazione mondi lontani, dipinge scenari lontani anni luce da quell’avvenire ormai non più solcato da coraggiosi bragantini, ma circoscritto entro perlustrazioni periferiche che segnano l’inizio di una lenta globalizzazione.
È necessario aggiungere quanto nota, ancora una volta, Cadioli che percepisce nella prosa salgariana, in occasione dell’innalzamento del registro linguistico un tessuto stilistico diverso, non puramente scientifico o sopraletterario per ambire a un riconoscimento canonico, ma limitato, concepito e costruito “in quell’intento di trasmettere al lettore una conoscenza da enciclopedia”, come se la pagina si faccia puramente calco di un lucido; la tecnica si avvale dell’aggiunta spiegazione sul genere animale di riferimento con nome lasciato al singolare, come appunto compare in qualche manuale o enciclopedia; prassi che pertiene al versante documentaristico (in Il mare nel romanzo d’avventura tra Ottocento e Novecento, 2009).
In Salgàri, tuttavia, possiamo trovare la “stesura” di una rappresentazione della realtà anche di tipo etnografico. D’altronde l’etnografia trasportata sulle pagine d’avventura altro non è che l’osservazione partecipante nella quale il ricercatore è il principale strumento di ricerca. Egli compone puramente perseguendo tale fine e il paradigma del lucido sventolato dapprima si arricchisce ancora: è un continuo addentrarsi tra i frutti e le prelibatezze del giardino della conoscenza, intesa come rielaborazione scientifica degli studi allora compiuti.
Potremmo, infatti, prendere come esempio la pagina di uno dei romanzi più affascinanti quali Il leone di Damasco che si snoda attraverso un percorso che comprende anche un’altra opera: Capitan Tempesta. Si tratta di uno dei cicli minori nel quale il primo romanzo citato è il seguito del secondo. Nel capitolo V dal titolo “Il grande ammiraglio ottomano” i due antagonisti, la giovane Haradja e il sovrano Alì Bascia, suo zio, preparano un attacco ai danni della giovane coppia di innamorati: Muley el Kadel, il bell’uomo di forse appena trent’anni, di statura piuttosto alta, con la pelle bianca, i baffi e i capelli bruni (Il leone di Damasco, cap. VI) del quale vagheggiava l’amore; e la sua compagna, Eleonora la duchessa d’Eboli, una bellissima donna, molto giovane, di forme snelle ed eleganti, con occhi nerissimi, che indossa un’armatura completa di vero acciaio arabescato, e porta in testa un elmetto adorno di splendide penne di struzzo (ibidem).
Nel passo in questione scorgiamo un’interessante scena conviviale nella quale vengono servite delle pietanze dalla servitù di bordo; più che lo sfoggio della descrizione, che trasuda un ritmo narrativo oggi perduto e strano per la ricchezza dell’ipotassi e la varietà delle sfumature, troviamo delle indicazioni precise sulle vivande che si susseguono, senza tralasciare la benché minima cognizione. Nell’ordine abbiamo: scodelle di pilaf, e Salgàri immediatamente si accinge a dare una spiegazione lemmatica il classico riso turco, o meglio persiano; poi degli usi e dei costumi culinari che inevitabilmente ampliano la percezione del mondo dei personaggi e danno una chiara corrispondenza geografica del territorio, in quanto prodotto e risultato di uno spazio umano politicamente e culturalmente diverso: delle teste di montone arrostite con contorno di fagiolini conditi coll’aglio.
Il narratore spazia allargando la vista del lettore su piatti bianchi pieni di yaourt, ossia di latte quagliato, il termine che rimanda al nostro yogurt e che riporta all’usanza tipica di un popolo nomadico di etnia berbera; la parola yogurt è di origine turca e deriva dal verbo yogurmak (addensare). La leggenda vuole che in Medio Oriente, dei mandriani conservarono il latte all’interno di una sacca fatta dallo stomaco di una capra; alla fine del viaggio sotto il sole caldo, il latte si trasformò in una crema dal sapore aspro; infatti, i succhi gastrici provenienti dalla sacca, il calore e il movimento causati dal tragitto compiuto dai cammelli furono l’humus ideale per la produzione del primo yogurt (The Yogurt Council, The History of Yogurt, 2013). Vediamo in tal modo i primi cenni di una perlustrazione antropologica, tipica della prosa salgariana: essa ricompone un patrimonio nozionistico indispensabile per capire i personaggi e la differente spazialità dei luoghi e la bellezza geografica del mondo, intesa come chiave di lettura per capire il volgere della terra; più avanti la tavola è imbandita con terrine colme di missir, ossia di pannocchie di granturco ben bollite che si mangiano col sale; vassoi di simit, che sono sottili ciambelle dolci e di datteri, di fichi secchi, di castagne bianche arrostite: il valore esplicativo delle due congiunzioni (ossia e che) si allontana dalla pura nozione lemmatica e traduce una mentalità, una tradizione peculiare che viene ricondotta al canale puramente scientifico di questa prosa che, con buona pace di Benedetto Croce, non è sciatta, ma sapida. Togliamo il rivolo di sapidità con una prelibatezza dolce, tra quelle citate in questo breve capoverso: l’uva secca di Cipro e della Morea.
L’indicazione del prodotto (uva disidratata) e della sua ubicazione (Morea) fanno pensare a un alimento specificatamente proveniente da una terra il cui toponimo, usato ai tempi della Repubblica di Venezia, non ci dice nulla oggi (nella geografia moderna si parlerebbe di Peloponneso); tuttavia la presenza dell’alimento tra le vivande è una preziosissima testimonianza della temperie storica del romanzo e del XVII secolo nel conflitto tra gli Inglesi e la Repubblica di Venezia, e proprio l’utilizzo e il consumo dell’uva passa sarebbe stato il pretesto del conflitto, come si può leggere nel divertente articolo La guerra tra Londra e Venezia per l’uva passa (e il pudding) di Marco Valle su insideover.com.
Ancora oltremodo interessante è uno dei capoversi successivi: “I vini non figuravano, quantunque nessuno ignorasse che il Bascià, pur essendo mussulmano convinto, beveva Cipro più dei sultani; vi erano invece delle alte caraffe di cristallo di Venezia, piene di acque dolci profumate all’arancio od ai cedri del Libano” che spiega in che modo costumi e usi diversi dalla tradizione occidentale potevano non essere seguiti, in barba alla prescrizione, soprattutto ai vertice della piramide sociale; certamente, non è una scoperta degna di nota che rimarrà negli annali, però dimostra come l’etnografia salgariana riproduca un microcosmo vivo, non artefatto; storicamente accurato, ma non lezioso o didascalico.
Ricorda per altro Vittorio Sarti, acuto lettore e instancabile osservatore dell’opera salgariana, che tutti, se non una sparuta eccezione, i lavori di Emilio Salgari sono imperniati su fatti realmente accaduti o su fatti di cronaca coeva, nei quali l’autore innesta ad arte, vicende a azioni di fantasia. Ciò che, comunque, rende credibili e veri i fatti narrati è la “temperatura” del racconto. Non si può dunque ignorare, alla luce delle riflessioni fatte che la prosa salgariana racchiude preziose rappresentazioni scritte delle forme di vita sociale e culturale di gruppi umani, pertanto, può sprigionare la sua qualità di studio antropologico, realizzato attraverso la pratica della ricerca sul libro scientifico, che diventa un codice decriptato reso funzionale nel dinamismo dell’avventura cioè l’alfabetizzazione continua del movimento umano che raggiunge obiettivi possibili di qualsivoglia natura entro lo spazio definito dell’ecumene o dell’anecumene; ha pur tuttavia caratteristiche fisse come suspence e colpo di scena, e ha unito, sin dal primo vagito, ai luoghi esotici e lontani dei primordi, anche quelli moderni delle coscienze.