L’assistente sociale tutto pepe (1981)
di Nando Cicero
Regia: Nado Cicero. Soggetto e Sceneggiatura: Stefano Canzio, Alessandro Canzio, Marino Onorati. Fotografia: Eugenio Bentivoglio. Montaggio: Franco Letti. Musica: Andrea Lo Vecchio. Scenografia e Costumi: Toni Rossati. Assistente Regia: Massimo Manasse. Interpreti: Nadia Cassini, Renzo Montagnani, Yorgo Voayagis, Irene Papas, Fiorenzo Fiorentini, Nino Terzo, Gigi Ballista, Giovanni Vannini, Elvira Cortese, Sergio Di Pinto. Durata: 86’. Genere: Commedia Sexy. Teatri di Posa: De Paolis.
Tarda commedia sexy, non molto erotica, ma basata di fatto sulle virtù posteriori di Nadia Cassini, protagonista di alcune sequenze ravvicinate in vasca da bagno, durante una prolungata doccia dal taglio originale e ginecologico. Principale leitmotiv della pellicola, il sedere della bella americana, esibito in bicicletta, in parti oniriche ambientate in piscina e in una sequenza notturna sulla spiaggia di Ostia. Cicero confeziona una pellicola dignitosa, utilizza Nadia Cassini con l’accento americano, nei panni di un’improbabile assistente sociale impiegata per aiutare gli abitanti d’una periferia degradata. Il budget è modesto, quasi irrisorio, ma la bravura di Renzo Montagnani, Nino Terzo e Fiorenzo Fiorentini supplisce ai troppi buchi di sceneggiatura e a tante certe situazioni davvero prive di senso logico. Nadia Cassini cerca di redimere quattro ladruncoli dal cuore tenero, ma nel frattempo sogna di diventare una famosa showgirl (un film nel film è basato su spezzoni di spettacoli mal fotografati della bella soubrette) e di farsi sposare da un ricco americano. Molte sequenze surreali in puro stile Cicero e parecchia comicità slapstick che ricordano il cinema muto e la poetica dell’assurdo. Nadia Cassini sogna addirittura di essere la moglie di Jimmy Carter e parla con l’immagine del Presidente che si sporge da un quadro. Nino Terzo si fa notare per la caratteristica tartagliata e per i consueti ragionamenti del sedere, visto che produce scorregge a comando di inaudita violenza. Terzo si guadagna da vivere piangendo a pagamento ai funerali de nel sogno è addirittura il figlio di Carter. Renzo Montagnani è il sindaco -capoccia del gruppo di ladruncoli ispirato a I soliti ignoti e vorrebbe tanto far fuori una nonna invadente. Fiorenzo Fiorentini è un finto prete che insegna ai bambini l’arte dello scippo; Yorgo Voyagis è Bel Amì, il bello della situazione che fa innamorare la Cassini e alla fine convola a giuste nozze. Irene Papas è una presenza surreale, una sorta di fata buona che arriva dal mare a bordo di una canoa e decide di aiutare il popolo dei diseredati. Cicero preme l’acceleratore sul grottesco per nascondere carenze produttive e mancanza di denaro. Non fa certo cinema raffinato, come sempre, ma corporale e viscerale, lasciando liberi gli attori di realizzare rumori di scena. Ambientazione quasi pasoliniana, sul lungomare cadente di Ostia, tra baracche, casette di pescatori e spiagge abbandonate. Ultimo film di Gigi Ballista, attore quasi sempre calato nel ruolo del cummenda milanese, per l’occasione alto prelato in cerca di una preziosa reliquia. La pellicola è stata poco vista per colpa di una pessima distribuzione ma passa spesso sui canali del circuito satellitare Sky e sul digitale AB Channel. Non così male come dice la critica alta, tutto sommato divertente, imperdibile per i fan di Cicero e della Cassini.
Le farò da padre di Alberto Lattuada (1974)
Un buon Lolita all’italiana
Tre stelle
Regia di Alberto Lattuada. Direttore della fotografia: Lamberto Caimi. Musiche originali: Fred Bongusto. Soggetto: Bruno Di Geronimo. Sceneggiatura: Ottavio Jenna, Bruno Di Geronimo e Alberto Lattuada.
Intrerpreti: Gigi Proietti, Irenre Papas, Terse Ann-Savoy, Bruno Cirino, Mario Scaccia, Isa Miranda e Lina Polito.
Un film intelligente e profondo che racconta la passione amorosa di un avvocato intrallazzone (Proietti) per una minorata mentale (Ann- Savoy) sullo sfondo di una Puglia tradizionalista e cattolica.
L’avvocato Mazzacolli vuole mettere le mani sulle proprietà di una contessa (Papas) e – aiutato da un nobile locale (Scaccia) – inscena il rapimento della figlia ritardata che aveva chiesto in sposa. La manovra dovrebbe forzare la mano alla contessa, soprattutto per spingerla a concedere l’usufrutto delle proprietà al futuro marito. L’avvocato Mazzacolli si serve di un paio di complici sui quali vorrebbe far ricadere la colpa e la contesa non denuncia niente alla polizia, ma risolve in segreto il problema. Il finale è a sorpresa, anche perché l’avvocato non ha fatto i conti con l’amore, sentimento imprevedibile che modifica idee e situazioni.
Paolo Mereghetti ritiene la pellicola inferiore alle aspettative e troppo debitrice delle grazie acerbe di Terese Ann-Savoy (al debutto italiano), ma secondo noi è un ottimo lavoro che fotografa uno splendido spaccato di provincia italiana e racconta una storia torbida senza farsi prendere la mano da eccessivo voyeurismo. Lamberto Caimi dà un buon apporto come direttore della fotografia e certi squarci di costa pugliese a picco sul mare sono stupendi, così come la descrizione delle feste paesane in onore del santo patrono rappresentano un documentario culturale importante. Il soggetto deve molto a Lolita di Nabokov e alla trasposizione filmica operata da Kubrick, ma Lattuada percorre una strada originale per la vecchia storia dell’uomo maturo che perde la testa per una ragazzina. Prima di tutto inserisce il racconto all’interno di una critica alla borghesia di provincia e ne descrive vizi e difetti come l’arrivismo, il malaffare e la connessione mafiosa tra politica ed economia. Il sesso è la parte principale del film, ma è un valore positivo, come amore senza limiti che riscatta e riabilita, che modifica la vita e fa rinunciare a sotterfugi e meschinità. Gli attori sono tutti molto bravi e ben diretti. Luigi Proietti è in gran forma e interpreta il ruolo dell’uomo maturo che perde la testa per la ragazzina con grande credibilità. Mario Scaccia e Irene Papas sono ottimi comprimari di una storia che vede in primo piano soprattutto la strepitosa debuttante Terese Ann-Savoy. Alberto Lattuada è un regista che meglio di altri sa descrivere il corpo della donna, ma il suo modo di presentare il nudo femminile non è certo pornografico, come hanno accusato certi detrattori. Le farò da padre vive ancora oggi soprattutto per la scelta coraggiosa di Terese Ann-Savoy nel ruolo della efebica protagonista, sensuale e maliziosa nonostante gli evidenti limiti intellettivi.
Non si Sevizia un Paperino
(Italia, 1972 – Thriller)
Regia: Lucio Fulci. Soggetto: Lucio Fulci e Roberto Gianviti. Sceneggiatura: Lucio Fulci, Roberto Gianviti, Gianfranco Clerici. Fotografia: Sergio D’Offizi. Musiche: Riz Ortolani. Montaggio: Ornella Micheli. Scenografie: Pier Luigi Basile. Produzione: Luciano Martino per Medusa. Distribuzione: Medusa. Interpreti: Tomas Milian (Andrea Martelli, il giornalista), Florinda Bolkan (la maciara), Barbara Bouchet (Patrizia), Irene Papas (Amalia, la madre del prete), Marc Porel (don Alberto Mallone, il prete), George Wilson (zio Francesco), Antonello Campodifiori (tenente), Ugo D’Alessio (maresciallo), Virginio Gazzolo (il procuratore), Rosalia Maggio (una mamma), Domenico Semeraro (il finto bambino che recita con la Bouchet nuda), Linda Sini, Andrea Aureli (i Lo Cascio), Vito Passeri, Franco Balducci (padre di Michele), Duilio Crociani (Mario).
Questo thriller a tinte cupe e dai risvolti macabri ambientato in un paesino del sud Italia, quasi certamente delle Puglie perché nel film si nominano Alberobello e Pugnochiuso, è una delle cose migliori realizzate da Fulci. Thriller insolito per un’epoca moralista e bacchettona come quella dei primi anni Settanta che vedeva la Democrazia Cristiana alla guida dell’Italia e uno stuolo di giudici pruriginosi asserviti a un potere che assecondava la volontà della Chiesa. Il film parla di bambini strangolati, affogati e barbaramente uccisi e l’indagine condotta dalla polizia porta a sospettare prima dello scemo del paese, poi di una maciara (una specie di strega) e infine di Patrizia, una ragazza bella e ricca con problemi di droga. Alla fine si scopre che l’assassino è il prete, reso folle dal suo credo religioso portato alle estreme conseguenze. Lui non vuole che i ragazzi crescano e che si corrompano con il sesso e con la vita, vuole che rimangano puri come da bambini a giocare a calcio sul sagrato della chiesa. L’ambientazione della pellicola è a dir poco perfetta. Pare di assaporarne gli odori e di toccarlo con mano questo estremo sud depresso e in preda a superstizioni e diffidenze. Il film comincia con una donna che scava i poveri resti d’un bambino seppellito al bordo d’una strada. Si scoprirà solo dopo che è suo figlio e che lei è considerata da tutti una maciara, una sorta di strega. Tre bambini del paese hanno profanato la tomba del figlio. Subito dopo una Fiat Cinquecento (simbolo di un’epoca) arranca per una salita, scendono due uomini e due donne (di sicuro prostitute) che entrano in una casa di legno per fare l’amore. Intorno alla casa ci sono i bambini del paese che cercano di spiare il convegno amoroso e lo scemo del paese fa altrettanto. I bambini lo deridono e cominciano a cantare: “Lo scemo si fa le seghe …”. La camera si sposta di nuovo sulla maciara che sta facendo una specie di rituale vudù con bambolotti e spilloni. Altro cambio di scena e si passa alla sequenza incriminata del film, quella che tutti noi ragazzi degli anni Settanta ricordiamo con un misto di passione e di nostalgia: Barbara Bouchet (la ricca Patrizia) completamente nuda sdraiata su di un divano e un bambino che le serve la colazione. La sequenza è l’unica parte del film che contiene un alto grado di erotismo malsano. La donna incita il bambino più volte a guardarla, gli chiede quante ragazze ha avuto, domanda se gli piace il suo corpo, lo provoca. Barbara Bouchet è sensuale e maliziosa in questa scena che causò il sequestro del film. C’è chi dice che la produzione volle inserire la sequenza proprio per scatenare un caso e far salire l’interesse intorno alla pellicola, anche perché in sede di giudizio venne dimostrato che non era un bambino quello che recitava insieme alla Bouchet, ma un nano. Si trattava di Domenico Semeraro, “il nano della Stazione Termini” che faceva spesso il caratterista cinematografico e che venne ucciso negli anni Ottanta in un tragico fatto di cronaca. In realtà quello del bambino fu solo un pretesto per sequestrare un film che i cattolici vedevano come il fumo negli occhi per via del messaggio che trasmetteva.
La pellicola in questa prima parte pare confusa ma non lo è, ogni scena ha la sua importanza e getta i fili di sospetti e sottotrame che si ricollegheranno successivamente fino al sorprendente finale. Fulci descrive pure la vita quotidiana del pese con pennellate da vero maestro. Tutto questo sino al primo delitto di un bambino che viene trovato strangolato nel bosco. Quando suo padre riceve una ridicola richiesta di riscatto di soli sei milioni il primo a sospettare che hanno a che fare con un mitomane è un giornalista (un irriconoscibile Tomas Milian senza barba e privo del suo aspetto da trucido). In breve si arriva all’arresto dello scemo del paese che viene tradotto in carcere mentre grida che il bambino era già morto e che non è stato lui a ucciderlo. Prima la folla aveva tentato di linciarlo. Fulci a questo punto ci fa conoscere don Alberto Mallone, il prete del paese interpretato da un giovanissimo Marc Porel, intento a pregare sulla tomba del bambino ucciso.
Si scopre che lo scemo è innocente quando viene rinvenuto in un lavatoio il corpo strangolato di un secondo bambino che come il primo non presenta tracce di sevizie. Di nuovo la camera di Fulci insiste sulla maciara e sui malefici riti con i bambolotti e gli spilloni. Il parroco confessa al giornalista che lui conosce bene tutti i bambini del paese, gioca persino a calcio con loro sul campetto dietro la chiesa. Si lascia andare a una critica dei tempi moderni così tristi e senza morale, con la gente che va al cinema, guarda la televisione e compra giornali osceni. La figura di questo prete retrogrado e moralista è un segno dei tempi e Fulci critica con un personaggio quasi caricaturale un certo modo di intendere religione e morale. Il prete aggiunge pure che grazie a lui e al suo amico edicolante “certe riviste” non arrivano in paese. Quando passa Patrizia che indossa una sgargiante minigonna rossa il prete è in forte imbarazzo, il giornalista ironizza che con lei in paese la morale è in pericolo e la ragazza si prende gioco di don Alberto chiedendo quando è che i preti potranno sposarsi. Barbara Bouchet interpreta il personaggio di Patrizia, la ragazza di buona famiglia, ricca ma viziosa, presa in certi giri di droga e che il padre ha spedito al paesello per tenere sotto controllo. Certo che la sua presenza moderna e provocante contrasta in modo palese con lo stile di vita degli abitanti del posto. Patrizia diventa amica del giornalista e si confida con lui, ma quando muore strangolato nel bosco un terzo bambino la polizia comincia a sospettare di lei che non ha un alibi per la notte dell’omicidio. Tra l’altro il bambino che muore è proprio quello che l’ha vista nuda e il giorno prima aveva fatto un disegno che ritraeva le forme di una ragazza. Le indagini subiscono una svolta improvvisa dopo il funerale del terzo bambino, quando una telecamera riprende la maciara mentre entra in chiesa dopo tutti e ne esce quando una donna del pubblico grida che l’assassino è tra di loro. Poi un mago locale che tutti chiamano zio Francesco conferma che la donna è una maciara, una che fa strani riti e stregonerie. Durante l’interrogatorio la maciara confessa di essere l’assassina e di aver mandato la morte sui tre bambini colpevoli di aver profanato la tomba del figlio. Però aggiunge che non ha strangolato nessuno, lei ha chiesto a zio Francesco come si faceva e ha inviato una maledizione sui ragazzi. Stupenda interpretazione di Florinda Bolkan che tra l’altro recita una scena di epilessia da manuale e dopo racconta la sua fattura di morte a base di spilloni e pupazzi. Procuratore e maresciallo comprendono che hanno a che fare con una pazza invasata e che non è lei l’assassina. La maciara viene liberata ma la superstizione popolare l’ha già condannata e subito dopo quattro uomini la massacrano a colpi di bastone e di catene di ferro. La scena dell’omicidio della maciara è una delle più violente e ben girate del film, cruda al punto giusto, realistica, credibile.
Si intravede la bravura di un regista che in seguito sarà capace di realizzare capolavori di splatter e di gore. La donna muore nel cimitero del paese sotto i colpi violenti che la sfigurano e che le lacerano le carni mentre per contrasto una radio a tutto volume diffonde la voce di Ornella Vanoni mentre canta la romantica Quei Giorni Insieme a Te di Riz Ortolani. Notevole pure la scena che riprende la maciara mentre si spinge a fatica fuori dal cimitero e va a morire sulla tomba del figlio. Il giudizio del procuratore è la dura accusa lanciata da Fulci: “Abbiamo costruito le autostrade ma non abbiamo sconfitto la superstizione”. A questo punto i sospetti si appuntano su Patrizia e il regista è bravo a farlo credere sino in fondo, inquadrando la Bouchet prima mentre compra una bambola alla sorellina sordomuta del prete e poi mentre a bordo della sua auto sportiva si fa aiutare nel bosco da un bambino a cambiare una gomma. Nel frattempo don Alberto sta cercando lo stesso bambino nel bosco, lui sa che è andato a spiare le prostitute che fanno l’amore (“Così giovane e già così corrotto” mormora). Il giorno dopo quel bambino viene trovato affogato nel fiume e sul luogo del delitto il giornalista recupera l’accendino d’oro di Patrizia (è un Cartier e soltanto lei in paese se lo potrebbe permettere). Pare che tutto sia contro la donna, persino l’amicizia che ha con zio Francesco, la sua passione per la magia nera e il brutto vizio di fumare marijuana. Però la svolta decisiva alle indagini è la testa di un Paperino ritrovata sul luogo del delitto, una testa di Paperino che Fulci utilizzerà ancora a mo’ di omaggio al suo film più famoso nel successivo Lo Squartatore di New York. Il Paperino è un pupazzo della sorella sordomuta del prete, una bambina di sei anni che ha visto l’assassino uccidere e quindi ha imitato la stretta al collo sul bambolotto facendone cadere la testa. Donna Aurelia (un’Irene Papas sotto utilizzata), la madre del prete, ha paura e scappa sulle montagne per portare via la bambina da casa. Lei sa che suo figlio è pazzo e che la ucciderebbe di sicuro. Don Alberto insegue la mamma e le strappa la figlia per cercare di gettarla nel dirupo. Il finale è drammatico.
Patrizia e il giornalista arrivano in tempo per fermare il prete al culmine della sua follia religiosa. “Non posso lasciare che mi fermino, io li amo come fratelli e non abbandonerò i miei fratelli” dice mentre la bambina è nel vuoto. Il giornalista gli toglie la bambina dalle mani e dopo una scazzottata finale che coinvolge pure Patrizia è il prete che ha la peggio e precipita nel vuoto. Il folle don Alberto voleva impedire ai bambini di crescere e di avere una loro vita da adulti, il suo senso del peccato era così forte da sfociare in una follia omicida.
Secondo noi un film notevole, sia per la forza e per la violenza esplicita di alcune scene (il massacro della Bolkan, i bambini uccisi …), sia per il messaggio critico verso una società provinciale e bigotta come quella italiana degli anni Settanta. Da non dimenticare una perfetta ambientazione in un realistico Sud Italia e una costruzione senza sbavature da thriller orrorifico che fa conoscere l’identità dell’assassino solo nelle ultime sequenze. Riporto per intero il giudizio di Paolo Mereghetti: “Un film importante per la genesi del thriller italiano, in cui Fulci dimostra di conoscere perfettamente i meccanismi della paura; con in più il merito di discostarsi dai canovacci del cinema alla Argento, all’epoca già inflazionati, puntando invece sull’ambientazione insolita (con gli omicidi compiuti alla luce del sole) e su un’atmosfera morbosa tra sacro e peccato originale”. A Marco Giusti invece il film è piaciuto meno, forse perché come spesso gli capita non lo ha visto, infatti su Stracult scrive che la Bouchet interpreta una certa Barbara che non esiste (è Patrizia), poi si lascia andare alla definizione di “thrillerone meridionalista ultragore su un serial killer di bambini nel profondo sud” che non si può condividere. Dov’è il gore in questa pellicola? Giusti insiste dicendo che la Bolkan viene “lapidata dai suoi compaesani” e pure questo non è vero perché la maciara è uccisa con bastoni e catene da quattro persone e non con lancio di pietre nella pubblica piazza. Si va avanti con altre prelibatezze come quelle del prete “pedofilissimo”, mentre la pedofilia ci sta come il cavolo a merenda in una pellicola anni Settanta che non poteva occuparsi di un fenomeno al tempo sconosciuto. Ancora: “Fulci si scatena nella crudeltà e nell’eccesso” e pure questo non è vero. Il film presenta alcune scene violente ma del tutto funzionali e necessarie allo sviluppo della storia. L’unica cosa che concordiamo con Giusti è sulla necessità di procurarsi una VHS uncut per godere tutta la bellezza del film, dato che in televisione passa da anni una versione tagliatissima ai limiti dell’inguardabile.
Il film viene stroncato pure da Morando Morandini che bolla Fulci di “disonestà intellettuale nell’impiego della suspense, abuso di particolari orripilanti, sadomasochismo a piene mani, recitazione a ruota libera, disprezzo della logica”. Ovvio che non condividiamo e che preferiamo la tesi di Antonio Tentori che definisce il film come “un racconto nero di uccisioni di adolescenti e di follia ossessiva”. Per Tentori “Fulci costruisce un giallo sui generis, inedito nel modo in cui affronta le tematiche della suspense e della paura”. Il critico romano conclude che è “geniale l’idea del peccato e della pena del contrappasso per l’adolescente colpevole di comportarsi come un adulto, così come è notevole la figura del prete assassino che uccide perché vuole conservare la purezza dei suoi bambini”.